Transustanziazione: un’assurdità

   Non è il caso di entrare in una discussione filosofica in merito al concetto di transustanziazione. Qui s’intende solo fare un serio studio esegetico per verificare se la transustanziazione sia in armonia con la Bibbia oppure no. Tuttavia, non si può fare a meno di rilevare come il concetto di transustanziazione risulti del tutto inconcepibile e finanche assurdo.

   Tutti comprendiamo come il pane che una persona normalmente mangia si trasformi poi nel corpo della persona stessa: le sostanze assimilate dal pane mangiato e digerito diverranno sangue, carne, grasso e altro, ma non si potrà mai dire che quel pane assimilato diverrà tutto il corpo. Esso diverrà solo una parte del corpo. Nell’eucaristia, al contrario, il pane si trasformerebbe in tutto il corpo di Yeshùa e, di conseguenza, il corpo si troverebbe in ogni minima particella del pane. Tuttavia, un gesuita cattolico asserisce: “La materia è in continuo flusso. Si scinde, si disgrega. Dai corpi composti si separano i molteplici; poi questi nuovamente confluiscono a ridare corpi composti. La materia inerte e morta, assorbita, assimilata, si muta in materia viva. Un vivente, servendo da nutrimento ad un altro vivente, può elevarsi a forma di vita più alta. Il cibo preso è triturato, scisso, disciolto nei suoi elementi, diventa la nostra sostanza. Il pane diventa carne, sostanza dell’uomo, diventa uomo”.

   Anche filosoficamente, abbiamo notato come il paragone tratto dall’assimilazione del cibo non ha nulla a che fare con l’asserita transustanziazione. Sebbene in ogni minima particella di pane vi sia tutta la sostanza del pane, questo non vale per il corpo umano. Una particella di corpo umano sarà una particella, ad esempio, di fegato o di cervello; ma non si potrà mai asserire che con quella particella abbiamo tutto il corpo. Per avere un corpo umano (che è molto più organizzato del pane) si devono avere tutte le parti del corpo umano. Più comprensibile sarebbe il fatto del sangue: ogni goccia di sangue è sangue. Infatti, analizzando una minima traccia di sangue il chimico sa dire se quello è sangue o no. Tuttavia, si noti che Yeshùa non disse: ‘Questo è parte del mio sangue’, ma disse: “Questo è il mio sangue” ovvero ‘tutto il mio sangue’. Ora, quando si analizza una goccia di sangue, si può dire che lì è presente il sangue umano, ma non si potrà mai dire che sia presente tutto il sangue di un uomo: è presente solo una piccolissima parte di quel sangue. Nel caso di Yeshùa, al contrario, se si volesse armonizzare la concezione cattolica con il pensiero biblico, si dovrebbe asserire che nel pane consacrato non solo è presente la sostanza del sangue, ma anche tutto il sangue (quello che pulsava nelle vene di Yeshùa mentre parlava).

   Non si vede quindi come non si possa parlare di assurdità nella concezione cattolica. Del resto, questa assurdità è ben celata nella definizione di “mistero eucaristico”. Sarebbe poi interessante vedere se la concezione cattolica, poggiante sulla filosofia scolastica medievale, si possa armonizzare con i postulati scientifici e filosofici odierni.

   La scienza e la filosofia non conducono lontano in questo ragionamento. Occorre tornare alla Scrittura. Qui, comprendendo il simbolismo di cui Yeshùa si serve, ogni assurdità scompare.

Segno e realtà nella Bibbia

   La Cena del Signore è un segno-ricordo. In Paolo leggiamo: “Fate questo in memoria [greco ἀνάμνησιν, anàmnsesin] di me” (1Cor 11:24). Queste parole di Yeshùa richiamano espressamente le altre parole riguardanti la Pasqua, nel cui contesto anche quelle di Yeshùa furono pronunciate:

“Ciò sarà per te come un segno sulla tua mano,

come un ricordo [ebraico זִכָּרֹון, zikaròn] fra i tuoi occhi”.

Es 13:9.

   La parola greca “memoria” (ἀνάμνησις, anàmnesis) nella Bibbia traduce sempre l’ebraicoזִכָּרֹון  (zikaròn) che significa “il trarre alla coscienza il ricordo di un evento passato”. È quindi in questa categoria del segno-ricordo che dobbiamo intendere la Cena del Signore.

   I profeti amavano accompagnare la loro missione con frequenti atti simbolici destinati a incidere maggiormente nell’animo dei loro uditori la verità che desideravano comunicare. Il loro atto diveniva quindi una predicazione mediante gesti, formante con il loro insegnamento verbale un’unità inscindibile e compatta.

   Ad esempio, il profeta Geremia mette a marcire nelle terre umide del fiume Eufrate la sua cintura per significare che i legami che tenevano uniti il popolo eletto a Dio ormai non tenevano più: “Così mi ha detto il Signore: ‘Va’, comprati una cintura di lino, mettitela attorno ai fianchi […] Prendi la cintura che hai comprata e che hai attorno ai fianchi; va’ verso l’Eufrate e nascondila laggiù nella fessura d’una roccia’. […] Togli di là la cintura che io ti avevo comandato di nascondervi’. […] Scavai e tolsi la cintura dal luogo dove l’avevo nascosta. Ecco, la cintura era marcita, non era più buona a nulla. […]  Così parla il Signore: ‘In questo modo io distruggerò l’orgoglio di Giuda e il grande orgoglio di Gerusalemme, […] esso diventerà come questa cintura, che non è più buona a nulla. Infatti, come la cintura aderisce ai fianchi dell’uomo, così io avevo strettamente unita a me tutta la casa d’Israele e tutta la casa di Giuda’”. – Ger 19:1-13, passim.

   Un’altra volta Geremia rompe un vaso in presenza del popolo per preannunciare la rovina di Gerusalemme: “Così ha detto il Signore: ‘Va’, compra una brocca di terracotta da un vasaio […] Dirai così: Ascoltate la parola del Signore, o re di Giuda, e abitanti di Gerusalemme! […] Farò di questa città una desolazione’. […] Poi tu spezzerai la brocca in presenza di quegli uomini. Così spezzerò questo popolo e questa città, come si spezza un vaso di vasaio’”. – Ger 19:1-13, passim.

   Il bagaglio che il profeta Ezechiele porta a spalla simboleggia l’esilio che attende gli ebrei: “Fa’, in loro presenza, un foro nel muro, e attraverso di esso porta fuori il tuo bagaglio. Portalo sulle spalle, in loro presenza. […] Io faccio di te un segno per la casa d’Israele. Di’: ‘Io sono per voi un segno; come ho fatto io, così sarà fatto a loro: essi andranno in esilio, in schiavitù’”. – Ez 12:5-11, passim.

   Yeshùa, il più grande dei profeti, fece come i profeti, ripetendo spesso dei gesti simbolici destinati a essere un segno per la gente del suo tempo. Come quando pronuncia una parabola silenziosa scrivendo per terra (“Chinatosi, si mise a scrivere con il dito in terra” – Gv 8:6), richiamando così la figura espressa da Ger 17:13 (“Speranza d’Israele, o Signore, tutti quelli che ti abbandonano saranno confusi; quelli che si allontanano da te saranno iscritti sulla polvere, perché hanno abbandonato il Signore”) come un appello al ravvedimento, davanti alla donna adultera e ai suoi accusatori. Come quando, per sottolineare la necessità del mutamento, pone in mezzo ai discepoli un bambino. – Mt 18:1-6.

   È in questa categoria che si pone il gesto compiuto da Yeshùa nella sua ultima cena. Distribuendo il pane e il vino (che accompagna con delle parole esplicite), Yeshùa intendeva compiere un segno simbolico destinato ad imprimere nelle menti dei discepoli ciò che di lì a poco si sarebbe attuato nel suo corpo e nel suo sangue, quando sarebbe morto sulla croce per la redenzione del genere umano.

   Questa categoria del segno è qualcosa di profondo che oggi, nel nostro mondo occidentale e moderno, va compreso bene. Il segno nella Bibbia è essenzialmente connesso con la realtà prefigurata per volontà di Dio e che ne garantisce l’efficacia.

   Se il segno non s’avvera è prova che esso non è un vero segno divino, ma solo un atto compiuto da un falso profeta: “Se tu dici in cuor tuo: ‘Come riconosceremo la parola che il Signore non ha detta?’ Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non succede e non si avvera, quella sarà una parola che il Signore non ha detta; il profeta l’ha detta per presunzione” (Dt 18:21,22). Vi è quindi un rapporto inscindibile tra segno e adempimento. Mediane il segno, gli atti del profeta fanno entrare anticipatamente nella realtà degli avvenimenti futuri da esso prefigurati. L’atto compiuto dal profeta nel segno o simbolo costituisce una parte – già realizzata, nella mentalità biblica – dell’avvenimento annunciato, un vero e proprio pegno del suo imminente adempimento totale.

   Un esempio chiarissimo di questa identificazione tra segno e realtà l’abbiamo in 2Re 13:14-19: “Eliseo si ammalò di una malattia che doveva condurlo alla morte; e Ioas, re d’Israele, scese a trovarlo, pianse su di lui, e disse: ‘Padre mio, padre mio! Carro e cavalleria d’Israele!’ Eliseo gli disse: ‘Prendi un arco e delle frecce’. E Ioas prese un arco e delle frecce. Eliseo disse al re d’Israele: ‘Impugna l’arco’. Egli impugnò l’arco; Eliseo posò le sue mani sulle mani del re, poi gli disse: ‘Apri la finestra a oriente’. E Ioas l’aprì. Allora Eliseo disse: ‘Tira!’ Egli tirò. Ed Eliseo disse: ‘Questa è una freccia di vittoria da parte del Signore: la freccia della vittoria contro la Siria. Tu sconfiggerai i Siri ad Afec sino a sterminarli’. Poi disse: ‘Prendi le frecce’. Ioas le prese, ed Eliseo disse al re d’Israele: ‘Percuoti il suolo’. Egli lo percosse tre volte poi si fermò. L’uomo di Dio si adirò contro di lui, e disse: ‘Avresti dovuto percuoterlo cinque o sei volte; allora tu avresti sconfitto i Siri fino a sterminarli; mentre adesso non li sconfiggerai che tre volte’”.

   Per la medesima ragione Anania, falso profeta, nella speranza di infrangere il segno di Geremia, che a pegno della futura sottomissione alla Babilonia se ne andava in giro con un giogo al collo, “prese il giogo dal collo del profeta Geremia e lo spezzò” (Ger 28:10). Distrutto il segno, sembrava naturale che fosse annientata la realtà. Ma Anania non ha questo potere: il segno, voluto da Dio, non poteva essere distrutto da mani umane. Infatti Geremia gli rispose: “Tu hai spezzato un giogo di legno, ma hai fatto, invece di quello, un giogo di ferro. Infatti così parla il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: ‘Io metto un giogo di ferro sul collo di tutte queste nazioni perché siano sottomesse a Nabucodonosor, re di Babilonia; ed esse gli saranno soggette; e gli do pure gli animali della campagna’” (vv. 13,14). La parola di Dio, espressa nel segno del gioco, era così sicura che riguardo alla certezza dell’adempimento viene fatta da Dio anche dell’ironia alla volta di Anania: “E gli do pure gli animali della campagna”!

   Il segno- ricordo ha anche la potenza di rendere attuale una realtà passata. Al figlio che gli domanda il perché del rito pasquale, il padre deve rispondere: “Si fa così a motivo di quello che il Signore fece per me quando uscii dall’Egitto”. – Es 13:8.

   Identico è il valore della Cena del Signore: mediante il banchetto del pane e del vino viene attuato un segno che ha un rapporto inscindibile con la realtà del Calvario. Tale azione simbolica rende presente la realtà della morte di Yeshùa il consacrato, del suo sangue versato e del suo corpo dato per noi.

   Ciò accade non per un cambiamento di sostanza o transustanziazione, ma in virtù del nesso inscindibile che nella Bibbia si ha tra segno e realtà. Nella cena pasquale l’agnello rimane agnello e il pane azzimo rimane pane azzimo; ma essi assumono un nesso con la liberazione dalla schiavitù, di cui divengono evocazione meravigliosa e rappresentazione attuale. Anche le frecce rimasero frecce, ma rendevano già attuali le vittorie contro gli aramei di Siria. Così il pane rimane pane e il vino rimane vino, ma essi si identificano con il corpo e il sangue di Yeshùa in quel simbolismo concreto che è una delle categorie ebraiche e quindi bibliche.