Interludio

   Nei capitoli 28 e 32-37 di Giobbe si ha un interludio che è costituito dall’elogio della sapienza divina (cap. 28) e dai discorsi di Eliu, il quale inizia a parlare all’improvviso senza alcuna presentazione e dopo quattro discorsi si ritira definitivamente nell’ombra. – Capp. 32-37.

   L’elogio della sapienza non fa altro che preparare e confermare il discorso divino. I discorsi di Eliu sono un tentativo per rendere più comprensibile la tesi tradizionale degli amici di Giobbe. Secondo questo interlocutore, il sofferente Giobbe fa male a lagnarsi di Dio, perché la disciplina è dolorosa ma va accolta umilmente (33:23-33); se l’uomo grida invano a Dio è perché non chiede con umiltà e fede, senza condannare gli altri. – 34:9-16.

   Dio, così grande e sapiente quando si rivela nell’uragano e in altri fenomeni celesti, non può essere capito dalla limitatezza umana. – Capp. 36,37.

   Eliu è un giovane baldanzoso (32:6) che non aggiunge nulla di nuovo al libro. In parte accoglie la tesi degli amici di Giobbe e in parte preannuncia ciò che Dio stesso dirà. I discorsi di Eliu seguono lo schema della discussione sapienziale degli amici di Giobbe, ma si diffondono di più e presentano il metodo rabbinico di citare le sentenze avversarie e di ribatterle: “Davanti a me tu dunque hai detto (e ho udito bene il suono delle tue parole): . . .” (33:8), “Giobbe ha detto: ‘Sono giusto, ma Dio mi nega giustizia’” (34:5), “Infatti ha detto: ‘All’uomo non giova a nulla avere la benevolenza di Dio’” (34:9), “Credi tu d’aver ragione quando dici: ‘La mia giustizia è superiore a quella di Dio’?” (35:2), e così via.

L’intervento divino

   Quando l’uomo tace non v’è ulteriore possibilità che quella di udire la parola stessa di Dio (38:1-42:6). Dio parla dal centro di un turbine. I suoi discorsi sono di una poesia scintillante, comunque pertinente alla discussione. Il discorso che Dio fa non intende affatto rispondere al problema: secondo lo stile ebraico, esso vuole solo indicare che Dio è sapiente, così sapiente che non tutto nel suo modo di agire si può capire. L’ebreo Paolo conosce molto bene questo concetto, tanto che afferma:

“Non con sapienza di parola . . . la predicazione della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi, che veniamo salvati, è la potenza di Dio; infatti sta scritto: Io farò perire la sapienza dei saggi e annienterò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è lo scriba? Dov’è il contestatore di questo secolo? Non ha forse Dio reso pazza la sapienza di questo mondo? Poiché il mondo non ha conosciuto Dio mediante la propria sapienza, è piaciuto a Dio, nella sua sapienza, di salvare i credenti con la pazzia della predicazione. I Giudei infatti chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza . . . predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini . . . non ci sono tra di voi molti sapienti secondo la carne, né molti potenti, né molti nobili; ma Dio ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i sapienti; Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti; Dio ha scelto le cose ignobili del mondo e le cose disprezzate, anzi le cose che non sono, per ridurre al niente le cose che sono, perché nessuno si vanti di fronte a Dio. Ed è grazie a lui che voi siete in Cristo Gesù, che da Dio è stato fatto per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione; affinché com’è scritto: Chi si vanta, si vanti nel Signore”. – 1Cor 1:18-31, passim.

   Sapienza di Dio e saggezza dell’uomo sono reciprocamente stoltezza l’una all’altra.

   Questo concetto viene indicato con una serie di paradossi con cui si descrive la realtà così come appariva all’ebreo di allora: nessuno ne nega l’esistenza, anche se non si può comprendere del tutto. In una serie di domande cui l’uomo non sa rispondere, Dio domanda a Giobbe di chiarirgli l’origine dell’aurora, della luce, delle tenebre, del gelo, dei venti, dell’erba, della grandine e di molti altri fenomeni naturali (38:1-40:5). Dio domanda a Giobbe se sia stato lui a riunire le stelle di Orione e delle Pleiadi – vale a dire le sette stelle della costellazione del Toro -, così dette perché sotto il loro segno i greci iniziavano a navigare (πλέω, plèo, “navigare”). Perfino gli animali fanno risaltare l’ignoranza e la debolezza umane.

 

“Allora il Signore rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:

‘Chi è costui che oscura i miei disegni

con parole prive di senno?

Cingiti i fianchi come un prode;

io ti farò delle domande e tu insegnami!

Dov’eri tu quando io fondavo la terra?

Dillo, se hai tanta intelligenza”. – 38:1-4.

   In un secondo discorso Dio sceglie tra le sue opere terrestri l’ippopotamo e il coccodrillo per mostrare come tutto sia stato compiuto con arte superiore alla capacità umana. – Cap. 40.

   Sembra che Dio ponga una sfida a Giobbe (e a noi stessi):

 

“Io ti farò delle domande e tu insegnami!”.

   L’uomo moderno, che ha scoperto i segreti della materia, trova che quasi tutte le meraviglie ricordate da Dio sono dei piccoli fenomeni insignificanti. Ma anche agli scienziati di oggi Dio potrebbe porre tante domande che li lascerebbero tutti senza risposta, proprio così come rimase Giobbe. E se questi scienziati avessero un po’, ma solo un po’, di modestia, sarebbero costretti a ripetere le stesse parole di Giobbe:

 

“Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo;

sono cose per me troppo meravigliose e io non le conosco”. – 42:3.

   Ecco, quindi, la risposta che Dio diede a Giobbe. Una risposta che non è una risposta, perché lascia tutto il problema aperto. Una sapienza così grande che dirige l’intero universo deve certamente saper dirigere anche il corso degli eventi umani, benché l’uomo non lo percepisca. Il poeta ispirato non tenta di rendere intelligibile il mistero del male: confessando i limiti della propria ragione si affida con fede a chi è grande e potente e sapiente tanto da dirigere un mondo così disordinato.

   Il problema non ha bisogno di risposta per chi si affida con fede alla sapienza di Dio che vuole solo il bene. Questa è l’esperienza carica di significato che Giobbe fa nella teofania finale.

Composizione del libro: parti genuine e parti aggiunte

   La domanda che dobbiamo porci è: Il libro quale noi lo abbiamo oggi fu composto così, di getto, nella sua totalità oppure è frutto di ripensamenti e di aggiunte posteriori ad opera di altri scribi ispirati? I punti più discussi sono il prologo e l’epilogo, l’interludio di Eliu, i discorsi di Dio e forse anche l’inno alla sapienza introdotto nei discorsi di Giobbe.

   Prologo ed epilogo. Certamente i dati storici riguardanti Giobbe preesistevano al dialogo di Giobbe, come abbiamo già notato in precedenza. Il problema sta nel sapere se il prologo e l’epilogo preesistessero al libro di Giobbe già così composti come ora si trovano nel prologo e nell’epilogo, oppure se siano una composizione dello stesso autore che ha scritto anche il dialogo poetico. È un fatto che il ricordo dei malanni di Giobbe si dovette trasmettere di generazione in generazione. È anche naturale che tale ricordo si sia presto tramandato oralmente in uno schema fisso. Su di esso l’artista ispirato ha lavorato adattandolo al dialogo successivo. Di conseguenza si comprendono le differenze stilistiche: la diversità del nome di Dio, che nella parte prosaica è Elohìm e Yhvh, nomi che mai ricorrono nella parte in poesia. Si comprende così anche il fatto che la parte storica sembra corroborare la tesi degli amici di Giobbe anziché la conclusione divina per la quale il male è un mistero insondabile o quella di Giobbe per cui non sempre il bene trionfa su questa terra. Dall’epilogo vediamo, infatti, come la benedizione di Giobbe coroni giusto la sua vita terrestre, confermando proprio ciò che dicevano i suoi amici, biasimati da Dio. Sembra quindi che il racconto sia preesistito per conto suo, e che esso dimostri come le sofferenze terminino con un lieto fine. Ma tale racconto fu adattato e modificato dall’autore in vista del successivo dialogo, tant’è vero che si fanno intervenire i tre amici che poi intessono la discussione con Giobbe.

   Interludio. L’interludio include i discorsi di Eliu e probabilmente l’elogio della sapienza al capitolo 28, che è messo in bocca a Giobbe. L’elogio della sapienza non è che un preludio di ciò che dirà Dio stesso quando apparirà nel turbine. Data la sua composizione unitaria ed astratta ben diversa dal carattere ridondante dei discorsi personali di Giobbe, sembra che sia una composizione di saggi introdotta posteriormente nel libro. Di certo sono un’aggiunta posteriore i discorsi di Eliu, che mancano di collegamento con l’intrecciarsi del dialogo. Eliu, infatti, non è mai nominato altrove: né nel prologo né nell’epilogo, quando Dio biasima gli amici di Giobbe.

 

2:11: “Tre amici di Giobbe, Elifaz di Teman, Bildad di Suac e Zofar di Naama”

42:9: “Elifaz di Teman e Bildad di Suac e Zofar di Naama se ne andarono”

 

   I discorsi di Eliu interrompono la progressione delle idee, in quanto rimandano a più tardi la teofania, che è invece richiesta con termini accesi nell’ultimo discorso di Giobbe.

I discorsi di Dio sono genuini

   Sarebbe ingenuo domandarsi qui se i discorsi di Dio siano stati pronunciati da Dio o no. Si tratta, infatti, di una composizione poetica ispirata e creata dall’autore guidato da Dio, autore che in seguito ad una intuizione spirituale mette in bocca a Dio, usando le sue parole, la rivelazione che ne ebbe. Di certo non mancano i soliti occidentali che leggono la Bibbia alla lettera in modo religioso. Costoro si faranno forti di Gb 38:1: “Il Signore rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse”. Questo tipo di lettori, semplici nella loro religiosità, insisteranno sul “disse” e si tapperanno forse gli orecchi udendo qualcosa di diverso, magari scuotendo il capo per ripetere un deciso “no” ad un intendimento diverso dal loro. Non staremo a discutere il problema, ma indichiamo solo il passo biblico in cui Yeshùa, parlando della voce di Dio, afferma: “La sua voce, voi non l’avete mai udita”. – Gv 5:37.

   La domanda che ci facciamo qui è solo questa: i discorsi di Dio in Gb sono parte integrante del libro? Alcuni esegeti direbbero di no, ritenendo superflui i discorsi di Dio in quanto non farebbero che esaltare meglio certe affermazioni degli amici di Giobbe circa il modo saggio con cui Dio governa il mondo. Questi esegeti sono del parere che Giobbe non attribuisca un valore persuasivo all’apparizione divina. Noi ci discostiamo nettamente da queste valutazioni. Si deve concludere che i discorsi divini sono una parte integrante del libro. Anzi, sono l’apice cui il libro giunge. E non solo. Essi sono richiesti dall’intuizione di Giobbe: “Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere” (19:25). Sono richiesti dallo stesso Giobbe sofferente: “L’Onnipotente mi risponda!” (31:35). Senza di essi il libro rimarrebbe monco e privo della conclusione finale. La bellezza dello stile con cui sono scritti i discorsi di Dio ci dona una poesia scintillane e sublime, corrispondente al resto del libro. In questa visuale, accettando come genuini i discorsi di Dio, qualche esegeta mette comunque in discussione il secondo discorso di Dio, quello sull’ippopotamo e sul coccodrillo (40:6-32), in quanto sembra possedere uno slancio lirico meno possente. Noi accettiamo come genuino anche questo: la duplicazione di quel discorso può benissimo essere dovuta alla mentalità semita che ama sdoppiare in due parti la dottrina presentata.

Sintesi sulla composizione del libro

   Si può sintetizzare il sorgere del libro di Giobbe in questo modo:

  1. Prima circolava oralmente il racconto delle peripezie di Giobbe, che lasciarono un ricordo tra gli antichi ebrei, pur trattandosi di una persona non ebrea. A questa allude – indipendentemente dal libro di Gb – il profeta Ezechiele. – Ez 14:14,20.
  2. Su questo racconto stilizzato e modificato dall’autore perché servisse da base al colloquio successivo, s’intesse la triplice serie di discorsi tra Giobbe e i suoi amici (con l’apparizione divina finale) che costituisce il nucleo fondamentale del libro creato da un autore unico.
  3. Una posteriore rielaborazione vi aggiunse i discorsi di Eliu, in cui si ristudiano alcune espressioni dei precedenti dialoghi e si dispongono meglio gli animi all’intervento divino. Tale rielaborazione postuma include probabilmente anche l’inno alla sapienza (cap. 28). Questi capitoli aggiunti in seguito hanno uno stile diverso, esprimendosi con vena poetica meno vibrante, e perciò devono essere opera di un autore diverso, forse opera di saggi ispirati.

Epoca di composizione del libro

   Non essendoci una tradizione sicura, il libro è stato attribuito a vari periodi storici che vanno dal tempo di Abraamo (o prima) a quello macedone (Alessandro Magno). Alcuni scrittori antichi (Isidoro di Siviglia, Gregorio Magno, Efrem, Ruperto Pineda) attribuivano il libro allo stesso Giobbe, che avrebbe in tal modo trasmesso le sue memorie. Il Talmud lo riferisce invece, senza ragione, a Mosè (Sota V,8; Baba Bathra 15,A). Oggi si è molto più cauti e non si presentano ipotesi così infondate. Generalmente si attribuisce il libro ad epoca post-salomonica, dato che vi si parla di molti prodotti esteri che suppongono un commercio molto esteso, proprio come accadde tra gli ebrei solo con Salomone e nel periodo posteriore. Vi si parla, ad esempio, dell’oro di Ofir (Gb 22:24;28:16; cfr. 1Re 9:28; Sl 45:9; Is 13:12). Tuttavia, la prosperità del periodo salomonico non sembra adatta per una discussione filosofica e teologica sul problema del male, che – al contrario – si acuisce in periodi di calamità nazionali.

   Il Ricciotti suggerisce l’epoca di Manasse, che fu un periodo di grave persecuzione (2Re 21:1-18) e precedette il libro di Cronache in cui “satana” ha già assunto il valore di nome proprio di un essere personale, dato che vi appare senza articolo, mentre in Gb la presenza dell’articolo indica una fase anteriore in cui tale termine non era ancora ritenuto nome personale. Quel periodo, che vide fiorire altre opere letterarie (Sofonia, Naum, Abacuc), sarebbe adatto alla lingua ben adornata e pura del libro di Giobbe.

   Non mancano studiosi (Dorme, Junker, Steinmann, Albright) che propendono per il periodo postesilico, in quanto esso sarebbe più adatto per certi problemi supposti in Gb. Inoltre, molti concetti presenti in Gb suggeriscono l’epoca esilica o postesilica. Eccone alcuni:

   – A Giobbe Dio raccomanda di intercedere per i suoi amici (42:7-10), il che ci richiama concetti simili presenti in Ger 7:16;11:14 ed Ez 14:14,20.

   – In Gb si allude ad angeli mediatori (5:1;33:23) quali appaiono nella teologia biblica in epoca postesilica.

   – In Gb si parla dell’uso della scrittura e della firma nei giudizi (31:35) come avvenne tardivamente nei processi ebraici.

   – Si nota in Gb l’esaltazione della retribuzione individuale, che è successiva al concetto di retribuzione corporativa come era solo in epoca esilica.

   – I lamenti stessi di Giobbe (3:2-10) si rifanno ad espressioni simili del periodo di Geremia. – Ger 20:14-18.

   Non si può stabilire con certezza quando il libro sia sorto. Di certo non al tempo di Mosè! Probabilmente sorse al tempo dei profeti del periodo esilico, nel primo secolo dell’era persiana.

Valore ispirato del libro

   Il libro di Giobbe fu sempre ritenuto ispirato senza discussione alcuna, tanto dagli ebrei che dai discepoli di Yeshùa. Esso è anzi citato una volta da Paolo, quando dice che Dio “prende i sapienti nella loro astuzia” (1Cor 3:19; cfr. Gb 5:13). Anche Giacomo ricorda Giobbe, elogiandone la pazienza, pur non citando il libro: “Avete udito parlare della costanza di Giobbe, e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è pieno di compassione e misericordioso”. – Gc 5:11.

   Tuttavia, il libro, pur essendo tutto ispirato – e, quindi, tutta parola di Dio –, non per questo contiene dovunque il pensiero divino. Gli interlocutori che vi parlano non sono approvati da Dio. Bisogna perciò stare attenti a non presentare tutto quel che vi si legge come insegnamento divino.

  1. Gli amici di Giobbe sono esplicitamente disapprovati da Dio. Non tutto quello che loro dicono va preso come oro colato o come insegnamento rivelato. Occorre stare attenti e distinguere. Qualcosa di buono c’è, e ce lo dimostra la citazione di Paolo. In 1Cor 3:19 Paolo dice: “È scritto”, espressione tipica con cui si cita la Scrittura, parola di Dio. E cosa “è scritto”? Paolo cita da Gb 5:13 la frase: “[Dio] prende gli abili nella loro astuzia”. E chi la pronunciò? Elifaz il temanita. – Gb 4:1.
  2. Eliu non è né biasimato né lodato. Egli segue in parte l’insegnamento dato da Dio e in parte quello dato dagli amici di Giobbe. Occorrerà quindi distinguere bene la prima corrente di pensiero, quella in armonia con il pensiero divino (e che quindi va accolta), e la seconda che potrebbe essere parzialmente errata.
  3. Giobbe, pur essendo approvato da Dio, afferma anche dei dati inesatti che non corrispondono ai pensieri di Dio, tant’è vero che lui stesso riconosce di aver parlato male su cose che trascendono la sua intelligenza. – 40:4,5.

   Occorre perciò stare ben attenti quando si cita Gb. Si potrebbe correre il rischio di presentare come divino proprio ciò che Dio altrove biasima. Purtroppo, i “predicatori” non vanno troppo per il sottile, e in questo sbagliano molto. Tocca a noi essere più vigilanti per non incorrere nei loro errori.