Oggi, in opposizione al nichilismo del celebre teologo Bultmann, alcuni studiosi (tra cui quelli della scuola scandinava) analizzano la predicazione apostolica presentandola come prova contro la presunta creatività attribuita agli scritti evangelici. Dato che gli apostoli avevano il controllo dei primi discepoli, essi stessi erano testimoni e non inventori.

   La parola greca μάρτυς (màrtϋs, da cui “martire”), “testimone”, che ricorre nelle Scritture Greche 168 volte nelle sue diverse forme, indica originariamente colui che in un processo può testimoniare ciò che ha visto.

   Nelle Scritture Greche questa parola assume talvolta il suo valore prettamente legale: “Voi dunque testimoniate [greco μάρτυρές ἐστε (màrtϋrès este, “siete testimoni”)] delle opere dei vostri padri e le approvate; perché essi li uccisero e voi costruite loro dei sepolcri” (Lc 11:48). Le parole di Yeshùa al suo processo davanti a Caifa suppliscono alla mancanza di “testimoni” giuridici: “Che bisogno abbiamo ancora di testimoni [greco μαρτύρων (martΰron, “di testimoni”)]?” – Mr 14:63.

   In generale, però, i testimoni di Yeshùa devono annunciare la sua vita e il suo messaggio non solo a parole ma con la stessa vita e morte. Da qui il senso di “martire” per colui che muore testimoniando Yeshùa. “Voi mi renderete testimonianza [greco μαρτυρεῖτε (martürèite, “testimonierete”], perché siete stati con me fin dal principio” (Gv 15:27); “Voi siete testimoni [greco μάρτυρες (màrtüres, “testimoni”)] di queste cose” (Lc 24:48). “Ci ha comandato di annunziare al popolo e di testimoniare che egli è colui che è stato da Dio costituito” (At 10:42): così dirà Pietro.

   Ma cosa dovevano testimoniare? Gli apostoli (che significa “inviati”), e specialmente i Dodici, dovevano parlare della vita terrena di Yeshùa. Per questo Mattia fu scelto per sostituire il traditore Giuda: “Bisogna dunque che tra gli uomini che sono stati in nostra compagnia tutto il tempo che il Signore Gesù visse con noi, a cominciare dal battesimo di Giovanni fino al giorno che egli, tolto da noi, è stato elevato in cielo, uno diventi testimone con noi della sua risurrezione” (At 1:21,22). È proprio in questo senso che Pietro testimonia: “Voi sapete quello che è avvenuto in tutta la Giudea […] vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret. […] E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nel paese dei Giudei e in Gerusalemme” (At 10:37-39). Giovanni vide personalmente la lancia che fu conficcata del petto di Yeshùa: “Uno dei soldati gli forò il costato con una lancia, e subito ne uscì sangue e acqua. Colui che lo ha visto, ne ha reso testimonianza, e la sua testimonianza è vera” (Gv 19:34,35). Questa era una caratteristica dei Dodici.

   Ma in modo particolare gli apostoli (che erano ben più di dodici) dovevano testimoniare la resurrezione di Yeshùa. Giovanni narra di avere avuto contatto con il risorto, per cui può testimoniare: “Quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato […] ne rendiamo testimonianza” (1Gv 1:1,2). Anche per Paolo testimoniare significa rendere testimonianza al risorto che ha visto: “Apparve anche a me […]. Sia dunque io o siano loro, così noi predichiamo, e così voi avete creduto. […] si predica che Cristo è stato risuscitato dai morti” (1Cor 15:8-12, passim). “Egli apparve a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme, i quali ora sono suoi testimoni davanti al popolo”. – At 13:31.

   Un’altra prova dell’autenticità degli scritti evangelici sta nel metodo di insegnamento. Il discepolo ideale è colui che non perde neppure una parola del maestro e ricorda alla lettera ogni parola. Proprio così fecero gli apostoli o inviati. Ciò appare dalla ripetizione di formule fisse, dal modo paradossale di esprimersi, dai termini mnemonici atti ad essere ricordati.

   Anche Paolo ripete qualcosa di già tradizionale nella comunità. Egli rimase quindici giorni con Pietro (Gal 1:18) ed ebbe una riunione con gli apostoli più in vista per accertarsi di non lavorare inutilmente (Gal 2:2). Paolo si considera tra gli amministratori saggi e fedeli al maestro. Benché Paolo dica di meritare credito perché dotato lui pure dello spirito di Dio, ci tiene a distinguere la parola del Signore dalla sua opinione personale. – Cfr. 1Cor 7:8-11,39,40.

   Siamo quindi ben lontani da una comunità creatrice che inventa a piacimento. Essa deve conservare, non inventare.

   Gli apostoli comandano ai credenti di rimanere fedeli alle tradizioni: “Così dunque, fratelli, state saldi e ritenete gli insegnamenti che vi abbiamo trasmessi” (2Ts 2:15). Solo ritenendo gli insegnamenti tramandati si è certi della salvezza: “Vi ricordo, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato, che voi avete anche ricevuto, nel quale state anche saldi, mediante il quale siete salvati, purché lo riteniate quale ve l’ho annunziato” (1Cor 15:1,2). Dalla tradizione apostolica non ci si deve scostare neppure se un angelo dal cielo e lo stesso Paolo dicessero qualcosa di diverso: “Ma anche se noi o un angelo dal cielo vi annunziasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato, sia anatema. Come abbiamo già detto, lo ripeto di nuovo anche adesso: se qualcuno vi annunzia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema” (Gal 1:8,9). Anàtema è una “cosa maledetta”. Timoteo deve affidare l’insegnamento a persone fidate che lo mantengano invariato: “Le cose che hai udite da me in presenza di molti testimoni, affidale a uomini fedeli, che siano capaci di insegnarle anche ad altri” (2Tm 2:2); tale insegnamento è come un deposito che deve rimanere tale: “Custodisci il deposito” (1Tm 6:20). È per questo che Giuda dice di “combattere strenuamente per la fede, che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre”. – Gda 3.

   Si vede dunque che la predicazione primitiva aveva un carattere tradizionale: si formava in una comunità che riceveva, conservava e trasmetteva fedelmente il messaggio apostolico.

   Gli apostoli seguirono attentamente il lavoro missionario per accertarsi che esso non deviasse dalla giusta direttiva. Da Gerusalemme Pietro e Giovanni sono inviati a Samaria, tra gente mezza eretica, per vedere come procedessero le cose ed eventualmente approvarle con l’imposizione delle mani: “Allora gli apostoli, che erano a Gerusalemme, saputo che la Samaria aveva accolto la Parola di Dio, mandarono da loro Pietro e Giovanni. Essi andarono e pregarono per loro affinché ricevessero lo Spirito Santo” (At 8:14,15). Paolo invia le sue lettere alle comunità e ammonisce. In tale situazione, data la continua sorveglianza di testimoni oculari, come potevano sorgere dei miti fantastici circa la vita e l’insegnamento di Yeshùa? È escluso.

   Gli esempi dei primi discepoli dimostrano che essi “erano perseveranti nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli” (At 2:42) ed erano “tutti di comune accordo” (At 5:12). Le lettere apostoliche si facevano circolare di comunità in comunità: così, ad esempio, per la lettera ai laodicesi e quella ai colossesi. – Col 4:16.

   Tutto ciò dimostra la storicità dei Vangeli scritti. Tuttavia, lo studio di questi testi non va posto tanto sullo Yeshùa storico quanto sullo Yeshùa predicato ovvero sul valore di Yeshùa per noi. Non si può convertire un incredulo con una dimostrazione storica di Yeshùa. In tal caso, Yeshùa si nasconderebbe ancora e si allontanerebbe come fece con i nazareni: “Egli, passando in mezzo a loro, se ne andò” (Lc 4:30). Un’apologetica del tipo la Bibbia ha detto il vero non porta lontano. Occorre predicare Yeshùa correndo il rischio che corsero gli apostoli. Se la persona storica di Yeshùa con tutte le sue opere non convince gli increduli, come potremmo convincerli noi con una dimostrazione teorica? Quello che conta è predicare Yeshùa come fecero i primi credenti. Non abbiamo compreso molto sull’opera salvifica di Dio se, andando all’estremo, pensiamo di dover raggiungere ogni singola persona per convertirla. Compito del credente è testimoniare Yeshùa. Testimoniare. Solo testimoniare. E testimoniare non è convertire. Siamo degli illusi e dei presuntuosi se pensiamo che la salvezza delle persone dipenda dalla nostra testimonianza. La predicazione è solo il mezzo che Dio usa per recare il messaggio di salvezza. Ma è Dio che chiama le persone.

“Dov’è il sapiente? Dov’è lo scriba? Dov’è il contestatore di questo secolo? Non ha forse Dio reso pazza la sapienza di questo mondo? Poiché il mondo non ha conosciuto Dio mediante la propria sapienza, è piaciuto a Dio, nella sua sapienza, di salvare i credenti con la pazzia della predicazione. I Giudei infatti chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini”. – 1Cor 1:20-25.