Archeologia per sostenere la presunta miticità biblica

Un altro gruppo di studiosi è invece andato alla ricerca di ciò che sminuiva il valore biblico, riducendo questo libro a un puro scritto pari degli altri scritti dell’antichità. Ecco ciò che costoro hanno rilevato:

1.       La Bibbia presenterebbe il medesimo pensiero degli antichi orientali.

   “Le leggi mosaiche trovano modelli nei codici assiri, sumerici, ittiti, babilonesi; i salmi penitenziali fanno pensare alle preghiere dei penitenti della Mesopotamia; la sapienza egiziana o sumerica può aver ispirato gli autori dei proverbi israeliti; il Salmo 104 riecheggia l’inno al sole di Akhenaton; il racconto del diluvio si trova in alcune versioni accadiche e sumeriche. Gli annunzi profetici ricordano lo stile degli ispirati di Mari”. – R. Martin-Achard, Incontro all’Antico Testamento, Borla, Torino, pag. 69; questo testo è favorevole alla Bibbia.

   Si fece notare che il mito (secondo questi studiosi) della creazione presentava gli stessi nomi del poema babilonese Enuma Elish. Il “cavalcatore delle nuvole” applicato al Dio di Israele (Sl 68:22) sarebbe un’immagine mitologica di Baal, il dio della pioggia; l’allusione al serpente guizzante (fuggitivo) e tortuoso di Isaia rievoca un testo di Ugarit. Si comparino assieme:

 

Is 27:1 (TNM)

Testo di Ugarit

“[Dio] rivolgerà la sua attenzione al Leviatan, il serpente guizzante, sì, al Leviatan, il serpente tortuoso

“Fracasserai Ltn, il serpente guizzante, ucciderai il serpente tortuoso

   Anche la torre di Babel non sarebbe – secondo loro – che un mito per spiegare l’esistenza dell’incompiuta ziggurat (torre cultuale) della Babilonia, che si vedeva nelle sue vicinanze. Ricollegandone il nome Babel a Balal (“confusione”) anziché a Bab-ilu (“porta di Dio”), ne sarebbe nato il mito della differenziazione linguistica. La Bibbia rientrerebbe dunque nella categoria dei libri umani antichi, con miti e leggende. Non sarebbe quindi ispirata e meriterebbe una scarsa attendibilità storica.

2.       Contrasto con l’archeologia.

   È il caso delle mura di Gerico che sarebbero già cadute prima dell’invasione ebraica. A tutti è noto il racconto biblico: processione quotidiana attorno alla città e settuplice processione al settimo giorno con il conseguente crollo finale della khomà, ossia, come si pensa di solito, delle mura in seguito ad un cataclisma divino. L’archeologia conferma il dato biblico?

a)       Reperti archeologici. La collina di es-Sultan è stata ripetutamente esplorata dagli archeologi che volevano confermare il racconto biblico (fu esplorata da Sellin nel 1907-1908; da Garstang nel 1929-36; da Miss Kenyon nel 1952-1958). Secondo il Garstang la città caduta dinanzi al popolo ebraico sarebbe la quarta, che costruita verso il 1500 a. E. V., sarebbe stata distrutta da un cataclisma all’inizio del 15° secolo a. E. V.. Questo si accordava – secondo lui – con la data più antica dell’ingresso ebraico in Palestina (15° sec. a. E. V.). Miss Kenyon in una serie di scavi più meticolosi, iniziatisi nel 1952, vi rinvenne ben diciassette strati. La città, già utilizzata come difesa sin dal protoneolitico (8000-7000 a. E. V.), verso la fine del 3° millennio, divenne una piazzaforte eretta contro gli attacchi dei popoli della steppa, provenienti da al di là del Giordano (dall’oriente). La sua distruzione avvenne tra il secolo 18° e 16°, anteriormente quindi alla data proposta dal Garstang e molto tempo prima dell’ingresso degli ebrei in Palestina, che ora si pone verso il 13° secolo a. E. V. (15° per i Testimoni di Geova). La città a quel tempo era praticamente disabitata; l’anatema di Giosuè trova la sua conferma archeologica in quanto Gerico restò disabitata fino al 9° secolo: “Chiel, di Betel, ricostruì Gerico; ne gettò le fondamenta su Abiram, suo primogenito, e ne rizzò le porte su Segub, il più giovane dei suoi figli, secondo la parola che il Signore aveva pronunziata per bocca di Giosuè, figlio di Nun” (1Re 16:34). Va quindi eliminato il felice concordismo circa la caduta delle mura sorto dopo la prima euforica presentazione degli scavi, ad opera del Garstang. Gli odierni critici vedono perciò nel racconto biblico una presentazione mitica dell’ingresso in Canaan, che è contraddetto dall’archeologia moderna.

b)       Le interpretazioni esegetiche. Dato che le mura di Gerico più non esistevano al tempo di Giosuè, il Montagnini cerca la spiegazione di questo contrasto ricorrendo al genere letterario. Gli ebrei, rendendosi conto che se Gerico fosse stata abitata a quel tempo avrebbe reso impossibile la penetrazione ebraica in quella regione così fertile dove “scorre latte e miele” (Es 3:8), videro nelle sue rovine, già esistenti, l’opera di Dio, un prodigio del Signore, che aveva preparato l’ingresso in Palestina smantellandone le mura poste a sua difesa, in un epoca anteriore. Questo sarebbe l’insegnamento del passo di Giosuè, nel quale si parla non di un’impresa umana bensì divina; il giro delle mura sarebbe la processione degli ebrei.

   Alcuni negano l’identificazione di Gerico con Tell es-Sultan, e attendono l’esumazione di un altro ipotetico tell che racchiuderebbe ancora l’antica Gerico. È però difficile pensare all’esistenza di un’altra città importante vicina al luogo degli scavi, che ha rivelato una importante cultura plurimillenaria.

   Forse si può trovare un’altra soluzione. Anche Ai (“mucchio di rovine”) era stata usata dai cananei come luogo di difesa. Dopo la conquista di Gerico, “Giosuè mandò degli uomini da Gerico ad Ai, che è vicina a Bet-Aven, a oriente di Betel, e disse loro: ‘Salite ed esplorate il paese’. E quelli salirono ed esplorarono Ai. Poi tornarono da Giosuè e gli dissero: ‘Non occorre che salga tutto il popolo; ma salgano due o tremila uomini, e sconfiggeranno Ai’” (Gs 7:2,3). Sembrerebbe strano che i cananei non abbiano per l’occasione utilizzato anche le rovine di Gerico. Un’abitazione temporanea e limitata non lascia tracce archeologiche profonde e può passare inosservata al ricercatore. Dopo la caduta delle mura di Gerico qualche abitazione potrebbe essere stata sfruttata, come nel caso della meretrice. La processione non fece crollare le mura già inesistenti, bensì la “difesa” umana (e non muraria) spaurita dalle processioni ritenute magiche dai cananei. Dopo tale rito propiziatorio, all’udire il grido di guerra (teruàh), ogni ebreo si slanciò “dinanzi a sé” (poiché le mura più non esistevano, ma solo dei pezzi rovinati) e la “difesa della città” cedette senza lotta. Ecco il prodigio: “Avvenne che, appena il popolo ebbe udito il suono del corno e il popolo lanciava un grande grido di guerra, הַחֹומָה [hakhomàh, “la difesa”] crollava. Dopo ciò il popolo salì nella città, ciascuno diritto davanti a sé, e catturò la città” (Gs 6:20, TNM, con inserzione della parola ebraica). Il vocabolo ebraico khomàh, oltre al valore di “mura” di una città (khomat haìr), può avere anche il senso metaforico, anche per il caso di Gerico. Khomàh (“difesa”) è usato per indicare l’argine dell’acqua che si eleva come un muro (Es 14:22,29), per una “difesa” di persone (1Sam 25:16; Is 26:1; Ger 1:18;15:20; Am 7:1; passi in cui compare sempre khomàh con il senso di “difesa”). Khomàh è pure utilizzato per il corpo di una ragazza vergine che non cede alle lusinghe (Cant 8:9 e sgg.; Pr 18:11;25:28). Nel caso di Gerico potrebbe indicare gli uomini che difendevano la città come un muro? È possibile. In tal caso non vi sarebbe più il problema della caduta delle mura. C’è nel testo ebraico un’espressione che TNM tralascia e non traduce. Il testo ebraico ha הַחֹומָה תַּחְתֶּיהָ  (hakhomàh takhteyàh), che Diodati traduce: “Le mura caddero sotto di sé” (Did). Takhteyàh può tradursi anche “a motivo d’esso”, riferendolo al teruàh  o grido di guerra.  Quando tutto il popolo si mise a gridare dopo il settimo giro, la guarnigione di difesa cedette. Il passo si potrebbe quindi tradurre come segue: “E soffiarono [i sacerdoti] nelle trombe; e avvenne che quando il popolo ebbe udito il suono delle trombe diede in un grande grido [teruàh] e la guarnigione cadde a motivo di esso. Il popolo salì, ciascuno dinanzi a sé e s’impadronì della città”. – Gs 6:20, traduzione conforme all’ebraico.

   Va notato che nella letteratura ebraica extrabiblica le mura non sono menzionate. L’Ecclesiastico (Siracide o Ben Sira, apocrifo) nel suo elogio dei padri (il passo, nella LXX, è in 46:2), pur ricordando la caduta delle varie città, non parla delle mura di Gerico. La versione greca del libro canonico di Giosuè (la LXX), non comprendendo più bene l’originale ebraico, applicò la caduta alle “mura” (khomàh) anziché alla guarnigione di “difesa” (khomàh). Da qui nacque l’errore. Infatti, la parola ebraica khomàh (“difesa”) fu tradotta dai LXX  con la parola greca τὸ τεῖχος (to tèichos, letteralmente “il muro”).  Questa traduzione fu pure accolta dalle Scritture Greche, i cui autori usavano – come si sa – la versione biblica dei LXX. Così, nella Lettera agli ebrei si ha: “Le mura di Gerico caddero” (Eb 11:30, TNM). Si noti il plurale che lo scrittore di Eb usa: τὰ τείχη (ta tèiche, “le mura”).  L’equivoco era progredito. L’ebraico aveva usato il singolare “la difesa” (hakhomàh), interpretato dai LXX con il singolare “il muro” (to tèichos). In Eb diventa il plurale “le mura” (ta tèiche).  

   Il passo biblico vuole solo porre in enfasi il fatto che la conquista di Gerico, necessaria per penetrare in Palestina, non fu opera di potenza umana, bensì divina, come canta il Salmo 44:3: “Essi non conquistarono il paese con la spada, né fu il loro braccio a salvarli, ma la tua destra, il tuo braccio, la luce del tuo volto, perché li gradivi”.