Si possono distinguere tre diverse valutazioni fatte dagli studiosi circa gli scritti profetici.

  1. Tradizionale. Questa corrente ha accettato che i libri profetici fossero stati scritti dagli stessi profeti, che non solo avevano predicato ma che avevano anche messo per iscritto o dettato i loro oracoli. Al più questa corrente ammette l’esistenza di aggiunte o glosse a tali scritti fatte in epoca posteriore, che tuttavia non ne infirmano la loro origine sostanziale dai profeti.
  2. Nel secolo scorso (20°) una grande rivoluzione si è operata in questo campo. La stesura dei libri profetici fu attribuita sempre più alla trasmissione orale fino alla loro definitiva stesura scritta da parte dei circoli profetici. Secondo questa scuola, la predicazione orale ha preceduto quella scritta, e originariamente risultava di brevi scritti relativi ad eventi contemporanei, prima trasmessi oralmente e – dopo la morte del profeta – raccolti in piccole collezioni scritte. Solo brevi detti in cui si usa la prima persona potrebbero pervenire dal profeta stesso. Ma a essi sarebbero poi state aggiunte le riflessioni degli stessi discepoli, per cui accanto a detti genuini ve ne sarebbero molti altri non propriamente autentici. Le collezioni si sarebbero formate per associazione di argomenti simili (contro le nazioni, contro Israele, e così via). Queste collezioni sarebbero poi state attribuite a un profeta individuale che diede così il nome alla raccolta.

   L’importanza della trasmissione orale venne studiata dalla scuola scandinava che ne fece una sua specialità. Per N. Nyberg “gli scritti profetici dell’Antico Testamento sono una creazione della comunità giudaica dopo l’esilio. […] Occorre studiare con serietà scientifica se sia possibile ritrovare le ipsissima verba”. – Studien zum Hoseabuche: zugleich ein Beitrag zur Klärung der Probleme des alt testamentlichen Textkritik, Usala, pag. 137.

  1. Valutazioni più recenti degli studi profetici, oltre al maggior valore dato alla trasmissione orale, suppongono che il profeta abbia scritto lui stesso qualcosa. Si tratta quindi di una reazione alla scuola scandinava.

   Che valutazioni si possono fare? La scuola scandinava ha indubbiamente dato un apporto positivo all’esegesi perché ha evidenziato l’importanza della trasmissione orale. Gli scritti erano rari nell’antico oriente e la memoria aveva continuamente un ruolo importante. Nel quarto anno del regno di Ioiachim re di Giuda, Geremia ricevette l’ordine di mettere per iscritto “tutte” le profezie da lui pronunciate per decenni. Non si trattava di un sommario, ma di “tutte” le profezie. “Avvenne nel quarto anno di Ioiachim figlio di Giosia, re di Giuda, che questa parola fu rivolta a Geremia da parte di Geova, dicendo: Prenditi il rotolo di un libro, e vi devi scrivere tutte le parole che ti ho proferito contro Israele e contro Giuda e contro tutte le nazioni, dal giorno in cui ti parlai, dai giorni di Giosia, fino a questo giorno’” (Ger 36:1,2, TNM). I profeti non profetizzavano di continuo, non erano dei predicatori. Parlavano quando Dio parlava e per questo avevano tempo di meditare la parola di Dio e di conservarla a memoria. – Ger 36.

   La scuola scandinava però non prende sul serio certi passi biblici che documentano una trasmissione anche scritta. “Il Signore mi disse: ‘Prendi una tavoletta grande e scrivici sopra in caratteri leggibili’” (Is 8:1). “Traccia queste cose in loro presenza sopra una tavola, e scrivile in un libro” (Is 30:8). Forse si tratta qui di un documento pesante e non di un libro vero e proprio: si tratta, infatti, di scolpire. TNM traduce 8:1 con “Prenditi una larga tavoletta e scrivici sopra con lo stilo dell’uomo mortale [sic]”, in cui si parla di ‘scrivere con uno stilo’. Ma il testo ebraico ha

גִּלָּיֹון גָּדֹול וּכְתֹב עָלָיו בְּחֶרֶט אֱנֹושׁ

ghilaiòn gadòl uchtòv alàyu bekhèret enòsh

tavoletta grande e scrivi su essa con bulino d’uomo

   Si tratta di una “tavoletta grande” su cui va scritto bekhèret, con un “bulino” (una specie di scalpello), e non con uno stilo; il “d’uomo” indica i caratteri ordinari o comuni. E 30:8 è tradotto da TNM: “Scrivilo su una tavoletta […] e incidilo anche in un libro”. Il parallelismo ebraico che ripete la stessa cosa con parole diverse ci fa comprendere che si trattava di un documento pesante su cui il testo era inciso. Ma non si parla di “libro”? Già, ma attenzione a non leggere come il solito all’occidentale del secolo attuale. Siamo in epoca isaiana, secoli e secoli prima della nostra èra. La parola ebraica tradotta “libro” è סֵפֶר (sèfer). È la stessa parola che oggi in ebraico moderno indica il comune libro fatto di pagine di carta. Ma cos’era il sèfer nei tempi antichi? In babilonese abbiamo la parola siparu le cui consonanti sono spr, le stesse identiche della parola ebraica (ספר, spr), e in babilonese il siparu indicava il bronzo e il rame su cui, appunto, si poteva incidere.

   È possibile quindi affermare insieme alla trasmissione orale anche una trasmissione scritta, anteriore all’esilio. Questa non è per nulla un’eccezione (come sostengano i difensori scandinavi della trasmissione orale), ma un fatto diffuso.

   Gli oracoli scritti sono una selezione compiuta dal profeta stesso o dai suoi discepoli. Sono genuini.

   Gli artefici della trasmissione orale furono i padri che raccontavano gli episodi ai figli (tradizione familiare). La trasmissione scritta, invece, va posta in relazione con il Tempio, che allora era il centro dell’istruzione. In oriente la scienza, la letteratura e l’arte erano prerogativa della classe sacerdotale. In Israele avvenne a maggior ragione la stessa cosa, perciò i circoli profetici erano strettamente connessi all’ambiente sacerdotale. Va comunque precisato che oltre all’ambiente sacerdotale vi erano anche gli scribi aulici che costituivano l’élite intellettuale di Gerusalemme e avevano pure la possibilità di consegnare per iscritto la predicazione dei grandi ispirati.

   Occorre ridare maggiore fiducia agli scritti profetici e alla concezione tradizionale che fa dei profeti anche gli autori degli scritti.