Lea (לֵאָה, Leà, “stanca”)

“Labano aveva due figlie: la maggiore si chiamava Lea e la minore Rachele”. – Gn 29:16.

   Oltre ad essere la figlia maggiore di Labano, Lea era anche pronipote di Abraamo; suo padre Labano era fratello di Rebecca, madre di Giacobbe, quindi Lea era anche cugina di Giacobbe (Gn 22:20-23;24:24,29;29:16). A differenza della bella sorella minore Rachele, Lea non era così bella: “Lea aveva gli occhi delicati, ma Rachele era avvenente e di bell’aspetto” (Gn 29:17); TNM dice che i suoi occhi “non brillavano”; la Bibbia dice che עֵינֵי לֵאָה רַכֹּות  (eynè leà rakòt), “occhi di Lea soffici”. È cosa discussa se l’aggettivo rakòt (רכות) debba essere preso a significare “delicati” o “deboli”. Alcune traduzioni dicono che potrebbe significare che avesse gli occhi azzurri o di colore chiaro (David Bivin, Leah’s Tender Eyes). Rashì, il famoso commentatore biblico, cita un’interpretazione rabbinica secondo cui gli occhi di Lea erano diventati deboli. Stando a questo racconto rabbinico (che sa molto di leggenda), Lea sarebbe stata destinata a sposare Giacobbe, fratello gemello di Esaù. Nell’intendimento rabbinico, i due fratelli si opposero, essendo Giacobbe un timorato di Dio ed Esaù un cacciatore omicida, idolatra e adultero; ma la gente diceva che Labano aveva due figlie e sua sorella Rebecca aveva due figli, e che la figlia maggiore (Lea) si sarebbe sposata con il figlio maggiore (Esaù) e la figlia più giovane (Rachele) si sarebbe sposerà con il figlio più giovane (Giacobbe). Udito questo – prosegue questo racconto – Lea trascorse la maggior parte del suo tempo piangendo e pregando Dio di cambiare il compagno che le era destinato. Così la Toràh descriverebbe gli occhi di Lea come “soffici” (רכות, rakòt) per il pianto. Le lacrime di Lea, insieme alle sue preghiere, le avrebbero permesso di sposare Giacobbe prima di Rachele. Siamo ovviamente di fronte a interpretazioni di fantasia. Comunque, per le donne orientali gli occhi lucenti o splendenti erano indice di bellezza. – Cfr. Cant 1:15;4:9;7:4.

   Giacobbe prese in moglie Lea attraverso un inganno del padre (Gn 29:23). Lea partorì a Giacobbe sei figli (Gn 29:32,35;30:16-20) e anche una figlia, Dina (Gn 30:21). Lea accompagnò Giacobbe in Canaan e qui morì prima che la famiglia scendesse in Egitto (Gn 31). Fu sepolta nella grotta di Macpela. – Gn 49:31.

   Lea fu la madre di ben sei delle dodici tribù di Israele: Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Issacar e Zabulon.

   Questa donna soffrì la rivalità di Rachele, sua sorella minore. “Il Signore, vedendo che Lea era odiata, la rese feconda; ma Rachele era sterile . . . Lea concepì, partorì . . . disse: ‘Il Signore ha visto la mia afflizione’ . . . Poi concepì di nuovo e partorì un figlio, e disse: ‘Il Signore ha udito che io ero odiata, e mi ha dato anche questo figlio”. – Gn 29:31-33.

   I testi classici cassidici spiegano la rivalità delle sorelle come gelosia coniugale. Ciascuna delle due donne desiderava crescere spiritualmente nella sua avodàt Hashem (servizio di Dio), e quindi cercarono la vicinanza di Giacobbe che aveva la benedizione di Dio. Sposando Giacobbe e avendo suoi figli avrebbero sviluppato un rapporto ancora più vicino a Dio. Per cui, Lea e Rachele volevano avere da Giacobbe ciascuna più figli possibile, tanto che arrivarono ad offrire le loro serve per raggiungere lo scopo (Gn 30:3-13). In Gn 30:14-24 è narrata la gara tra le due per avere figli da Giacobbe.

   Ciascuna delle due donne mette continuamente in discussione se stessa nel suo impegno personale verso una maggiore spiritualità, usando l’altra come parametro per stimolare se stessa. Rachele invidiò le preghiere in lacrime di Lea. Il Talmùd dice che Rachele rivelò a Lea il segnale segreto che lei e Giacobbe avevano ideato per identificare la sposa velata, perché entrambi sospettavano l’inganno di Labano. “Giacobbe amava Rachele e disse a Labano: ‘Io ti servirò sette anni, per Rachele tua figlia minore’ . . . Giacobbe servì sette anni per Rachele; e gli parvero pochi giorni, a causa del suo amore per lei. Poi Giacobbe disse a Labano: ‘Dammi mia moglie, perché il mio tempo è compiuto, e io andrò da lei’. Allora Labano radunò tutta la gente del luogo e fece un banchetto. Ma, la sera, prese sua figlia Lea e la condusse da Giacobbe, il quale si unì a lei . . .  L’indomani mattina ecco che era Lea!”. – Gn 29:18-25; Talmùd, Meghilà 13b.

Le più sagge delle dame (חַכְמֹות שָׂרֹותֶיהָ, khachmòt sarotèyha, “le più sagge delle sue principesse”)

Le più sagge delle sue dame le rispondono”. – Gdc 5:29.

   Queste dame di compagnia si trovarono in una condizione che molti si trovano ad affrontare: attendere qualcuno che si ama e aspettarlo con ansia, sperando che torni presto.

   La scena descritta non fa parte di una narrazione storica, ma del canto di vittoria di Debora (si veda Debora). La scena, molto realistica, è immaginata da Debora che canta la sua vittoria. Sisera, l’odiato e detestabile nemico di Israele è stato ucciso, e lei ironicamente immagina le dame di compagnia della madre di lui che cercano di rassicurarla. “Sì, certo, hanno fatto bottino e stan facendo le parti: una ragazza per ciascuno; a Sisara toccano stoffe colorate, ricamate e pregiate” (Gdc 5:30, PdS). Definire queste dame “le più sagge” è una stoccata, tutta femminile, che Debora dà loro. Intanto, il loro eroe è morto. Vittima di una donna ebrea al di là del fronte. L’ironia è colorita con fronzoli tutti femminili: “Stoffe colorate, ricamate e pregiate”.

Levatrice (מְיַלֶּדֶת, meyalèdet, “levatrice”)

“Mentre penava a partorire, la levatrice le disse: ‘Non temere, perché questo è un altro figlio per te’”. – Gn 35:17.

   Si tratta di “quando Rachele [la moglie prediletta di Giacobbe] partorì. Ella ebbe un parto difficile”. – Gn 35:16.

Lidia (Λυδία, Lüdìa, “abitante (femminile) della Lidia”)

“Il sabato andammo fuori dalla porta, lungo il fiume, dove pensavamo vi fosse un luogo di preghiera; e sedutici parlavamo alle donne là riunite. Una donna della città di Tiatiri, commerciante di porpora, di nome Lidia, che temeva Dio, ci stava ad ascoltare. Il Signore le aprì il cuore, per renderla attenta alle cose dette da Paolo. Dopo che fu battezzata con la sua famiglia, ci pregò dicendo: ‘Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, entrate in casa mia, e alloggiatevi’. E ci costrinse ad accettare”. – At 16:13-15.

   Qui incontriamo Lidia, una delle donne più fraintese della Bibbia. Le varie chiese insegnano che Lidia era una donna ricca che sostenne finanziariamente la congregazione locale. Alla base di questo insegnamento c’è la connotazione biblica che la riguarda: “Commerciante di porpora”. Ciò, tuttavia, è solo uno degli elementi della descrizione.

   Il primo elemento d’informazione, per importanza, il testo ce lo dà riguardo alla sua collocazione nel racconto. Paolo incontra un gruppo di donne “fuori dalla porta [della città di “Filippi, che è colonia romana e la città più importante di quella regione della Macedonia”, At 16:12], lungo il fiume”. Si noti che Luca, scrittore di At, dice che lui e il gruppo di Paolo andarono là “dove pensavamo vi fosse un luogo di preghiera”. Il testo specifica che era sabato, per cui Paolo e il suo gruppo, santificando il sabato, cercavano un luogo di preghiera. A Filippi, città greca e “colonia romana”, una sinagoga non c’era, altrimenti Paolo ci sarebbe andato, conformemente alla sua abitudine (cfr. At 13:14,42,44;18:4). Quelle donne però non erano ebree e quello non era luogo di preghiera, tanto è vero che Luca non dice che pregarono ma dice solo: “Sedutici parlavamo alle donne là riunite”. Non trovando il luogo di preghiera che cercavano, ne approfittarono per parlare della fede in Yeshùa a quelle donne.

   Che facevano lì quelle donne? Certo non pregavano. Che motivo ne avrebbero avuto? Erano donne pagane. L’espressione “Lidia, che temeva Dio” non va fraintesa. La traduzione che ne fa TNM, “adoratrice di Dio”, è sbagliata e fuori luogo. Il testo originale greco ha σεβομένη (sebomène) che è il participio presente femminile medio del verbo σέβομαι (sèbomai). Questo verbo, è vero, può anche significare “adorare”, ma questo è un significato secondario: tra gli otto significati di questo verbo, “adorare” è l’ottavo ovvero l’ultimo. Il verbo significa prima di tutto “coltivare”, da cui il senso di coltivare spiritualmente, con il significato di “darsi pensiero di”. Questo significato è evidente in At 17:4: “una gran folla di Greci pii [σεβομένων (sbomènon), “che si davano pensiero”, sottinteso: di Dio]”; qui TNM traduce “che adoravano [Dio]”, ma se già adoravano Dio che senso avrebbe dire che “divennero credenti” (Ibidem, TNM)? Ha invece senso, conformemente al significato del verbo greco, dire che quei greci pagani divennero credenti perché, con la predicazione di Paolo che li convinse, già “si davano pensiero” (σεβομένων, sbomènon) di Dio. Lidia era alla ricerca di un rapporto con Dio, lei “si dava pensiero per Dio [σεβομένη τὸν θεόν (sebomène ton theòn)]”. Il verbo vero e proprio che il greco usa per “adorare” è προσκυνέω (proskünèo): “Adora [προσκυνήσεις (proskünèseis)] il Signore Dio tuo e a lui solo rendi il culto”. – Mt 4:10.

   Quelle donne stavano lavorando, ecco perché il testo specifica: “Una donna della città di Tiatiri, commerciante di porpora, di nome Lidia”.

   A quel tempo c’erano due tipi di stoffa rosso porpora disponibili e per questi si usavano due coloranti diversi. Uno, a base di frutti di mare, era un bene di lusso, legalmente disponibile solo per la famiglia imperiale (cfr. Treccani). L’altro colorante era un vegetale che richiedeva l’accesso ad acque dolci, come quelle di un fiume. Il processo di tintura era maleodorante e costringeva i tintori a lavorare fuori dalle porte della città. “Fuori dalla porta, lungo il fiume” (At 16:13) era il posto ideale per il lavoro di Lidia: lontano dalla città e con disponibilità di acqua dolce corrente.

   Non a caso, la zona più conosciuta dell’industria della porpora era Tiàtira, e Lidia era una “donna della città di Tiatiri”. In parole povere, Lidia lavorava in un posto puzzolente, producendo a caldo, in un posto relegato all’esterno della città.

   In realtà, Lidia doveva essere ben consapevole del suo lavoro ai margini della società. Tuttavia, male non doveva andarle, visto che aveva una casa abbastanza grande da poter ospitare il gruppo di Paolo (At 16:15). Tuttavia, il suo stesso nome (Lidia) dice della sua condizione.. Il nome “Lidia” non era un nome vero e proprio di persona. La Lidia era un luogo. La Lidia (in assiro: Luddu; in greco: Λυδία, Lüdìa) era ed è un’antica regione localizzata nell’Asia Minore (moderna Turchia) occidentale. Cosa significa questo? Occorre sapere che “i nomi degli schiavi sono riconoscibili, perché derivavano dal nome della località da cui provenivano” (Tiziana Momigliano, Il latino con gioia. Lezioni di una professoressa, Milano, 2009). Le uniche persone quindi che avevano i nomi di luogo come nome personale erano gli schiavi. Costoro non erano neppure considerate persone ma cose che non meritavano nemmeno un nome: erano semplicemente chiamate dal luogo da cui erano state prese. Nonostante la sua condizione, Lidia aveva deciso di seguire il Dio degli ebrei.

   Infine, abbiamo il dettaglio che Lidia aveva una famiglia. Era sposata, nubile, vedova? Non lo sappiamo, ma sappiamo che “fu battezzata con la sua famiglia”. – At 16:15.

   “Dopo che fu battezzata con la sua famiglia, ci pregò dicendo: ‘Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, entrate in casa mia, e alloggiatevi’. E ci costrinse ad accettare” (At 16:15). Bello questo passaggio che ci dice tutto il modo femminile di Lidia. Lei vuole mostrare la sua gratitudine. Usa perfino una lusinga, “ricattando” con la sua attrattiva femminile il recalcitrante Paolo: “Se avete giudicato che io …”. Conoscendo il caratterino di Paolo, viene da sorridere immaginandolo mentre è costretto ad accettare l’invito: “Ci costrinse ad accettare”.

Lilit (לִּילִית, liylìyt, “demone femminile della notte”)

 “Le bestie del deserto vi incontreranno i cani selvatici, le capre selvatiche vi chiameranno le compagne; là Lilit farà la sua abitazione, e vi troverà il suo luogo di riposo”. – Is 34:14.

   La parola lilìt, di genere femminile (e che in tutta la Bibbia si trova solo qui), è semplicemente traslitterata dall’ebraico da NR, è tradotta “caprimulgo” da TNM, “uccello della notte” da Did e “civetta” da CEI e da ND. La traduzione “civetta” di CEI e di ND non è buona, giacché questo uccello lo troviamo già in NR al v. 1: “La civetta e il corvo vi abiteranno”, dove neppure appare come buona traduzione dell’ebraico קִפֹּוד (qipùd), “riccio”, “porcospino” per TNM. Il caprimulgo è un uccello che al tramonto vola su greggi di capre per catturarne gli insetti parassiti; la civetta è pure un uccello notturno ed è un predatore rapace. Il contesto di Is 34:14 spiega bene la scelta dei traduttori di identificare lilìt con un uccello notturno: vi si parla di “bestie del deserto”, di “cani selvatici” e di “capre selvatiche”. La scelta di NR di non tradurre ma di traslitterare semplicemente ci mette però sull’avviso: se l’identificazione di lilìt con un uccello notturno è così ovvia, perché questa versione non l’adotta? Alcuni ritengono che si tratti di un demone femminile, altri ritengono invece che sia il nome di un tipo di uccello.

   La LXX greca traduce l’ebraico לִּילִית (liylìyt) con la parola greca ὀνοκενταύρος (onokentàuros) usata al plurale: “onocentauri”. L’onocentauro è un centauro che anziché avere la forma umana (dalla testa all’ombelico) poggiata su un cavallo, l’ha posta su un asino, come si deduce dal prefisso ono-, derivato dal greco ὄνος (ònos), “asino”. Il v. 14 completo di Is 34 nel greco della LXX è: συναντήσουσιν δαιμόνια ὀνοκενταύροις καὶ βοήσουσιν ἕτερος πρὸς τὸν ἕτερον: ἐκεῖ ἀναπαύσονται ὀνοκένταυροι, εὗρον γὰρ αὑτοῖς ἀνάπαυσιν (süvantèsusis daimonìa onokentàurois kài boèsusin èteros pros ton èteron: ekèi anapàusontai onokèntauroi, èuron gar autòis anàpausin), “si riuniscono demoni a onocentauri e si chiamano l’un l’altro: lì si riposano gli onocentauri, hanno trovato infatti per loro riposo”. La scelta della parola ὀνοκενταύρος (onokentàuros) pare dettata dalla mancanza di una parola più adatta, dato che appena poco prima questa parola era già stata usata. Inoltre, in questa versione greca mancano del tutto “le bestie del deserto”, “i cani selvatici” e “le capre selvatiche”. Diciamo pure che la traduzione di questo versetto presso la LXX è alquanto confusa.

   La Vulgata latina traduce così il passo in questione: occurrent daemonia onocentauris et pilosus clamabit alter ad alterum ibi cubavit lamia et invenit sibi requiem, “s’incontreranno demoni e onocentauri e quelli pelosi si chiameranno l’un l’altro dove la lamia stazionerà e troverà per sé riposo”. La lamia, nell’antichità greca, era una figura mitologica in parte umana e in parte animalesca; era una rapitrice di bambini, un fantasma seduttore che adescava giovani maschi per poi nutrirsi del loro sangue e della loro carne. Va osservato che questo vampiro è associato al vampiro Strix della leggenda romana (cfr. Orazio, De Arte Poetica liber, 340). Quest’ultimo probabilmente è passato nel 5° secolo alla Vulgata della Chiesa Cattolica, che ha tradotto la parola con “lamia”. – Cfr. M. Summers, Vampire: His Kith and Kin, Kessinger Publishing, 2003, pag. 356; Parallel Latin Vulgate Bible and Douay-Rheims Bible and King James Bible; The Complete Saying of Jesus Christ.

   Lilìt, in ebraico לִּילִית e in arabo ليليث, appare per la prima volta in Mesopotamia come un demone femminile associato al vento. Fu creduta portatrice di malattia e morte. Intorno al 4000 a. E. V. presso i sumeri faceva parte della categoria dei venti e delle tempeste associati a demoni e spiriti. Il suo nome era Lilitu, come appare in iscrizioni cuneiformi. Molti studiosi ritengono che il passaggio fonetico a Lilìt avvenne intorno al 700 a. E. V.. Un’altra etimologia fa derivare la parola ebraica dalla parola, sempre ebraica, לילה (làyla), “notte”. Un’altra etimologia la fa derivare dal sumerico lil (“aria”), e in particolare da nin-lil, la signora della notte, la dea del vento del sud, la luna, moglie di Enlil. Lo studioso Schrader, su quest’onda, suggerisce che Lilìt sia una divinità della notte, conosciuta dagli ebrei esuli in Babilonia. – Jahrbuch für Protestantische Theologie, 1. 128.

   Nella tradizione ebraica non biblica si usa un amuleto che viene messo attorno al collo dei neonati maschi per proteggerli da Lilìt fino alla circoncisione. Vi è anche una tradizione ebraica secondo cui si deve aspettare un po’ prima che i capelli di un bambino vengano tagliati, in modo da ingannare Lilìt facendole pensare che il bambino sia una bambina, così che la vita del bimbo possa essere risparmiata. Sebbene si tratti ovviamente solo di superstizioni, queste pratiche avvalorano la tesi secondo cui esisteva una Lilìt ebraica e che quindi non si tratti d’invenzioni di autori medioevali successivi.

   Per quanto riguarda la presenza di Lilìt nei Rotoli del Mar Morto, il primo e irrefutabile riferimento a Lilìt si verifica in 4Q510, frammento 1: “E io, l’istruttore, proclamo il Suo Splendore Glorioso, in modo da spaventare e terrorizzare tutti gli spiriti degli Angeli Distruttori, spiriti dei bastardi, demoni, Lilith e abitanti del deserto”. Affine a Is 34:14, questo testo liturgico mette in guardia contro la presenza malevola e soprannaturale di vari demoni e di Lilìt. Questo testo qumranico serviva da esorcismo (4Q560) e come canto esorcistico per disperdere i demoni (11Q11), tanto che è composto da incantesimi. Tra parentesi, questo testo ci presenta una comunità profondamente coinvolta nella demonologia. Un altro testo scoperto a Qumràn, tradizionalmente associato al libro biblico di Proverbi, si colloca nella tradizione di Lilìt descrivendo la donna seducente, la “seduttrice” (4Q184). Tale poema è antico (risale al primo secolo a. E. V., ma plausibilmente è molto più vecchio) e descrive una donna pericolosa, mettendo in guardia chi volesse avere incontri con lei. Abitualmente, la donna raffigurata in questo testo è equiparata alla donna di Pr 2:18,19: “La sua casa si accascia a morte, e il suo corso conduce alla fatalità. Tutti coloro che vanno a lei non possono tornare e ritrovare i sentieri della vita”. Tuttavia, ciò di cui in quest’abituale associazione non si tiene molto in considerazione è la descrizione aggiuntiva che il testo qumranico fa della seduttrice, vale a dire le sue ali: “Una moltitudine di peccati è nelle sue ali” (4Q184). La donna di cui si parla in Pr è senza dubbio una prostituta, un tipo di donna presente nella società ebraica e che costituiva una minaccia alla purezza dell’ebreo. La seduttrice del testo di Qumràn, al contrario, non avrebbe potuto rappresentare una minaccia sociale perché lì prostitute non ce n’erano: le restrizioni che questa particolare comunità ascetica e monastica s’imponeva non lo permettevano. Invece, il testo di Qumràn utilizza l’immagine di Pr per spiegarne una molto più grande: la minaccia soprannaturale, la minaccia della demoniaca Lilìt.

   Vediamo ora la presenza di Lilìt nel Talmùd. Anche se i riferimenti talmudici a Lilìt sono sporadici, tali passaggi forniscono la miglior immagine del demone femminile trovata finora nella letteratura giudaica. Vi si trova una eco delle origini mesopotamiche di Lilìt e una prefigurazione del suo futuro come enigma esegetico della Genesi. Ci sono allusioni talmudiche a Lilìt che illustrano le sue ali e i suoi capelli lunghi, proprio come nell’Epopea di Gilgamesh, il poema epico babilonese scritto in caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla e che è ben più antico della Bibbia. Vediamo queste citazioni talmudiche. “Rab Judah citando Samuele dice: Se un aborto ha somiglianza con Lilith, sua madre è impura a causa della nascita, perché è un bambino, ma ha le ali” (Niddah 24b). “[Esposizione delle maledizioni della femminilità] In un Baraitha è insegnato: Le crescono lunghi capelli, è divenuta una Lilith, beve acqua come una bestia e funge da cuscino a suo marito” (Erubin 100b). Un passo del Talmùd, in merito Lilìt, tratta della sua carnalità pericolosa, cui si allude parlando della seduttrice, ma che è estesa senza metafore all’idea del demone femminile che assume la forma di una donna per stare sessualmente con gli uomini durante il sonno: “R. Hanina ha detto: . . . Chiunque dorma in una casa da solo è preso da Lilith” (Shabbath 151b). Tuttavia, la concezione più innovativa di Lilìt offerta dal Talmùd appare in Erubin, ed è più che probabile che inavvertitamente sia stata responsabile del mito di Lilìt nei secoli successivi: “R. Jeremiah b. Eleazar ha inoltre dichiarato: In tutti questi anni [i 130 anni dopo la cacciata dal giardino dell’Eden] durante i quali Adamo era sotto la maledizione, generò fantasmi, demoni maschi e demoni femmina [demoni della notte], perché è detto nella Scrittura: ‘E Adamo visse centotrent’anni e generò un figlio a sua immagine e somiglianza’ [il riferimento è a Gn 5:3], da cui ne consegue che fino a quel momento egli non generò a sua immagine” (Erubin 18b). Un riferimento a Lilìt si trova anche nello Zohàr (זהר, “splendore”), il Libro dello Splendore, il testo più importante della corrente cabalistica: “Lei vaga di notte in notte, assilla i figli degli uomini e ne provoca la contaminazione”. – Zohàr 19b.

   Il significato preciso di לִּילִית (liylìyt) non è chiaro e, anche se nel contesto isaiano il termine si riferisce certamente a qualche tipo di animale selvatico o uccello, la parola sembra essere correlata a לַיְלָה (làyla, “notte”) e alla Lilìt della demonologia babilonese.

   È il caso ora di vedere bene il passo biblico di Is 34:14 e capirne il senso nel suo contesto. Ecco il passo nell’originale ebraico con la sua traduzione letterale:

וּפָגְשׁוּ צִיִּים אֶת־אִיִּים וְשָׂעִיר עַל־רֵעֵהוּ יִקְרָא אַכְ־שָׁם הִרְגִּיעָה לִּילִית וּמָצְאָה לָהּ מָנֹוחַ׃

ufaghshù tsyìm et-iyìm vesaìr al-reèhu yqrà ach-shàm hirghìyah liylìyt umatzàh lah manoàkh

e si incontreranno bestie di deserto con sciacalli e capra con-compagna di essa chiama certo-là sosterà Lilìt e troverà per essa riposo

   Questo brano s’innesta nella profezia isaiana contro Edom. Il nome “Edom”, che significa “rosso”, fu il soprannome dato a Esaù, fratello gemello di Giacobbe (Gn 36:1), perché aveva venduto la primogenitura per una “minestra rossa” fatta di lenticchie (Gn 25:30-34). Costui andò a stabilirsi in un territorio chiamato Seir, e il “paese di Seir” iniziò a essere chiamato “campagna di Edom”, ovvero di Esaù (Gn 32:3). Qui dominavano i corei (Gn 14:6;36:20-30); i figli di Esaù (Edom) scacciarono tali sceicchi e occuparono la regione (Dt 2:12). Pur continuando ad usare il nome di Seir, quella regione divenne nota come Edom (Nm 24:18). La profezia di Isaia contro Edom fu quindi contro quella regione ovvero contro gli edomiti. Gli edomiti (discendenti di Esaù), pur essendo basilarmente semiti, erano imparentati con i camiti (Gn 36:2,3). Gli edomiti avevano preso il loro territorio con il beneplacito divino (Dt 2:1-8). Tuttavia, si mostrarono implacabili e spietati contro Israele, ciò che fece profetizzare già da Gioele e Amos la condanna di Dio. – Am 1:6,11,12; 9:11,12; Gle 3:19.

   L’odio degli edomiti per il popolo di Dio fu tale che incitarono i demolitori di Gerusalemme (Sl 137:7), goderono per la fine del Regno di Giuda e perfino consegnarono i giudei fuggiaschi ai babilonesi per farli uccidere. In combutta poi con popoli vicini, saccheggiarono il territorio giudaico (Lam 4:21, 22; Ez 25:12-14;35:1-15;36:3-5; Abd 1-16). Questo dunque il contesto in cui Isaia profetizza la condanna di Edom da parte di Dio. – Is 34:5-8.

   Edom doveva diventare disabitato per sempre, come Sodoma e Gomorra (Ger 49:7-22; Is 34:9-15). Ciò accadde sotto il re babilonese Nabonedo, che stroncò le mire ambiziose degli edomiti. – Cfr. Palestine Exploration Quarterly, Londra, 1976, pag. 39.

   Ciò che produsse la campagna militare di Nabonedo contro Edom lo sappiamo da uno scritto biblico di un secolo dopo: “Ho fatto dei suoi monti una desolazione e ho dato la sua eredità agli sciacalli del deserto” (Mal 1:3). “Se Edom dice: ‘Noi siamo stati annientati, ma torneremo e ricostruiremo i luoghi ridotti in rovine’, così parla il Signore degli eserciti: ‘Essi costruiranno, ma io distruggerò. Saranno chiamati Territorio dell’empietà, Popolo contro il quale il Signore è sdegnato per sempre’” (Mal 1:4). Gli edomiti cessarono di esistere come popolo dopo la distruzione romana di Gerusalemme nel 70 della nostra èra (Cfr. Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, XIII, 257, 258 [ix, 1]; XV, 253, 254 [vii, 9]). Era stato detto: La casa d’Esaù [sarà] come paglia . . . non rimarrà più nulla della casa di Esaù [= Edom]”. – Abd 10,18.

   Tornando a Lilìt, di cosa si trattava? Era il demone femminile che nell’antico sumero e accadico era chiamato Lilitu? Era forse “lo Strix, il gufo selvatico”, come sostiene The Interpreter’s Dictionary of the Bible (a cura di G. A. Buttrick, 1962, Vol. 2, pag. 252)? Oppure era un altro uccello, il caprimulgo, come sostenne G. R. Driver, facendo derivare la parola da una radice ebraica che tratteggia “ogni specie di movimento a spirale o di oggetto a spirale”, un “avvolgersi attorno” (articolo presente in Palestine Exploration Quarterly, London, 1959, pagg. 55 e 56)? Se si fosse trattato di un uccello, perché non lo troviamo altrove nella Bibbia, che pure parla di gufi, civette e altri uccelli (Lv 11:13, 16; Dt 14:15,16; Sl 102:6; Is 13:21;34:11)? La radice supposta da G. R. Driver descrive bene le movenze della Lilitu, la “signora dell’aria” mesopotamica.

   L’accadico Līlītu e l’ebraico לילית (liylìyt) sono aggettivi femminili che derivano dalla radice linguistica proto-semitica <L-Y-L> (= “notte”); l’aggiunta della t finale porta al significato di “della notte” ovvero “notturna”. Ciò spiega bene un “essere femminile della notte”. – Cfr. Archibald Henry Sayce, Hibbert Lectures on Babylonian Religion, 1887; C. Fossey, La Magie Assyrienne, The American Journal of Semitic Languages and Literatures, Vol. 19, Numero 3 (aprile 1903), pagg. 184-187.

   Significa questo che la Bibbia sostiene la reale presenza di un demone femminile? Non esattamente. La Scrittura vieta di occuparsi di demonismo e di assumere un atteggiamento apotropaico (Dt 18:10,11; cfr. At 19:19; Ef 6:12). Nella profezia contro Edom la Bibbia utilizza un’immagine che era simbolo di distruzione: Lilìt. Gli ebrei capivano. È come se oggi un credente dicesse: ‘Per fortuna è successo’: si dovrebbe capire che si tratta di un modo di dire per indicare un caso favorevole, non dell’azione di una forza soprannaturale proveniente da una inesistente dea bendata.

   Nella profezia contro Edom, conformemente al realismo ebraico, si parla di monti che “si sciolgono nel loro sangue” (Is 34:3), di cieli che “sono arrotolati come un libro” (v. 4), della spada di Dio “inebriata nel cielo” (v. 5) e “piena di sangue” e “coperta di grasso” (v. 6), di “torrenti di Edom” che “saranno mutati in pece” (v. 9), di fumo che “salirà per sempre” (v. 10). Nessuno pensava a tutto ciò letteralmente. Faceva parte del linguaggio molto concreto degli ebrei che così esprimevano quelle che per noi sarebbero astrazioni e che per loro non avrebbero avuto senso. Così, quando si dice che “la civetta e il corvo vi abiteranno” (v. 11) e “le bestie del deserto vi incontreranno i cani selvatici” (v. 14), era chiarissimo per gli ebrei che si stava parlando di desolazione. L’immagine evocata da Isaia è quella di un centro abitato che è diventato completamente abbandonato e invaso da sterpaglia, infestato da animali selvatici. Noi diremmo: desolato. In questo contesto, dire che “là Lilit farà la sua abitazione” (v. 14) significava dire la desolazione sarebbe stata tale che ormai poteva essere solo abitazione degna dei demoni.

   Lo stesso Isaia utilizza la medesima immagine nella sua profezia contro la Babilonia: “Vi riposeranno le bestie del deserto e le sue case saranno piene di gufi; vi faranno dimora gli struzzi, le capre selvatiche vi balleranno. Gli sciacalli ululeranno nei suoi palazzi, i cani selvatici nelle sue ville deliziose” (Is 13:21,22). Anche qui ci sono dei demoni presenti: quelle che in VR sono chiamate “capre selvatiche”, sono in TNM “demoni a forma di capro”; nella Bibbia si tratta di שְׂעִירִים (seiyrìm), “satiri”, gli stessi che in Lv 17:7 NR chiama “idoli a forma di capri” e TNM “demoni a forma di capro [שְׂעִירִים (seiyrìm)]”.

Loide (Λωΐς, Loìs, “piacevole”)

“Ricordo infatti la fede sincera che è in te [Timoteo], la quale abitò prima in tua nonna Loide e in tua madre Eunice”.- 2Tm 1:5.

   Loide era la nonna di Timoteo. Nonna materna o paterna? Stando alla versione siriaca del testo, era nonna materna, perché tale versione dice “madre di tua madre”. La fede di Loide, come quella di sua figlia Eunice, dice Paolo, era ἀνυποκρίτου πίστεως (anypokrìtu pìsteos) “[da] fede non finta” (2Tm 1:5). Abitava a Listra (At 16:1,2). Sia Loide che sua figlia Eunice avevano insegnato le Sacre Scritture a Timoteo. – 2Tm 1:5, 2Tm 3:15.

Lo-Ruama (לֹא רֻחָמָה, Lo Ruchamàh, “non compiangere”)

“Lei concepì di nuovo e partorì una figlia. Il Signore disse a Osea: ‘Chiamala Lo-Ruama, perché io non avrò più compassione della casa d’Israele in modo da perdonarla’”. – Os 1:6.

   Il simbolismo occidentale è astratto, quello ebraico molto concreto. Qui siamo di fronte a vere azioni che assumono valore simbolico. Quella che partorisce una figlia chiamata Lo-Ruama è Gomer, la moglie adultera del profeta Osea. Fu Dio a ordinargli di sposarla (Os 1:2). Ciò potrebbe lasciare perplesso il moderno lettore occidentale che non conosce la concretezza delle azioni simboliche in uso presso gli ebrei. Il rapporto tra Osea e la moglie adultera Gomer era un parallelo del rapporto tra Dio e Israele (si veda al riguardo la voce Gomer). Il nome che Dio impose alla bambina indicava il rigetto divino di Israele come popolo (Os 1:6-8). Il simbolismo dei nomi traspare in Os 2:1,23.

   Si noti che poco prima, riguardo alla nascita di un bambino da Gomer, è detto che lei “gli [a Osea] partorì un figlio” (Os 1:3); ora, però, riguardo alla nascita della bimba si dice solo che “lei concepì di nuovo e partorì una figlia” (Os 1:6). Questa affermazione senza un diretto riferimento a Osea fa pensare che questa bambina fosse adulterina.

   L’amore di Dio per Israele, amore che non viene mai meno, è annunciato in Os 2:23: “Avrò compassione di Lo-Ruama”.

   Si veda anche la voce Ruama.