“La vita di colui che divenne Gesù Cristo non ebbe inizio qui sulla terra.” Questo è quello che affermano i Testimoni di Geova, dalla cui letteratura è tratta la citazione (Perspicacia nello studio delle Scritture, Volume 1, pag. 1060, alla voce “Gesù Cristo”, alla sottovoce “Esistenza preumana”, Watch Tower Bible and Tract Society of Pennsylvania, 1988). È anche quanto sostengono le Chiese Cristiane di Dio, la Chiesa del Regno di Dio e altri gruppi religiosi che credono in una esistenza spirituale preumana di Yeshùa; per costoro Yeshùa era la prima delle creature spirituali di Dio; il suo nome preumano sarebbe Logos o Parola.  I trinitari credono invece che Yeshùa sia esistito da sempre, essendo Dio alla pari del Padre. Per i binitari Yeshùa sarebbe un secondo Dio esistito da sempre.

   Nella Bibbia, per la verità, ci sono alcuni passi che sembrano parlare della preesistenza di Yeshùa. Non ci si può disfare di questi passi affermando semplicemente che siano delle aggiunte ai testi originali per sostenere dottrine tardive. Anche se la dottrina della preesistenza di Yeshùa (intesa al modo occidentale ovvero letterale) è in effetti una dottrina tardiva, quei passi sono in ogni caso parte della Scrittura.

   Proprio perché quei passi sono parte della Bibbia, essi vanno studiati e compresi alla luce della Bibbia stessa. Anche in questo caso si devono evitare i soliti due errori: a) leggere il testo biblico cercando conferme alle proprie dottrine e al proprio credo religioso; b) leggere il testo con mentalità occidentale, ignorando del tutto le categorie mentali mediorientali. La Bibbia – parola di Dio ispirata – fu scritta in linguaggio umano, ma non solo: fu scritta da ebrei per gli ebrei nel linguaggio degli ebrei al tempo di quegli ebrei. Se vogliamo davvero capire dobbiamo mettere da parte le nostre concezioni e calarci nella mentalità ebraica. La domanda – irrinunciabile – è sempre la stessa: come comprendevano gli ebrei quei passi biblici? Esaminiamo dunque questi passi. (Sul concetto di preesistenza secondo la Bibbia si veda anche lo studio precedente, La preesistenza di Yeshùa secondo la Bibbia, in questa stessa sezione).

   Per i testi biblici è Yeshùa il consacrato tutto intero (non solo una parte) che come personaggio concreto esisteva sin dalla creazione del mondo ed agiva ancora prima di essere nato. Proprio lui, lo Yeshùa storico nato da una donna ebrea, già vivente presso il Padre, viene in mezzo agli uomini per tornare poi al Padre. Non si tratta di natura divina: la Bibbia sembra parlare piuttosto di un cambiamento di condizione. La sua venuta tra gli uomini appare infatti come una svolta decisiva nel suo destino: il passaggio da uno stato di vita ad un altro. Questo mutamento non è però espresso dalla Bibbia in termini di natura e di persona, ma sembra quasi che non abbia atteso l’incarnazione o il farsi carne per agire nella storia della salvezza. L’impressione è che egli esistette da secoli e secoli prima di manifestarsi agli uomini: viveva presso il Padre, poi viene tra gli uomini e quindi torna al Padre. Teniamo ben presente, per ora, che si tratta dello Yeshùa storico, uomo, tutto intero.

   Negli scritti di Paolo vi è tutta una serie di testi che attribuiscono a questo Yeshùa storico, nato da una donna ebrea, la creazione dell’universo:

“C’è un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose, e noi viviamo per lui, e un solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale sono tutte le cose”. – 1Cor 8:6.

“Egli è l’immagine del Dio invisibile, il primogenito di ogni creatura; poiché in lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra, le visibili e le invisibili”. – Col 1:15,16.

“[Yeshùa, il] Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi”. – Eb 1:2.

   Occorre esaminare per bene questo concetto di preesistenza applicato a Yeshùa, questo preesistere a tutto il creato.

   Per iniziare, va notato che le Scritture Greche non affermano che lo Yeshùa preesistente assunse la natura umana. Occorre esaminare bene i testi scritturali. Questi parlano piuttosto di una “discesa”, di una “manifestazione”, di una sua “apparizione”. (Per ciò che riguarda il passo di Gv 1:1 relativo al Logos o Parola “che era Dio”, si veda lo studio intitolato Il logos (la parola): chi o cosa era, in questa stessa sezione).

   In Gal 4:4 si legge: “Quando arrivò il pieno limite del tempo, Dio mandò il suo Figlio, che nacque da una donna e che nacque sotto la legge” (TNM). Qui non si dice che il Figlio (Yeshùa) fosse la Parola o Lògos: si dice invece che colui che nacque da donna, questi fu inviato da Dio (come se già esistesse prima della sua nascita).

   Un linguaggio simile lo troviamo in Rm 10:6 in cui Paolo parla di “farne [dal cielo] scendere Cristo” (TNM). Paolo richiama in questo passo Dt 30:12-14 che si riferisce alla legge divina che non è lontana (in cielo o al di là del mare), ma vive in mezzo agli uomini; così Yeshùa con la sua parola generatrice di fede vive in mezzo ai credenti. Non si riferisce affatto alla sua parusìa (o venuta) escatologica (ovvero che si riferisce agli ultimi tempi), giacché questo “scendere” dal cielo avviene prima del far risalire dal luogo dei morti; deve quindi riferirsi al suo essersi fatto carne.

   Secondo Eb 10:5-7 quando Yeshùa “viene nel mondo dice: ‘Non hai voluto né sacrificio né offerta, ma mi hai preparato un corpo. Non hai approvato olocausti e [offerta] per il peccato’. Quindi ho detto: Ecco, io vengo (nel rotolo del libro è scritto di me) per fare, o Dio, la tua volontà’” (TNM). È questo il figlio che Dio introduce nel mondo. Ancora una volta si tratta dello Yeshùa di Nazareth in carne e ossa.

   La sua vita terrena può essere paragonata ad una “apparizione” (greco ἐπιφάνεια, epifàneia), tradotto dalla TNM con “manifestazione del nostro Salvatore, Cristo Gesù” in 2Tm 1:10. “Fu reso manifesto nella carne”. – 1Tm 3:16, TNM.

   Per la mente occidentale il concetto sembra chiaro ed è facile trarre conclusioni tanto frettolose quanto errate. Per il lettore con mentalità occidentale la Bibbia starebbe affermando che Yeshùa viveva in cielo e poi assunse forma umana. Occorre entrare però negli schemi biblici se si vuole comprendere il significato vero. Per ora si è visto che: 1) È lo Yeshùa in carne e ossa a preesistere al creato, 2) La sua vita terrena è definita una manifestazione o apparizione (greco, ἐπιφάνεια epifàneia).

Cambiamento di sostanza o di condizione?

   Esaminiamo ora un testo che viene addotto quale prova di un cambiamento di stato di Yeshùa. Con questo testo si intende dimostrare che Yeshùa, prima della nascita, esisteva già come essere spirituale (creato, secondo gli unitari; uguale a Dio, secondo i trinitari e i binitari). Vediamo dunque il testo biblico di Flp 2:5-8.

“Cristo Gesù, il quale, benché esistesse nella forma di Dio, non prese in considerazione una rapina, cioè che dovesse essere uguale a Dio.  No, ma vuotò se stesso e prese la forma di uno schiavo, divenendo simile agli uomini. Per di più, quando si trovò in figura d’uomo, umiliò se stesso e divenne ubbidiente fino alla morte”. (TNM)

Il testo afferma che:

1.  Yeshùa esisteva in “forma di Dio”;

2.  In questa condizione non pensò di farsi uguale a Dio, cercando di rapinare Dio stesso del suo diritto di essere

     Dio;

3.  Vuotò invece se stesso e prese forma di schiavo, simile a un uomo;

4.  In questa condizione umana si umiliò per essere ubbidiente fino alla morte.

   Secondo il proprio punto di vista religioso, ciascuno legge in modo da trovare conferma al proprio credo.

  Ad esempio, un cattolico si aiuta con la sua propria traduzione di questo brano, così: “Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte” (CEI). Per cui, per un cattolico, i quattro punti diventano:

  1. Yeshùa era di natura divina (era Dio);
  2. Questa sua uguaglianza con Dio (essendo lui pure Dio) non la tenne come un tesoro irrinunciabile;
  3. Si incarnò invece come uomo;
  1. In questa condizione umana si umiliò per essere ubbidiente fino alla morte.

Per un unitario, invece, la conclusione sarebbe questa:

1.     Yeshùa era un essere spirituale, la prima delle creazioni di Dio;

2.     In questa condizione non pensò di farsi uguale a Dio, cercando di rapinare Dio stesso del suo diritto di essere

         Dio;

  1. Vuotò invece se stesso e prese forma di schiavo, simile a un uomo, accettando di “farsi carne”;
  2. In questa condizione umana si umiliò per essere ubbidiente fino alla morte.

   In tutti e due i casi si vuol vedere nel testo di Flp 2:5-8 la prova della preesistenza di Yeshùa.

   L’interpretazione che sostiene la preesistenza di Yeshùa presenta però diverse difficoltà. Ecco le principali:

   a) In altre parti della Bibbia – più antiche – Yeshùa è presentato come la “manifestazione” che reca la conoscenza di Dio: Yeshùa “è quello che l’ha fatto conoscere” (Gv 1:18) ed “è stato manifestato in carne” (1Tm 3:16). Qui, invece, – stando alla preesistenza – apparirebbe come lo svuotamento di Dio.

   b) In tutte le Scritture Greche, solo in questo passo si accennerebbe alla decisione di Yeshùa prima della sua esistenza terrestre. Eb 10:5 dice: “Entrando nel mondo”. Quando ‘entrò nel mondo’? Quando nacque o quando si presentò al mondo con il battesimo? Meglio questa seconda idea: Yeshùa si suppone già esistente con un corpo (il testo dice: “mi hai preparato un corpo”).

   c) Lo svuotarsi nel caso presente significherebbe l’eliminazione della divinità per accogliere l’umanità (“servo”).

   d) Ci sono grandi difficoltà per evitare (senza riuscirci) la conclusione che l’esaltazione di Yeshùa è uno stato superiore allo stato precedente in cui il consacrato sarebbe già stato in forma di divinità. Se fu esaltato dopo, non lo era prima. Se era già Dio come può essere esaltato al di sopra di Dio? E se era già la prima e più importante creatura spirituale al di sopra di tutte, come può essere ulteriormente esaltato?

   Se invece si vede in questo passo soltanto un riferimento storico alla vita terrena di Yeshùa, tutte queste difficoltà svaniscono di colpo.

   Il testo – se lo si legge senza nessuna dottrina religiosa in mente – non dice né che Yeshùa fosse Dio né che esistesse già in cielo come creatura spirituale. Il punto 1. (Yeshùa esisteva “in forma di Dio”) – che trascina gli altri – è la chiave di tutto. Ma quale traduzione preferire? Nessuna delle consuete. Non è meglio affidarsi al testo originale greco? Vediamolo:

ὅς ἐν μορφῇ θεοῦ

os en morfè theù

  che in   ?    di Dio

 

   Ecco dunque la parola controversa: forma. O meglio: morfè (μορφῇ). Ma questa morfè che cos’è? È forse la natura divina di Dio stesso? È forse una forma spirituale di cui sono fatti anche gli angeli? Nessuna delle due. Non è infatti una interpretazione religiosa che ce ne può dare il significato, ma la Bibbia stessa. In che modo? Indagando quale parola ebraica c’è dietro quella greca. Com’è già stato fatto osservare, abbiamo un particolare dizionario biblico ebraico-greco privilegiato: è la traduzione greca LXX (Settanta) delle Scritture Ebraiche, la stessa usata dai discepoli di Yeshùa. Andando a cercare quella parola greca (morfè, μορφῇ) nella LXX possiamo scoprire la parola ebraica che fu tradotta in greco morfè; si capirà così cosa significa davvero quella parola che viene tradotta solitamente “forma”.

   Questa parola equivale all’ebraico דמות (demùt) e significa “immagine”. Questa parola non è mai usata per indicare sostanza o natura. In Eb 1:3 abbiamo: “Egli [Yeshùa] è il riflesso della [sua, di Dio] gloria” (TNM), ovvero Yeshùa non ha né la natura né la sostanza di Dio, ma rifletta la gloria di Dio.

   Traducendo correttamente (morfè, μορφῇ) con immagine (ebraico דמות, demùt), tutto il passo di Flp 2 diventa improvvisamente chiaro.

   Paolo sta incoraggiando i filippesi a mostrare amore ai fratelli, evitando l’egoismo e assumendo un atteggiamento di modestia e umiltà; quindi cita loro il massimo esempio, quello di Yeshùa: “Mantenete in voi questa attitudine mentale che fu anche in Cristo Gesù” (v. 5, TNM). E cosa fece Yeshùa? Egli, “benché fosse a immagine (morfè [μορφῇ]) di Dio, non prese in considerazione una rapina, cioè che dovesse essere uguale a Dio.  No, ma vuotò se stesso e prese la forma di uno schiavo, divenendo simile agli uomini. Per di più, quando si trovò in figura d’uomo, umiliò se stesso e divenne ubbidiente fino alla morte”. – Vv. 5-8.

   Paolo sta parlando a degli uomini e cita l’esempio umano di Yeshùa. Questi non fece come l’uomo Adamo che pensò di farsi uguale a Dio e di rapinarlo così del suo diritto di essere Dio (il diavolo aveva detto ad Eva: “Voi sarete davvero simili a Dio”, Gn 3:5, TNM). Paolo paragona Yeshùa al secondo Adamo (1Cor 15:45; Rm 5:12, sgg.). Adamo era a immagine di Dio (Gn 1:26), creato direttamente da Dio; Yeshùa era come Adamo, creato da Dio con la sua nascita verginale. Adamo volle farsi uguale a Dio, credendo alla menzogna del diavolo; Yeshùa non cedette alle tentazioni del diavolo (cfr. le tentazioni in Mt 4). Yeshùa non solo è a immagine di Dio, come lo fu Adamo, ma è anche della stessa discendenza di Adamo, “divenendo simile agli uomini”. Qui Paolo, contro la tendenza a fare di Yeshùa un angelo o una “apparenza”, dice che egli ebbe proprio la natura umana e fu proprio simile agli uomini, della discendenza di Adamo; proprio come Adamo “generò un figlio a sua somiglianza, a sua immagine [ebraico דמות (demùt)], e gli mise nome Set” (Gn 5:3, TNM), così Yeshùa è anche a immagine dei discendenti di Adamo. Questo uomo, Yeshùa, “prese la forma di uno schiavo”, “umiliò se stesso e divenne ubbidiente fino alla morte”; c’è qui un richiamo al “servo di Yhvh” (Is 53:7); va notato che il “servo di Yhvh” in Isaia è chiamato indifferentemente “servo” (schiavo, cfr. v. 7) e anche “figlio”.

   Ecco quindi il senso vero del passo, nel suo parallelismo:

 

Yeshùa, secondo Adamo

Adamo

a immagine di Dio

a immagine di Dio

non pretese di rapinare Dio

pretese di rapinare Dio

non pretese di farsi uguale a Dio

pretese di farsi uguale a Dio

era perfettamente uomo

era perfettamente uomo

tuttavia si abbassò a schiavo

tuttavia volle elevarsi a Dio

ubbidendo fino alla morte

disubbidendo fino alla morte

 

   Il punto di partenza (“benché esistesse in morfè di Dio”) non è quindi in cielo, in una vita precedente a quella umana: il punto di partenza è lo Yeshùa uomo: benché – come uomo – fosse a immagine di Dio (come Adamo). Proprio per questo Dio, “per questa stessa ragione Dio lo ha esaltato a una posizione superiore e gli ha benignamente dato il nome che è al di sopra di ogni [altro] nome” (Flp 2:9, TNM). ‘Dare il nome’, nel linguaggio biblico, significa dare la realtà o la sostanza: la realtà di essere superiore a tutti gli altri esseri, umani o celesti. Dare il nome indica qui dargli il dominio su ogni cosa, “affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio di quelli che sono in cielo e di quelli che sono sulla terra e di quelli che sono sotto il suolo, e ogni lingua confessi apertamente che Gesù Cristo è Signore alla gloria di Dio Padre” (vv. 10,11, TNM). “Chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (Mt 23:12, TNM). Si noti la superiorità finale di Dio rispetto a Yeshùa: “Gesù Cristo è Signore alla gloria di Dio Padre”.

   La domanda spontanea, rivolta ai trinitari e ai binitari, è: ma se Yeshùa era già Dio, come è possibile che sia stato esaltato ancora di più e che alla fine Dio gli sia comunque superiore? La stessa domanda va posta a coloro che credono che Yeshùa fosse la prima di tutte le creature spirituali di Dio, il primo anche per importanza: Come è possibile che Yeshùa sia stato “esaltato a una posizione superiore” se già aveva tale posizione?

   In questo passo non si parla quindi della preesistenza di Yeshùa alla sua vita terrena, ma solo della missione che Yeshùa ebbe su questa terra e del modo con cui egli ubbidì al Padre, sino alla morte.

   Mentre Adamo volle farsi uguale a Dio e così perse ogni suo privilegio, attirandosi la morte e la rovina su di sé e su tutto il genere umano, Yeshùa – quale secondo Adamo – anche dinanzi alla tentazione satanica, non volle farsi uguale a Dio, ma con la sua ubbidienza, resa eroica con la morte, si meritò la gloria per sé e la salvezza per il genere umano. Tutti lo riconoscano quindi loro sovrano alla gloria di Dio. Adamo disubbidendo tentò di farsi uguale a Dio (cfr. Gn 3:5): volle divenire uguale a Dio nell’autodeterminarsi, nel conoscere il bene e il male, ma anziché elevarsi a Dio, decadde; Yeshùa, per essere stato ubbidiente, fu posto alla destra di Dio. Yeshùa avrebbe potuto conquistare il mondo senza soffrire (tentazione); con le sue doti poteva ridurre tutta l’umanità ai suoi piedi; ma questo sarebbe stato un rapinare a Dio tale dominio, un farsi uguale a Dio “per rapina”. Yeshùa ottenne proprio di “sedere alla destra di Dio“ e di divenire “il Signore di ogni cosa” con la via dell’umiliazione e del palo su cui fu ucciso. Questo esempio diviene più luminoso per noi; anche noi anziché esaltarci per nostro capriccio, dobbiamo metterci al servizio degli altri. L’esaltazione ci verrà da Dio; chi si esalta sarà abbassato, chi si umilia sarà esaltato. – Mt 23:12.

“Inviato”, “venuto nel mondo”,  “sceso dal cielo”,

“venuto dall’alto”, “venuto dal cielo”

   Nel quarto Vangelo (Gv) diverse volte Yeshùa è presentato quale inviato dal Padre: “Gesù disse loro: ‘Il mio cibo è far la volontà di colui che mi ha mandato’” (4:34); venuto nel mondo: “Il Figlio di Dio che doveva venire nel mondo” (11:27). sceso dal cielo: “colui che è disceso dal cielo: il Figlio” (3:13); venuto dall’alto: “Colui [Yeshùa] che viene dall’alto è sopra tutti” (3:31); venuto dal cielo: “Colui [Yeshùa] che vien dal cielo è sopra tutti”. – 3:31.

   Al lettore occidentale (che legge letteralmente) pare ovvio trarre la semplice conclusione: se Yeshùa è stato “mandato” significa che prima era da qualche parte (in cielo) e da lì è stato mandato sulla terra; se è “sceso dal cielo” ed è “venuto dal cielo” cosa altro può significare se non che era in cielo?; nello stesso modo, essendo “venuto dall’alto”, significa che prima era in alto ovvero in cielo. Ma la Bibbia non va semplicemente letta letteralmente: va studiata seriamente. Occorre quindi domandarsi ancora una volta: qual è il senso che la Bibbia dà a queste espressioni? Cosa capiva il lettore ebreo con questo modo di parlare ebraico? Indagheremo quindi la Scrittura per capire la Scrittura con la Scrittura.

   Una prima osservazione, intanto, potrebbe essere questa: non c’è forse una bella differenza tra “venire nel mondo” e “venire al mondo”? Ad esempio, in uno stesso brano della Bibbia leggiamo:

“Una donna, quando partorisce, ha dolore, perché la sua ora è arrivata; ma quando ha generato il bambino, non ricorda più la tribolazione a motivo della gioia che un uomo è venuto al mondo. […] Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo”. – Gv  16:21,28, TNM.

   Sembrerebbe chiaro: nel primo caso si tratta di un qualsiasi bambino che viene al mondo, nel secondo si tratta di Yeshùa che viene nel mondo. Non è forse così? No. No, che non lo è. Questa infatti è una traduzione. La differenza tra le due espressioni è solo una differenza che crea il traduttore. Nel testo originale greco di Gv questa differenza non compare affatto. Nel primo caso (il bambino che nasce) Gv usa l’espressione εἰς τὸν κόσμον (èis ton kòsmon). E nel secondo caso (parlando di Yeshùa) usa la stessa identica espressione: εἰς τὸν κόσμον (èis ton kòsmon). La domanda allora è: perché mai le traduzioni non sono fedeli al testo biblico? Possiamo solo esprimere un dubbio: non sarà forse che la traduzione sia influenzata dal pensiero del traduttore? Al di là delle intenzioni del traduttore, una cosa è e rimane certa: sta di fatto che il testo originale greco è esattamente lo stesso nelle due espressioni. Coerentemente si dovrebbe allora tradurre, per assurdo: “A motivo della gioia che un uomo è venuto nel mondo”. Ma questo, in italiano, suonerebbe molto strano. Non suona invece strano esprimere in italiano quello che davvero il testo greco dice: “Sono uscito dal Padre e sono venuto al mondo”. Giovanni, in effetti, dice proprio così. “Venuto nel mondo” è quindi solo una traduzione scorretta e tendenziosa: la traduzione corretta è, come visto sul testo greco, “venuto al mondo”.

  Rimane comunque quell’“uscito dal Padre”. Cosa significa? Questo ci riporta alle altre espressioni simili: “Inviato”, “sceso dal cielo”, “venuto dall’alto”, “venuto dal cielo”. Esaminiamole dunque nel contesto della Bibbia. Nell’esame, per comprendere meglio, si possono separare i vocaboli dai verbi. Alla fine tutto sarà ricomposto e sarà più comprensibile.

   Per quanto riguarda i vocaboli abbiamo le espressioni “dal cielo” e “dall’alto”. Ogni studioso competente della Scrittura sa che “cielo” e “alto” sono nella Bibbia anche sinonimi di “Dio”. In Lc 15:18, quando il cosiddetto “figliol prodigo” pensa a cosa dire al padre da cui desidera tornare, prepara così la sua umile argomentazione: “Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: padre, ho peccato contro il cielo e contro di te”; in effetti sta dicendo “contro Dio”, ma questa espressione era troppo forte per un ebreo: come spesso si usava, “Dio” viene sostituito da “cielo”. Allo stesso modo, in Mt 21:25 leggiamo: “Il battesimo di Giovanni, da dove veniva? dal cielo o dagli uomini?”; qui è Yeshùa che pone una domanda astuta ai capi dei sacerdoti e, anche qui, “cielo” sostituisce “Dio”.

   L’espressione “alto”, come è facilmente intuibile, equivale a “cielo”. In una stessa frase pronunciata da Yeshùa troviamo questa equivalenza: “Colui che viene dall’alto è sopra tutti; colui che viene dalla terra è della terra e parla come uno che è della terra; colui che vien dal cielo è sopra tutti” (Gv 3:31). Questa equivalenza è così vera che in Gv 19:11 – dove si legge: “Non avresti contro di me nessuna autorità se non ti fosse stata concessa dall’alto” (TNM) – altri manoscritti hanno “dal cielo”. La “sapienza dall’alto” in Gc 3:15,17 è la stessa che Paolo chiama “sapienza di Dio” (1Cor 2:7). “Dal cielo” e “dall’alto” significa quindi “da Dio”. Il cielo si trova, dal punto di osservazione dell’uomo sulla terra, in alto. E il cielo è idealmente la dimora di Dio. Ma non si tratta del cielo fisico, Dio non abita nel cielo fisico: “I cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere” (1Re 8:27). Quando quindi leggiamo che Yeshùa viene “dall’alto” o viene “dal cielo” non dobbiamo intenderlo alla lettera, in modo occidentale, ma dobbiamo intendere che viene “da Dio”.

   Esaminiamo ora i verbi. Non dice la Scrittura che Yeshùa è disceso dal cielo (Gv 3:13)? Intanto abbiamo compreso che “disceso dal cielo” significa ‘disceso da Dio’. In quanto al verbo “scendere” o “discendere” è solo ovvio che parlando di cielo (che, osservandolo, è in alto) si usi l’espressione “scendere”. Ma si tratta di una discesa letterale? Esaminiamo. In Gv 6:38 Yeshùa afferma: “Sono disceso dal cielo”. Questa frase egli la dice nel contesto del suo discorso sul “pane della vita”. Yeshùa aveva infatti affermato: “Il pane di Dio è quello che scende dal cielo” (v. 33), poi aveva dichiarato: “Io sono il pane della vita” (v. 35) e, infine: “Sono disceso dal cielo” (v. 38). Il discorso di Yeshùa è in risposta alla incredulità della folla che, richiamandosi alla manna o “pane venuto dal cielo”, gli chiedeva un miracolo: “Quale segno miracoloso fai, dunque, perché lo vediamo e ti crediamo? Che operi? I nostri padri mangiarono la manna nel deserto, come è scritto: Egli diede loro da mangiare del pane venuto dal cielo” (vv. 30,31). È a questo punto che Yeshùa dice loro che il vero pane sceso dal cielo è lui. Che il scendere dal cielo non sia letterale è provato dal paragone con la manna. Sebbene la manna venga definita “pane venuto dal cielo”, essa in effetti non cadde dal cielo come cade la pioggia o la neve: “Quando lo strato di rugiada fu sparito, ecco sulla superficie del deserto una cosa minuta, tonda, minuta come brina sulla terra. I figli d’Israele, quando l’ebbero vista, si dissero l’un l’altro: ‘Che cos’è?’ perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: ‘Questo è il pane che il Signore vi dà da mangiare’” (Es 16:14,15).

   La manna dunque non cadeva dal cielo, ma compariva sul terreno dopo l’evaporazione di uno strato di rugiada formatosi la mattina. Ancora una volta, se comprendiamo che “cielo” è sinonimo di “Dio”, tutto è chiaro: il “pane venuto dal cielo” era ‘pane venuto da Dio’. Trattandosi di cielo il verbo usato è ovviamente “scendere”, anche se altrove si usa “venire da” (e proprio ciò dimostra ulteriormente che non si tratta di discesa letterale). Così è perla saggezza che scende dall’alto” (Gc 3:15; cfr. col “viene” del v. 17). Come la manna non scese letteralmente dal cielo ma fu prodotta sulla terra per volontà di Dio e come la saggezza divina non scende fisicamente dal cielo, così Yeshùa non scese letteralmente dal cielo ma fu fatto nascere sulla terra per volere di Dio. Detto con linguaggio biblico: veniva dal’alto, dal cielo, da Dio.

   Che dire del verbo “venire” riferito a Yeshùa? Giovanni il battezzatore manda a domandare a Yeshùa: “Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11:3). “Venire” implica forse che egli venne fisicamente dal cielo? Per comprendere il senso di quel “venire” non occorre argomentare teologicamente per forzare un pensiero religioso dettato da un dogma religioso: è sufficiente esaminare nella Scrittura l’uso del verbo “venire”. In Gn 49:10 si parla della venuta del messia: “Lo scettro non sarà rimosso da Giuda, né sarà allontanato il bastone del comando dai suoi piedi, finché venga colui al quale esso appartiene e a cui ubbidiranno i popoli”. E, sempre parlando del messia, Mal 3:1 afferma. “Ecco, verrà certamente” (TNM). “Venire” non va inteso come ‘venire da’ nel senso di venire chissà da dove: significa arrivare, apparire, presentarsi. Yeshùa è venuto nello stesso modo in cui Giovanni il battezzatore era venuto: “È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e dicono: ‘Ha un demonio!’ È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono […]” (Mt 11:18,19). “Venire” significa giungere, arrivare, presentarsi (esattamente come nella lingua italiana): “Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento” (Mt 5:17). Non pensate che mi sia presentato per: è questo il senso. Proprio come è questo il senso che i demòni danno a quel verbo quando protestano con Yeshùa: “Sei venuto qua prima del tempo a tormentarci?” (Mt 8:29), ovvero: Ti sei presentato qua per?

   Il significato di presentarsi è insisto anche nell’espressione attribuita a Yeshùa da Eb 10:9: “Ecco, vengo per fare la tua volontà”. Non dimentichiamo infatti che quella espressione è presa da Sl 40:7 in cui è Davide che si offre a Dio e dichiara: “Ho detto: ‘Ecco, io vengo!’” ovvero ‘ecco, mi presento a te!’. Nessuno certo pensa che Davide venisse fisicamente dal cielo.

   “Venire” non significa venire da un mondo spirituale. Perfino quando i discepoli di Yeshùa, riferendosi al profeta Elia morto più di 900 anni prima, gli domandano: “Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?” (Mt 17:10), perfino in questo caso “venire” non significa arrivare da un mondo spirituale. Yeshùa infatti risponde: “Certo, Elia deve venire e ristabilire ogni cosa. Ma io vi dico: Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto” (vv. 11,12). “Allora i discepoli capirono che egli aveva parlato loro di Giovanni il battista” (v. 13). La “venuta di Elia era stata profetizzata: “Ecco, io vi mando il profeta Elia” (Mal 4:5). Non si tratta di una “venuta” da un altro mondo, ma solo del presentarsi alla società da parte di una persona normalmente nata; del battezzatore infatti Yeshùa dice: “Se lo volete accettare, egli è l’Elia che doveva venire”. – Mt 11:14.

   “Venire” non significa ovviamente solo presentarsi; può significare – proprio come in italiano – venire da un certo posto. Ma questo è stabilito dalla logica del contesto.

   Ad esempio, “venire” può significare ‘venire dal posto in cui si è nati’. Ad Erode che si informa su dove doveva nascere il messia, gli scribi dicono: “In Betlemme di Giudea”. Ma poi Yeshùa “venne ad abitare in una città detta Nazaret, affinché si adempisse quello che era stato detto dai profeti, che egli sarebbe stato chiamato Nazareno” (Mt 2:23). Molti giudei, non sapendo che Yeshùa era davvero nato a Betlemme e credendo che egli fosse di Nazaret in Galilea, commentano: “Ma è forse dalla Galilea che viene il Cristo?” (Gv 7:41). E Natanaele, uno zelante israelita, domanda ironicamente: “Può forse venir qualcosa di buono da Nazaret?” (Gv 1:46). Qui vediamo che ‘venire da’ significa ‘nascere a’.

   “Venire” può significare essere presente, attuarsi: “Venga il tuo regno” (Lc 11:2) significa: ‘il tuo regno sia presente, si attui’.

   Paolo non dà un significato particolare al venire del messia: “Giovanni battezzò con il battesimo di ravvedimento, dicendo al popolo di credere in colui che veniva dopo di lui, cioè, in Gesù” (At 19:4). Come era venuto Giovanni, così era venuto Yeshùa dopo di lui: la differenza notevole stava nella loro persona, non nel loro venire.

   Verbo “mandare”. Questo verbo sottolinea che la persona che viene da parte di Dio non viene o non si presenta per propria decisione, ma è appunto mandata da Dio. Riceve insomma un incarico da Dio. La mente che legge la Bibbia con la propria credenza religiosa già in testa può essere a volte confusa. Può accadere che leggendo Gv 1 avvenga qualcosa di simile: “Vi fu un uomo mandato da Dio” (v. 6), e la mente pensa: Si parla di Gesù che è mandato nel mondo, ma subito dopo si ha una smentita: “il cui nome era Giovanni” (v.6), e subito la mente corregge il pensiero errato; poi legge ancora che quel Giovanni “venne come testimone per rendere testimonianza alla luce” (v. 7) e la mente non interpreta più quel “venne” come se si trattasse di un venire dal cielo sulla terra: si parla di Giovanni, infatti; la mente però non registra che quel “mandato” e quel “venne” non hanno nulla a che fare con l’essere mandato dal cielo alla terra, e così non impara nulla sul senso comune di quei verbi; quando poi, poco dopo, legge che “la vera luce che illumina ogni uomo stava venendo nel mondo” (v. 9), la mente riprende a inquadrare quel ‘venire’ nelle proprie categorie religiose di ‘venire da un mondo invisibile’; forse tende anche a ignorare che quel “egli era nel mondo” (v. 10) riferito a Yeshùa indica chiaramente che egli era già nel mondo ovvero era già nato e che quindi il suo “venire” significa in effetti il suo presentarsi pubblicamente; e infine leggerà ancora quel “è venuto in casa sua” (v. 11) come una conferma che Yeshùa è venuto letteralmente dal cielo sulla terra.

   “Venire da Dio” significa essere mandati da Dio, ricevere un incarico da Dio, presentarsi a suo nome, avere la sua approvazione. È con questo senso che Nicodemo riconosce a Yeshùa: “Rabbì, noi sappiamo che tu sei un dottore venuto da Dio” (Gv 3:2). Qui Nicodemo definisce Yeshùa “un dottore” ovvero uno dei dottori e lo include nella categoria dei ‘dottori venuti da Dio’; con questa espressione non si voleva certo intendere che essi esistessero prima in cielo e poi fossero venuti sulla terra: l’espressione ebraica “venuto da Dio” indicava l’avere l’approvazione e il mandato divini.

   Yeshùa non venne da un mondo spirituale in cui già esisteva. Di lui la Bibbia aveva profetizzato: “Dal tuo proprio mezzo, dai tuoi fratelli, Geova [Yhvh nel testo] tuo Dio susciterà per te un profeta come me — lui dovrete ascoltare” (Dt 18:15); qui è Mosè che parla, e profetizza due aspetti circa il messia futuro, Yeshùa il consacrato: 1. Egli sarebbe nato come israelita tra israeliti, 2. Sarebbe stato un profeta, un profeta come Mosè. Ma c’è di più. Dio stesso conferma le parole ispirate di Mosè e garantisce: “Susciterò per loro di mezzo ai loro fratelli un profeta come te; e in realtà metterò le mie parole nella sua bocca, ed egli certamente pronuncerà loro tutto ciò che io gli comanderò” (Dt 18:18). È chiaro: Dio avrebbe fatto in modo di far nascere tra gli israeliti un uomo particolare che avrebbe dovuto essere profeta come Mosè e che avrebbe proferito tutto quello che gli avrebbe comandato.

Attraverso Yeshùa

 

   Desideriamo ora riprendere tre passi già citati:

“C’è un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose, e noi viviamo per lui, e un solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale sono tutte le cose”. – 1Cor 8:6.

“Egli è l’immagine del Dio invisibile, il primogenito di ogni creatura; poiché in lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra, le visibili e le invisibili”. – Col 1:15,16.

“[Yeshùa, il] Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi”. – Eb 1:2.

   In 1Cor 8:6 l’espressione “mediante il quale” potrebbe far pensare a Yeshùa come mediatore o artefice della creazione. Non è così, perché il testo dice chiaramente: “C’è un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose”. È Dio e solo Dio il creatore. Il senso di quel “mediante” (greco διά, dià) è ben espresso dalla traduzione che ne fa il Nuovo Testamento Interlineare (Edizioni San paolo): “Per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale sono tutte le cose e noi grazie a lui” (il corsivo è nostro). Nel caso di Dio si ha ἐξ (ex), da; nel caso di Yeshùa, διά (dià), attraverso.

   Nel passo di Col si ha l’espressione “in lui”, cioè in Yeshùa. Non implica il suo creare, perché si dice che Yeshùa stesso è una “creatura” e si dice che “tutte le cose” che “sono state create” sono “le cose che sono nei cieli e sulla terra” (già creati).

   Nel passo di Eb si dice che Yeshùa è “erede di tutte le cose”. Come potrebbe essere erede di ciò che lui stesso avrebbe creato? La creazione è di Dio e Yeshùa la eredita. Si noti come: “Che egli [Dio] ha costituito erede di tutte le cose”. È Dio che lo ha costituito erede in virtù della sua ubbidienza fino alla morte. “Tu hai amato la giustizia e hai odiato l’iniquità; perciò Dio, il tuo Dio, ti ha unto con olio di letizia”. – V. 9.

   Desideriamo ora richiamare l’attenzione su come i convincimenti religiosi condizionino i traduttori. Si prenda Col 1:15-17 nella versione di TNM: Egli è l’immagine dell’invisibile Iddio, il primogenito di tutta la creazione; perché per mezzo di lui tutte le [altre] cose furono create nei cieli e sulla terra, le cose visibili e le cose invisibili, siano essi troni o signorie o governi o autorità. Tutte le [altre] cose sono state create per mezzo di lui e per lui. Ed egli è prima di tutte le [altre] cose e per mezzo di lui tutte le [altre] cose furono fatte esistere”. Si noti ora in particolare quel “per mezzo di lui” (che il testo riferisce a Yeshùa), che nel passo compare per ben tre volte. L’ignaro lettore non può far altro che desumere che Yeshùa fu il mezzo o lo strumento della creazione. Eppure la Bibbia dice chiaramente che “in principio Dio creò” (Gn 1:1). Il fatto è che il passo paolino non dice affatto “per mezzo” di Yeshùa, ma ἐν (en), in Yeshùa. La preposizione ἐν (en), “in”, compare la prima e la terza volta nel brano. La seconda volta il greco ha invece δι’αὐτοῦ καὶ εἰς αὐτὸν (di’autù kài èis autòn): “in virtù di lui e per lui”. Paolo sta dicendo qui che tutta la creazione è stata fatta da Dio per Yeshùa.

   Il senso che può assumere la preposizione greca διά (dià), attraverso, è ben illustrato dal passo di 1Tm 2:15: “Essa [la donna] sarà tenuta in salvo per mezzo [διά (dià)] del parto” (TNM). NR traduce così: “Sarà salvata partorendo figli”.  Non è il parto che salva la donna, infatti una donna può morire proprio partorendo. È invece la donna che viene salvata perché possa partorire e perpetuare la specie umana. Nello stesso modo, tutta la creazione non fu fatta da Yeshùa, ma per Yeshùa.

   Si noti anche Eb 7:9: “Per mezzo [διά (dià)] di Abraamo anche Levi che riceve le decime ha pagato le decime” (TNM). Levi, terzo figlio di Giacobbe e quindi pronipote di Abraamo, non poteva certo aver pagato letteralmente le decime impiegando come intermediario Abraamo, che era il nonno di suo padre, ormai morto da tempo. L’autore di Eb, infatti, premette: “Se posso usare l’espressione” (v. 9); poi spiega: “Poiché [Levi] era ancora nei lombi del suo antenato [Abraamo] quando Melchisedec [che ricevette un decimo del bottino da Abraamo] lo incontrò”. Virtualmente, Levi pagò in virtù di Abraamo, sebbene Levi non fosse ancora nato. Similmente, tutta la creazione fu fatta da Dio in virtù di Yeshùa, sebbene Yeshùa non fosse ancora nato.