“Dissero a Mosè: «Forse non c’erano tombe a sufficienza in Egitto per condurci a morire nel deserto?»”. – Es 14:11, TILC.

   Il luogotenente assiro si rivolge al re giudeo Ezechia: “Prova a sfidare il mio imperatore, il re d’Assiria! . . . Ti do io duemila cavalli, se riuscirai a trovare gli uomini per cavalcarli”. – 2Re 18:23, TILC.

   “Alcuni Ebrei che andavano in giro a scacciare gli spiriti maligni dai malati pensarono di servirsi del nome del Signore Gesù nei loro scongiuri. Dicevano agli spiriti maligni: «Nel nome di quel Gesù che Paolo predica, io vi comando di uscire da questi malati»”. Questi furbacchioni, dovettero rimanere con un palmo di naso quando “una volta lo spirito maligno rispose loro: «Gesù lo conosco e Paolo so chi è! Ma voi, chi siete?»”. Comica o tragicomica anche la scena quando “poi l’uomo posseduto dallo spirito maligno si scagliò contro di loro e li afferrò: li picchiò con tale violenza che essi fuggirono da quella casa nudi e pieni di ferite”. – At 19:13,15,16, TILC.

   C’è ironia, anche se involontaria, perfino negli evangelisti, che erano ispirati. Luca inizia così: “Poiché molti hanno intrapreso a ordinare una narrazione dei fatti . . . è parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa [πᾶσιν (pàsin); ciascuna, ogni, tutte, ognuna, tutte le cose] dall’origine, di scrivertene per ordine, illustre Teofilo” (1:1-3). Luca aveva davvero una bella pretesa, considerando ciò che scrive l’evangelista Giovanni: “Or vi sono ancora molte altre cose che Gesù ha fatte; se si scrivessero a una a una, penso che il mondo stesso non potrebbe contenere i libri che se ne scriverebbero” (Gv 21:25). Luca dice: caro Teofilo, ti ho scritto tutto; Giovanni dice: Ho scritto solo qualcosa, perché è proprio impossibile scrivere tutto. Poiché il Vangelo giovanneo è il più tardivo e poiché Luca non fu testimone oculare della vita di Yeshùa, mentre Giovanni lo fu, c’è molta finezza mista a sottile ironia nelle parole di Giovanni che rivelano una pretesa eccessiva da parte di Luca.

Ironia della sorte

   Un esempio classico d’ironia nella Bibbia lo troviamo nella storia di Giuseppe, figlio di Giacobbe. Giuda e gli altri suoi fratelli lo avevano venduto, lui diciassettenne, in schiavitù.  Ventidue anni dopo ci fu una carestia nel paese di Canaan e i fratelli furono costretti ad andare in Egitto per acquistare cibo. Giuseppe, all’insaputa di suoi fratelli, era diventato intanto il gran visir d’Egitto. Giuseppe, che li aveva riconosciuti, pretende che Beniamino (il fratello più piccolo) debba rimanere in Egitto. Giuda, tentando di ottenere la simpatia del gran visir (in realtà Giuseppe), dice che il loro padre è vecchio e così intercede per Beniamino. È alquanto comico e ironico che Giuda stia in realtà parlando con Giuseppe, che era tutt’altro che morto, come lui pensava (Gn 42:13). Suonano ironiche anche le parole di Giuda: “Come farei a risalire da mio padre senza avere il ragazzo con me? Ah, che io non veda il dolore che ne verrebbe a mio padre” (Gn 44:34). Ventidue anni prima Giuda non aveva avuto alcun problema a ordire con i suoi fratelli la vendita di Giuseppe, suo fratello di diciassette anni, e a vedere la sofferenza di suo padre.  Infatti, Giuda aveva detto: “Che ci guadagneremo a uccidere nostro fratello e a nascondere il suo sangue? Su, vendiamolo” (Gn 37:26,27). È anche abbastanza ironico che, mentre in un primo momento fu Giuda a suggerire che Giuseppe fosse venduto come schiavo, ora, ventidue anni dopo, Giuda implora Giuseppe: “Signore, ti supplico: prendi me come schiavo, al posto del ragazzo” (Gn 44:33, TILC). Nell’ironia, si ha qui uno dei temi di Genesi: chi inganna è poi a sua volta ingannato. Giacobbe fu ingannato dai suoi figli e indotto a credere che il suo figlio prediletto, Giuseppe, era stato divorato da una belva. Anni dopo, Giuseppe, ora gran visir d’Egitto, inganna i suoi fratelli che non lo riconoscono. Ora veste i sontuosi abiti variopinti con gli sgargianti colori egiziani con cui inganna i fratelli, mentre un tempo i fratelli ingannarono il padre presentandogli la sua veste colorata di sangue animale (Gn 37:31) per fargli credere che Giuseppe fosse stato sbranato.

   C’è sottile ironia della sorte anche nel fatto che Giuda, che aveva ingannato, a sua volta fu ingannato da Tamar, sua nuora che lo costrinse a rispettare la legge del levirato e a sposarla dopo che suo marito era morto (Gn 38:8; Dt 25:5,6). Aspetto interessante, quando Tamar esibisce il sigillo di Giuda, che aveva tenuto in pegno, dice: “Riconosci, ti prego” (Gn 38:25), in ebraico: הַכֶּר־נָא (haker-nàh). Questa stessa identica espressione fu usata con Giacobbe quando gli fu presentata la veste insanguinata di Giuseppe: “Esamina, ti preghiamo [הַכֶּר־נָא (haker-nàh)], se è la lunga veste di tuo figlio”. – Gn 37:32, TNM.

   È ironico anche che quando i fratelli Giuseppe lo vendettero, fu preso da “una carovana d’Ismaeliti . . . con i suoi cammelli carichi di aromi, di balsamo e di mirra, che scendeva in Egitto” (Gn 37:25). Ventidue anni dopo, Giacobbe inviò doni al gran visir (che poi era Giuseppe) che comprendevano balsamo e mirra. – Gn 43:11.

   Le parole del faraone egizio a Giuseppe per quanto riguarda la sua famiglia sono piene di ironia profetica: “Prendete vostro padre, le vostre famiglie e venite da me; io vi darò il meglio del paese d’Egitto” (Gn 45:18). Rashi, il famoso commentatore ebreo della Bibbia, osserva che il faraone inconsapevolmente anticipa quanto doveva accadere secoli dopo, quando gli israeliti lasciarono l’Egitto e lo svuotarono dei suoi preziosi: “Il Signore fece in modo che il popolo ottenesse il favore degli Egiziani, i quali gli diedero quanto domandava. Così spogliarono gli Egiziani”. – Es 12:36.

   C’è dell’ironia della sorte nel cantico trionfale di Israele, dopo il passaggio del Mar Rosso. Una strofa canta: “Tu li condurrai e li pianterai sul monte della tua eredità” (Es 15:17, TNM). Perché dire “li” (loro) invece di “ci” (noi)? In effetti, quegli ebrei non entrarono mai nella Terra Promessa: furono altri ebrei che vi entrarono. – Nm 14:23;26:64;32:11.

   Quando Rachele era ancora senza figli, “vedendo che non partoriva figli a Giacobbe, invidiò sua sorella, e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, altrimenti muoio»” (Gn 30:1). Tragica ironia della sorte, Rachele morì davvero. Per un figlio. “Ebbe un parto molto difficile . . .  stava morendo. Prima di esalare l’ultimo respiro chiamò suo figlio Ben-Oni (Figlio del Mio Dolore) . . . Rachele dunque morì”. – Gn 35:16-19, TILC.

   Dopo aver notato che suo suocero Labano non lo trattava come in passato, Giacobbe decise di fuggire con la sua famiglia. Rachele, moglie di Giacobbe, rubò allora a suo padre Labano degli idoli. Accortosene, Labano li insegue e li intercetta (Gn 31:19-24). “Ora Rachele aveva preso gli idoli, li aveva messi nella sella del cammello e si era seduta sopra quelli” (Gn 31:34). Non è forse ironico che gli idoli fossero finiti sotto il deretano di Rachele?

   “Mosè mandò a chiamare Datan e Abiram, figli di Eliab; ma essi dissero: «Noi non saliremo»”. Detto, fatto: “Il suolo si spaccò sotto i piedi di quelli, la terra spalancò la sua bocca e li ingoiò” (Nm 16:31,32). Non volevano salire? Così scesero. Sottoterra.

   Qui stiamo vedendo anche dei casi d’ironia della sorte che appaiono tristi o tragici. Va tenuto però presente il principio biblico di Es 21:23-25: “Se ne segue danno, darai vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, scottatura per scottatura, ferita per ferita, contusione per contusione”. La Bibbia insegna che il male attira il male. La punizione divina è adeguata al reato. L’ironia e spesso il sarcasmo che la Bibbia aggiunge non fa che ridicolizzare i colpevoli. Così, gli egiziani che volevano annegare i neonati ebrei nel fiume (Es 1:22) furono fatti annegare nel mare. – Es 14:28.

   Miryàm, la sorella di Mosè, aveva parlato “contro Mosè a causa della moglie cusita che aveva presa; poiché aveva sposato una Cusita” (Nm 12:1). Ora, una cusita è un’etiope (cfr. LXX e Vulgata) e, quindi, molto scura di pelle. Ebbene, Miryàm fu punita e divenne “lebbrosa, bianca come neve”. – Nm 12:10.

   Quando gli israeliti si lamentarono “in modo irriverente” nel deserto per la manna e pretesero la carne (Nm 11:1,4), la punizione di Dio fu oltremodo sarcastica: “Ne avrete non soltanto per un giorno o due, oppure per cinque o dieci o venti giorni, ma per un mese intero, finché ne avrete nausea, tanto che vi uscirà dal naso! Così sarete puniti”. – Nm 11:19,20, TILC.

   Nella sua canzone vittoriosa, Debora si raffigurata la madre di Sisera (generale dell’esercito nemico ucciso da una donna) che guardando fuori dalla finestra cerca di capire perché il figlio sia in ritardo, e lo attende con ansia. Ironia della sorte, la più saggia delle sue dame le dice per tenerla su di morale: “Non trovano forse bottino? Non se lo stanno forse dividendo? Una fanciulla, due fanciulle per ognuno” (Gdc 5:30). L’ironia è che a Sisera non toccava una donna come bottino, ma proprio una donna lo aveva ucciso. Lui, il grand’uomo, ucciso da una donna a colpi di martello su un picchetto da tenda che gli trapassò la tempia conficcandosi per terra, mentre era addormentato. – Gdc 4:21.

   Quando il re Davide commise adulterio con Betsabea e la mise incinta, lei era ancora sposata con Uria. Davide mandò allora una lettera al suo generale dicendogli di mettere Uria al fronte in modo che fosse ucciso in guerra. L’ironia è che, questa lettera, Davide “gliela mandò per mezzo d’Uria” che inconsapevolmente recò la propria condanna a morte. – 2Sam 11:14.

   Quando il profeta Natan rimproverò Davide per ciò che aveva fatto, gli raccontò una parabola che lui prese come storia vera. Con essa gli narrava di un poveruomo che possedeva soltanto un agnello che amava teneramente e che un uomo ricco gli prese per farne un pasto per un ospite. Davide, preso per vero il racconto, sbottò indignato: “Giuro per il Signore che quell’uomo meriterebbe la morte” (2Sam 12:5, TILC). Davide aveva così firmato la propria condanna.

   Aman, al servizio del re di Persia come primo ministro, era ambizioso e cercò di annientare l’ebreo Mardocheo, cugino della regina giudea Ester. È davvero carico d’ironia l’episodio in cui Aman crede che il re stia parlando di lui e invece parla di Mardocheo: “Aman entrò e il re gli disse: «C’è un uomo che io voglio onorare in maniera particolare: che cosa dovrei fare per lui?». Aman pensò: certamente sta parlando di me! Allora rispose: «Se proprio vuoi onorare qualcuno, mettigli a disposizione la tua veste regale e il tuo cavallo ornato con il turbante come quando lo usi tu. Un nobile della tua corte farà indossare a quell’uomo la tua veste regale, lo farà salire a cavallo e gli farà percorrere la via principale della città. Lungo il percorso griderà: Guardate, così si fa per un uomo che il re desidera onorare!»” (Est 6:6-9, TILC). Il finale? “Su, svelto, – ordinò il re ad Aman; – va’ a prendere gli abiti e il cavallo, e prepara questi onori per Mardocheo, quell’Ebreo che fa servizio a corte. Bada di fare tutto come hai detto”. – V. 10, TILC.

Situazioni umoristiche

   Nel libro biblico di Proverbi incontriamo varie descrizioni, intenzionalmente umoristiche (caricature comiche), della donna assillante, dei pazzi e dell’uomo pigro. Tali descrizioni sono rese ridicole con delle esagerazioni. Ciò è un modo di ripagare questi personaggi, perché i piagnoni tendono a ingrandire quelle che ritengono le loro disgrazie, rimpiangendo migliori tempi passati.

   “Una donna bella, ma senza giudizio, è un anello d’oro nel grifo di un porco” (Pr 11:22). “Meglio abitare in un deserto, che con una donna rissosa e stizzosa” (Pr 21:19). “Meglio abitare sul canto di un tetto, che in una gran casa con una moglie rissosa” (Pr 25:24). “Un gocciolare continuo in giorno di gran pioggia e una donna rissosa sono cose che si somigliano”. – Pr 27:15.

   Lo stolto è descritto pure in modo ridicolo. “Come la neve non si addice all’estate, né la pioggia al tempo della mietitura, così non si addice la gloria allo stolto” (Pr 26:1). “La frusta per il cavallo, la briglia per l’asino, e il bastone per il dorso degli stolti” (Pr 26:3). “Una massima in bocca agli stolti è come un ramo spinoso in mano a un ubriaco” (Pr 26:9). “Lo stolto che ricade nella sua follia, è come il cane che torna al suo vomito”. – Pr 26:11.

   Ce n’è anche per il pigro e il fannullone. “Il pigro dice: «C’è un leone nella strada, c’è un leone per le vie!»” (Pr 26:13); esagerando, trova una scusa per non fare niente. “La porta continua a girare sui suoi cardini, e il pigro sul suo letto” (Pr 26:14, TNM). “Il pigro tuffa la mano nel piatto; e gli sembra fatica riportarla alla bocca” (Pr 26:15). “Il pigro si crede più saggio di sette uomini che danno risposte sensate” (Pr 26:16). Per apprezzare quest’ultima battuta, va detto che il re, nei tempi antichi, aveva sette consiglieri: il pigro, a suo dire, li supera tutti.

   Il Cantico dei Cantici è stato definito il più bel testo poetico di tutti i tempi. Contiene però alcune immagini insolite, uniche in tutta la Bibbia. “A una mia cavalla nei carri di Faraone ti ho assomigliato, o mia compagna” (1:9, TNM). “I tuoi capelli sono come un branco di capre che sono scese saltellando dalla regione montagnosa di Galaad. I tuoi denti sono come un branco di [pecore] appena tosate che sono salite dalla lavatura, le quali tutte portano gemelli, non avendo nessuna fra loro perduto i suoi piccoli” (4:1,2, TNM). Nell’ultima frase, TNM tenta di aggiustare il testo, perché la Bibbia ha שֶׁכֻּלָּם מַתְאִימֹות וְשַׁכֻּלָה אֵין בָּהֶם (shekulàm matiymòt veshakulàh èyn bahèm), “che tutte abbinate e privata non c’è tra esse”. Si noti il gioco di assonanze shekulàm . . .  shakulàh. “Il tuo naso [אַפֵּךְ (apèch)] è come la torre del Libano” (7:4, TNM; nel Testo Masoretico è al v. 5). Alcuni, non ritenendo il naso prominente segno di bellezza, traducono אַפֵּךְ (apèch) con “viso”.

   La matriarca Sara, moglie di Abraamo, era sulla novantina (Gn 17:17) quando seppe che avrebbe avuto un figlio, e si mise a ridere: “Rise fra sé, perché sia lei che il marito erano molto vecchi. Sara sapeva che il tempo di aver figli era passato, e si domandava: «Posso ancora mettermi a fare l’amore? E mio marito è vecchio anche lui»” (Gn 18:11,12, TILC). Ora, qui TILC non coglie una gustosa e umoristica sfumatura del testo. Infatti, aggiusta secondo la logica: “Mio marito è vecchio anche lui”, aggiungendo un “anche” che la Bibbia non ha. Non crediamo che TNM colga la sfumatura, però è più letterale anche se un po’ arida: “Dopo essermi consumata, avrò realmente piacere, essendo per di più vecchio il mio signore?” (v. 12, TNM). Appare qui la stupenda psicologia femminile. Sara non si sente vecchia, ma anzi si domanda se potrà provare piacere: הָיְתָה־לִּי עֶדְנָה  (haytàh-liy ednàh): “Ci sarà piacere per me”? E, motivando la sua perplessità, aggiunge, riguardo al marito: זָקֵן (zaqèn), “è invecchiato”. Era il marito a essere invecchiato, non lei!

Nomi ironici o allusivi

   Al ritorno da Moab (dove ha perso il marito, due figli e tutte le sue ricchezze), Naomi dice agli abitanti di Betlemme: “Non chiamatemi più Noemi [= “mia piacevolezza”] . . . chiamatemi Mara [= “amara”], perché Dio Onnipotente ha reso amara la mia vita”, – Rut 1:20, TILC.

   “Giuseppe chiamò il primogenito Manasse [= “uno che fa dimenticare”], perché disse: «Dio mi ha fatto dimenticare ogni mio affanno e tutta la casa di mio padre»” (Gn 41:51). Giuseppe era diventato gran visir in Egitto e, nella sua alta posizione, avrebbe potuto facilmente mandare dei messaggeri alla sua casa paterna per informarli che era ancora vivo e stava bene. Davvero aveva ‘dimenticato tutta la casa di suo padre’.

   Stando sempre sui nomi, un angelo dice ad Agar, concubina egiziana di Abraamo: “Tu sei incinta e partorirai un figlio a cui metterai il nome di Ismaele [יִשְׁמָעֵאל (Yshmaèl); “Dio ode”], perché il Signore ti ha udita nella tua afflizione”. – Gn 16:11.

   A Giacobbe fu cambiato da Dio il nome in Israele (Gn 32:28; nel Testo Masoretico è al v. 29). Israèl (יִשְׂרָאֵל) significa “chi contende con Dio”. “Tu hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto”. – Ibidem.

   Noè, benedice suo figlio: “Dio estenda Iafet!” (Gn 9:27). E qui c’è un gioco di parole che si può cogliere solo nel testo originale: יַפְתְּ אֱלֹהִים לְיֶפֶת (yàfet Elohìym leyèfet).

   “Il primo che nacque era rosso e peloso come un mantello di pelo. Così fu chiamato Esaù [= “peloso”]. Dopo nacque suo fratello, che con la mano teneva il calcagno di Esaù e fu chiamato Giacobbe [יַעֲקֹב (Yaaqòv), “afferrante il calcagno”]” (Gn 25:25,26). Il gioco di parole qui è doppio, perché il verbo עָקַב (aqàv) significa sia “afferrare il tallone” sia “soppiantare”. Anni dopo, Esaù dirà del suo gemello Giacobbe: “Non è forse a ragione che egli è stato chiamato Giacobbe [יַעֲקֹב (Yaaqòv), “soppiantatore”]? Mi ha già soppiantato due volte: mi tolse la mia primogenitura, ed ecco che ora mi ha tolto la mia benedizione”. – Gn 27:36.

   Ci sono nella Bibbia molti giochi di parole che riguardano i nomi propri di persona. Li vedremo in un prossimo studio.

Autoironia

   Il libro biblico di Ecclesiaste è un testo non solo ironico ma autoironico. L’autore inizia con dichiarare che “tutto è vanità” (1:2) e poi spiega: “Ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino. Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento” (1:13,14). Quindi diventa autoironico: “Presi in cuor mio la decisione di abbandonare la mia carne alle attrattive del vino . . . di attenermi alla follia . . .  mi piantai vigne; mi feci giardini, parchi . . . mi costruii stagni . . . mi procurai dei cantanti e delle cantanti e ciò che fa la delizia dei figli degli uomini, cioè donne in gran numero . . .  Di tutto quello che i miei occhi desideravano io nulla rifiutai loro; non privai il cuore di nessuna gioia; poiché il mio cuore si rallegrava . . . Poi considerai tutte le opere che le mie mani avevano fatte, e la fatica che avevo sostenuto per farle, ed ecco che tutto era vanità, un correre dietro al vento, e che non se ne trae alcun profitto sotto il sole” (2:3-11). Dice anche di essere diventato il più saggio di tutti (2:9). Poi, d’un tratto, pare accorgersi d’un particolare cui non aveva pensato: che anche lui muore, come tutti. Ora, questa formidabile scoperta è semplicemente elementare, noi diremmo che è la scoperta dell’acqua calda. Lui però è dovuto diventare il più saggio di tutti per accorgersi di quello che tutti già sapevano da sempre.

   Contro la disumanità nel considerare gli stranieri troppo diversi da noi e quindi nemici, si erge lo stupendo libro biblico di Rut che, con la sua ironia della sorte, nel suo finale anticipa le parole di Yeshùa: “Voi avete udito che fu detto: «Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico». Ma io vi dico: amate i vostri nemici” (Mt 5:43,44), che porteranno poi alla regola aurea: “Tutte le cose dunque che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa è la legge e i profeti” (Mt 7:12). Rut è una donna straniera. Questa donna forestiera (noi diremmo extracomunitaria) entra alla fine a far parte del popolo di Dio. Di più: diventa una delle maggiori eroine di Israele. Di più: suo figlio sarà il bisnonno del grande re Davide. Di più ancora: da lei, nella sua discendenza, verrà il messia, il Cristo, Yeshùa.

   Dio stesso si mostra autoironico per dare una lezione a Israele: “Non lo sai tu? Non l’hai mai udito? Il Signore è Dio eterno, il creatore degli estremi confini della terra; egli non si affatica e non si stanca” (Is 40:28). “Certo non dorme né riposa, lui, che veglia su Israele”. – Sl 121:4, TILC.