“Tutti quelli che si basano sulle opere della legge sono sotto maledizione; perché è scritto: ‘Maledetto chiunque non si attiene a tutte le cose scritte nel libro della legge per metterle in pratica’. E che nessuno mediante la legge sia giustificato davanti a Dio è evidente, perché il giusto vivrà per fede”. – Gal 3:10,11.

 

L’uomo non è giustificato per le opere della legge”. – Gal 2:16.

 

   Cosa sono esattamente “le opere della legge”? A certe espressioni ci si abitua per via delle traduzioni bibliche, soprattutto se queste traduzioni sono condivise da molti traduttori. “Opere della legge” fa parte delle espressioni tipiche create dai traduttori. Non stiamo dicendo che la traduzione sia sbagliata, ma stiamo suggerendo solo di cogliere tutte le sfumature dell’espressione originale greca che la Bibbia usa, al di là della traduzione.

   Nel testo biblico l’espressione tradotta “per le opere della legge” è ἐξ ἔργων νόμου (ecs èrgon nòmu), letteralmente: “da opere di legge”; la parola tradotta “opere” è ἔργων, genitivo plurale di ἔργον (èrgon). Di ἔργον (èrgon) il Vocabolario del Nuovo Testamento dice: “Da una primaria (ma obsoleta): ergo (lavorare), numero Strong: 2041, sostantivo neutro; 1) affare, occupazione, quello con cui si è occupati, 1a) quello che ci si impegna a fare, impresa, 2) qualsiasi prodotto, qualsiasi cosa compiuta con la mano, arte, industria, o mente, 3) un atto, cosa fatta: l’idea di lavorare è sottolineata in contrasto alla mancanza di attività”.

   Questa parola è molto usata nelle Scritture Greche, e il suo uso nei vari contesti ci aiuta sicuramente a coglierne il senso pieno. La prima volta che compare è in Mt 11:2 a proposito di Giovanni che in carcere aveva “udito parlare delle opere del Cristo”. Già da qui capiamo che ἔργον (èrgon) significa “opera” nel senso di atto, di azione. Il successivo v. 19 conferma che èrgon indica le azioni: “Che la sapienza sia giusta è provato dalle sue opere” (TNM). Così, “potente in opere e in parole” (Lc 24:19) indica l’essere potente sia con le parole sia con le azioni; noi diremmo: nelle parole e nei fatti. La domanda posta dalla folla a Yeshùa – “Che dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?” (Gv 6:28) – è resa più chiara da PdS: “Quali sono le opere [= azioni] che Dio vuole da noi?”. In Gv 4:34, in cui Yeshùa parla di “compiere l’opera” di Dio, la parola assume il senso di “lavoro” inteso come realizzazione di un progetto. – Cfr. Gv 5:36;17:4.

   Che la parola ἔργον (èrgon), tradotta “opera”, significhi “azione” è chiaro in 2Cor 10:11: “Ciò che siamo a parole mediante lettere quando siamo assenti, tali saremo anche nell’azione [τῷ ἔργῳ (to èrgo); “nei fatti” (PdS)] quando saremo presenti” (TNM). Così, “le cose che fecero” (Ap 14:13, TNM) sono nel testo greco ἔργα (èrga), le “azioni”, le “opere” di NR.

   “Opere della legge” come azioni in ubbidienza alla Legge, dunque. Paolo domanda retoricamente: “Dov’è dunque il vanto? Esso è escluso. Per quale legge? Delle opere?” (Rm 3:27). Esiste dunque una ‘legge delle opere’ ovvero un modo di intendere la Toràh o Legge di Dio come un insieme di precetti da eseguire alla lettera tramite azioni dettate solo dalla ferrea volontà. Questo modo di approcciarsi alla Legge di Dio si chiama legalismo. Ecco cosa sono le “opere della legge”: azioni compiute con l’intento di essere dichiarati giusti davanti a Dio.

   Soltanto Dio può dichiarare giusto qualcuno. I miseri tentativi di dimostrarsi giusti per meriti propri sono assolutamente vani. Giobbe si riteneva un giusto, e fu rimproverato: “Cessarono di rispondere a Giobbe, perché egli si credeva giusto . . . l’ira di Eliu, figlio di Baracheel il Buzita, della tribù di Ram, si accese. La sua ira si accese contro Giobbe, perché questi riteneva che la propria giustizia fosse superiore” (Gb 32:1,2). I farisei furono notevolmente ripresi da Yeshùa perché cercavano di spacciarsi per giusti. – Lc 16:15.

   Irabbini insegnavano a perseguire la giustizia con le “opere della legge”. Le loro tradizioni orali spiegavano che se le azioni di una persona erano in prevalenza buone, la persona sarebbe stata salvata, perché il giudizio di Dio sarebbe stato formulato “a seconda che ci fossero più opere buone o malvagie” (Mishnàh), in una specie di contabilità fatta di dare e avere. Per essere ritenuti giusti i rabbini si angosciavano per “conseguire meriti tali da superare i peccati” (Mishnàh). Secondo loro, se le opere buone fossero state più di quelle malvagie (anche solo di una), la persona sarebbe stata salvata.

“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché pagate la decima della menta, dell’aneto e del comino, e trascurate le cose più importanti della legge: il giudizio, la misericordia, e la fede. Queste sono le cose che bisognava fare, senza tralasciare le altre”. – Mt 23:23.

   Se la nostra giustizia, il nostro essere giustificati, il nostro essere dichiarati giusti si ottenesse così, per merito delle nostre azioni contabilizzate alla ragioniera, ci sarebbe davvero motivo di vanto. Paolo si oppone strenuamente a questa falsa idea:

“Dov’è dunque il vanto? Esso è escluso. Per quale legge? Delle opere? No, ma per la legge della fede; poiché riteniamo che l’uomo è giustificato mediante la fede senza le opere della legge. Dio è forse soltanto il Dio dei Giudei? Non è egli anche il Dio degli altri popoli? Certo, è anche il Dio degli altri popoli, poiché c’è un solo Dio, il quale giustificherà il circonciso per fede, e l’incirconciso ugualmente per mezzo della fede. Annulliamo dunque la legge mediante la fede? No di certo! Anzi, confermiamo la legge”. – Rm 3:27-31.

   Paolo non si oppone alla Legge, anzi egli la conferma. Si oppone però alle “opere della Legge”, all’inutile tentativo legalistico di guadagnarsi la giustificazione tramite le proprie azioni o opere. Il fatto che “l’uomo è giustificato mediante la fede senza le opere della legge” esclude allora le azioni di ubbidienza? Questa è la conclusione errata cui giungono molte religioni. Esaminiamo la questione.

   Di Abraamo, Paolo dice:

 “Se Abraamo fosse stato giustificato per le opere, egli avrebbe di che vantarsi; ma non davanti a Dio; infatti, che dice la Scrittura? ‘Abraamo credette a Dio e ciò gli fu messo in conto come giustizia’. Ora a chi opera, il salario non è messo in conto come grazia, ma come debito; mentre a chi non opera ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede è messa in conto come giustizia”. – Rm 4:2-5.

   Seguendo un ragionamento religioso e non biblico, le opere dovrebbero essere ritenute abolite, giacché Paolo afferma sotto ispirazione che “l’uomo non è giustificato per le opere della legge” (Gal 2:16). Qui sta il grande travisamento. Ci sia consentito un esempio, per quanto misero. Se una moglie dice al marito che lo ama non perché lui lavora e porta a casa uno stipendio ma perché lo ama per se stesso, significa forse che lui debba smettere di lavorare? Abraamo non fu “giustificato per le opere”, infatti – dice Paolo -, “a chi opera, il salario non è messo in conto come grazia, ma come debito”. Se Abraamo “fosse stato giustificato per le opere”, non solo avrebbe avuto “di che vantarsi”, ma avrebbe avuto diritto (in una visuale umana) a essere dichiarato giusto da Dio, quasi avesse meritato un “salario”, che non sarebbe un favore o una grazia ma solo quanto dovuto. No, Abraamo non fu “giustificato per le opere”. Ciò però non significa per niente che quelle opere non le compì. Abraamo le compì le opere, eccome.

“Abraamo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere quando offrì suo figlio Isacco sull’altare? Tu vedi che la fede agiva insieme alle sue opere e che per le opere la fede fu resa completa”. – Gc 2:21,22.

   Se si legge bene ciò che Paolo dice, non c’è contraddizione con la dichiarazione, pure ispirata, di Giacomo. Abraamo compì le opere, ma non fu “giustificato per le opere” in se stesse, ma per la fede che dimostrò compiendo quelle opere. Abraamo non compì le opere per avere la giustificazione di Dio, ma Dio lo giustificò perché compì le opere con il giusto motivo: la fede ubbidiente. “Egli credette al Signore, che gli contò questo come giustizia” (Gn 15:6). “Così anche Abraamo credette a Dio e ciò gli fu messo in conto come giustizia”. – Gal 3:6.

   Riprendendo l’esempio della moglie che ama sinceramente il marito, è come se lui dicesse: Io non lavoro sodo per avere il tuo amore ma lavoro sodo perché ti amo.

   “È per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti” (Ef 2:8,9). “Se è per grazia, non è più per opere; altrimenti, la grazia non è più grazia” (Rm 11:6). “Ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia” (Tit 3:5). Come nel caso di Abraamo, non siamo salvati “per opere giuste da noi compiute”, tuttavia tali opere giuste, come Paolo dice, sono “compiute”, fatte, eseguite.

“C’era un uomo che aveva due figli. Chiamò il primo e gli disse: ‘Figlio mio, oggi va’ a lavorare nella vigna’. Ma quello rispose: ‘No, non ne ho voglia’; ma poi cambiò idea e ci andò. Chiamò anche il secondo figlio e gli disse la stessa cosa. Quello rispose: ‘Sì, padre’, ma poi non ci andò. Ora, ditemi il vostro parere: chi dei due ha fatto la volontà del padre?”. – Mt 21:28-31, PdS.

   “Quando avrete fatto tutto ciò che vi è comandato, dite: ‘Noi siamo servi inutili; abbiamo fatto quello che eravamo in obbligo di fare’”. – Lc 17:10.