Dobbiamo dire che le donne, sia nei Vangeli che nelle lettere apostoliche, appaiono come personaggi episodici. Miryàm, la madre di Yeshùa, è nominata nei Vangeli solo in funzione di suo figlio. Morto lui, sparisce anche lei dai racconti. Il suo nome si trova, dopo la morte di Yeshùa, una sola volta, in At 1:14: “Perseveravano concordi nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e con i fratelli di lui”. La citazione di lei appare quasi accidentale, ma forse Luca, sottolineandone la presenza “con i fratelli di lui” (di Yeshùa), vuol far rilevare che sia la madre che i fratelli del Messia erano finalmente diventati credenti, giacché prima non lo erano. – Gv 7:5; Mt 12:46,47; Mr 1:31;3:21.

   Comunque, crescendo la congregazione dei discepoli di Yeshùa, il numero delle donne credenti era tale che si dovette provvedere a una regolamentazione per le vedove. “Moltiplicandosi il numero dei discepoli, sorse un mormorio da parte degli ellenisti contro gli Ebrei, perché le loro vedove erano trascurate nell’assistenza quotidiana” (At 6:1). “La vedova sia iscritta nel catalogo quando . . .”. – 1Tm 5:9.

   La donna occupò subito nella congregazione una posizione ufficiale. Le opere delle donne nella congregazione non erano semplicemente ammesse: erano incoraggiate.

   Febe. Scrive Paolo riguardo a Febe: “Vi raccomando Febe, nostra sorella [in senso spirituale], che è diaconessa della chiesa di Cencrea, perché la riceviate nel Signore, in modo degno dei santi, e le prestiate assistenza in qualunque cosa ella possa aver bisogno di voi; poiché ella pure ha prestato assistenza a molti e anche a me”. – Rm 16:1,2.

   Gli editori di TNM, che ci tengono a tenere sottomesse le donne, traducono “diaconessa” con “ministro della congregazione”, che nel loro linguaggio vuole alludere alla semplice predicazione evangelica. Ma Paolo la chiama διάκονον τῆς ἐκκλησίας (diàkonos tes ekklesìas), “diacono della congregazione”.

   Si noti questo passo: “Allo stesso modo [ovvero come i “vescovi” o sorveglianti appena descritti] i diaconi devono essere dignitosi, non doppi nel parlare, non propensi a troppo vino, non avidi di illeciti guadagni; uomini che custodiscano il mistero della fede in una coscienza pura. Anche questi siano prima provati; poi svolgano il loro servizio se sono irreprensibili. Allo stesso modo siano le donne dignitose, non maldicenti, sobrie, fedeli in ogni cosa. I diaconi siano mariti di una sola moglie, e governino bene i loro figli e le loro famiglie” (1Tm 3:8-12). Tenendo presente che la punteggiatura nel testo originale manca, si noti che Paolo prima elenca i requisiti dei diaconi maschi, poi di seguito dice che “allo stesso modo siano le donne”, ovvero i diaconi femmine, e ne elenca i requisiti. Il riferimento alle donne si innesta nel discorso sui diaconi, menzionati prima e dopo l’inserzione che concerne le donne. Quindi, anche le donne potevano essere diaconi. Prova ne è che Febe è chiamata διάκονον τῆς ἐκκλησίας (diàkonos tes ekklesìas), “diacono della congregazione”.

   Il termine greco διάκονος (diàkonos) significa “servitore”. L’etimologia – come vorrebbero alcuni, da διώκω (diòko), “far correre” – non è affatto certa: si dovrebbe infatti farla risalire all’obsoleto διάκω (diàko) e non spiegherebbe bene il διά (dià). Anche l’etimologia da διά (dià; “attraverso”) + κονία (konìa, “polvere”), sebbene suggestiva, è fantasiosa. Il vocabolo ha invece a che fare con il verbo ἐγ-κονέω (en-konèo), “essere diligente”; la preposizione διά (dià) significa anche “in tutto”. Yeshùa aveva detto: “Chiunque vorrà essere grande tra di voi, sarà vostro servitore [διάκονος (diàkonos)]” (Mt 20:26). I servi o servitori possono essere, ovviamente, anche donne. Yeshùa disse una volta: “Se uno mi serve, mi segua; e là dove sono io, sarà anche il mio servitore [διάκονος (diàkonos)]” (Gv 12:26). “Vi erano pure delle donne . . . che lo seguivano e lo servivano [διηκόνουν (diekònun; dal verbo διακονέω, diakonèo, “servire”)]”. – Mr 15:40,41.

   È solo la gerarchia Cattolica che ha inventato l’ordinazione dei diaconi: nel Medioevo si perse l’originale funzione di semplici servitori e il diaconato divenne per molti secoli unicamente un passaggio temporaneo per raggiungere il sacerdozio. Se si smettesse di usare la parola “diacono” come un titolo e se si usasse semplicemente la sua traduzione, “servitore”, sarebbe tutto più chiaro. Ciò riguarda sia cattolici che protestanti, e riguarda anche la società religiosa che edita la TNM, la quale ha inventato il nome “servitore di ministero” per designare certi uomini (solo maschi) con incarichi particolari nelle loro congregazioni, incarichi che nulla hanno a che fare con quelli originari del primo secolo. Si forza così la traduzione della Scrittura, usando due pesi e due misure, a proprio uso e vantaggio; si confrontino questi due passi biblici: “I servitori di ministero [διακόνους (diakònus)] devono similmente esser seri” (1Tm 3:8, TNM); “Non vuoi dunque aver timore dell’autorità? . . . essa è ministro [διάκονος (diàkonos)] di Dio per te per il bene” (Rm 13:3,4, TNM). Perché non si traduce dicendo che ‘l’autorità dello stato è servitore di ministero’?

   Febe era una “servitrice della congregazione [διάκονον τῆς ἐκκλησίας (diàkonos tes ekklesìas)]” di Cèncrea (porto di Corinto – da cui distava una decina di km – per i paesi a est della Grecia). Paolo dice di lei: “Ha prestato assistenza a molti e anche a me” (Rm 16:2). Non era una predicatrice, come vorrebbe sostenere TNM. Nella primitiva congregazione c’erano “alcuni come apostoli, alcuni come profeti, alcuni come evangelizzatori, alcuni come pastori e maestri” (Ef 4:11, TNM); i ruoli erano ben distinti. Febe era altro. Paolo dice non semplicemente che “ha prestato assistenza a molti”, lui compreso (Rm 16:2), come viene reso dalla traduzione. Paolo dice che lei è προστάτις (prostàtis), “protettrice”. Libera di viaggiare, probabilmente era anche alquanto ricca.

   Priscilla. Nonostante i suoi meriti, sembra che Febe sia eclissata da un’altra donna: Priscilla o Prisca. Paolo scrive ai credenti romani: “Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù, i quali hanno rischiato la vita per me; a loro non io soltanto sono grato, ma anche tutte le chiese delle nazioni” (Rm 16:3,4). Prisca era la moglie di Aquila (viene sempre menzionata accanto a lui). Il suo nome era Priscilla, da cui la forma abbreviata Prisca; la variante breve per un nome più lungo era comune nei nomi romani. Lei e il marito erano ebrei, e vivevano Roma, che avevano lasciato per la città di Corinto, in Grecia, a seguito di un decreto dell’imperatore Claudio: “Un ebreo, di nome Aquila, oriundo del Ponto, giunto di recente dall’Italia insieme con sua moglie Priscilla, perché Claudio aveva ordinato a tutti i Giudei di lasciare Roma” (At 18:2). Priscilla e il marito Aquila erano ottimi esempi di fede. 1Cor 16:19 menziona la “chiesa che è in casa loro”: ospitarono quindi anche una comunità di credenti nella loro casa; avevano ospitato anche Paolo (At 18:3). Per vivere fabbricavano tende insieme a Paolo: “Egli si unì a loro. Essendo del medesimo mestiere, andò ad abitare e a lavorare con loro. Infatti, di mestiere, erano fabbricanti di tende” (At 18:2,3). Queste tende non avevano alcunché a che fare con il cilicium, la veste intessuta di peli di capra, ruvida e scomoda, che era in uso ai soldati dell’esercito Romano. Non ci si faccia ingannare dal fatto che Paolo era di Tarso, città della Cilicia (At 21:39), in Asia Minore (attuale Turchia), in cui si produceva il tessuto ruvido e grossolano di pelo di capra, chiamato cilicium dai romani. Paolo si trasferì a Gerusalemme sin da ragazzo per studiare la Toràh presso Gamaliele (At 22:3), per cui è poco probabile che egli abbia potuto imparare la tessitura cilicea; si aggiunga il fatto che tale tessitura era ritenuta un lavoro abominevole per i rabbini, e Paolo aveva studiato proprio da rabbino. Come erano in realtà le tende dei giudei? Esse consistevano in tende di pelle animale (Is 54:2). Il tabernacolo risultava di varie pelli sovrapposte le une alle altre (Es 26:14;36:19). Ancora oggi gli arabi usano una tenda di cuoio rossastro che si chiama qutfà, e da essa possiamo intuire come potevano essere fatte le tende antiche. Che le tende fabbricate da Paolo non fossero intessute con peli di capra pare indicato anche dal fatto che egli lavorava per Aquila e Priscilla che erano originari del Ponto, e che perciò non usavano la tessitura cilicea.

   Priscilla era una donna preminente. In At 18:18 Luca antepone il nome di Priscilla a quello di suo marito: “Paolo . . . prese commiato dai fratelli e . . . s’imbarcò per la Siria con Priscilla e Aquila”. Altrettanto fa in At 18:26: “Priscilla e Aquila”. Paolo fa lo stesso scrivendo a Timoteo: “Saluta Prisca e Aquila” (2Tm 4:19). Segno evidente che nella coppia di sposi la figura predominante era lei. La sua preminenza si riscontra anche dal fatto che Paolo dice che a loro, menzionando per prima Priscilla: “Non io soltanto sono grato, ma anche tutte le chiese delle nazioni [= dei gentili o stranieri]”. – Rm 16:4.

   Priscilla doveva essere anche molto istruita, tanto che quando “un ebreo di nome Apollo, oriundo di Alessandria, uomo eloquente e versato nelle Scritture, arrivò a Efeso . . . Priscilla [menzionata prima del marito] e Aquila, dopo averlo udito, lo presero con loro e gli esposero con più esattezza la via di Dio”. – At 18:24-26.

   Priscilla era anche una donna intrepida. Paolo ricorda in Rm 16:3,4 che Priscilla (menzionata prima del marito) e Aquila avevano “rischiato il proprio collo” (TNM) per lui.

   Altre donne. “Salutate Maria . . . Trifena e Trifosa . . . la cara Perside . . . sua madre [di Rufo] . . . Giulia . . . sua sorella [di Nereo]” (Rm 16:6,12-15). Nel cap. 16 di Rm sono nominate 15 donne contro 18 uomini.

   In Col 4:15 Paolo menziona una comunità di fedeli che si riuniscono in casa di Ninfa: “Ninfa e la chiesa che è in casa sua”.

   Evòdia e Sìntiche sono due donne in disaccordo nella comunità di Filippi, e Paolo le esorta a non mantenere punti di vista contraddittori: “Esorto Evodia ed esorto Sintìche a essere concordi nel Signore” (Flp 4:2). Tutte e due avevano lavorato alla fondazione della congregazione filippese. “Queste donne” – dice Paolo – “hanno lottato per il vangelo insieme a me”. – Flp 4:3.

   Sin dall’inizio della predicazione apostolica esistevano dunque donne impegnate nella congregazione dei discepoli di Yeshùa.