“Tutti, lasciatolo [ovvero abbandonato Yeshùa], se ne fuggirono. Un giovane lo seguiva, coperto soltanto con un lenzuolo; e lo afferrarono; ma egli, lasciando andare il lenzuolo, se ne fuggì nudo” (Mr 14:50-52). Quel “giovane” fuggito nudo dal Getsemani quando Yeshùa fu catturato era Marco. Questa è la firma che l’evangelista mette al suo scritto.

   Uno studioso così commenta: “Può darsi che Marco abbia voluto introdurre il suo proprio ritratto in questo angolo oscuro della scena notturna, come spesso gli artisti amavano fare nell’antichità”. – Stauffer, Jesus and His Story, pag. 121.

Chi era Marco

   Marco viaggiò molto, accompagnato nelle missioni apostoliche ora da Paolo, ora da Barnaba, ora da Pietro, passando a Cipro, nell’Asia Minore e forse anche a Roma. Infatti, Paolo e Barnaba, dopo averlo portato ad Antiochia, partirono con lui per il primo viaggio missionario: “Barnaba e Saulo [Paolo], compiuta la loro missione, tornarono da Gerusalemme, prendendo con loro Giovanni detto anche Marco” (At 12:25); “Giunti a Salamina, annunziarono la Parola di Dio nelle sinagoghe dei Giudei; e avevano con loro Giovanni [Marco] come aiutante” (At 13:5). Ma a Perga, abbandonatili, Marco se ne tornò a Gerusalemme: “Paolo e i suoi compagni, imbarcatisi a Pafo, arrivarono a Perga di Panfilia; ma Giovanni [Marco], separatosi da loro, ritornò a Gerusalemme” (At 13:13). Fu questo abbandono da parte di Marco che indusse Paolo a non volerlo più con sé nel suo secondo viaggio missionario: “Barnaba voleva prendere con loro anche Giovanni detto Marco. Ma Paolo riteneva che non dovessero prendere uno che si era separato da loro già in Panfilia, e non li aveva accompagnati nella loro opera” (At 15:37,38). Barnaba era cugino di Marco (Col 4:10), per cui fu solidale con lui e decise di separarsi da Paolo per andare con Marco a Cipro: “Nacque un aspro dissenso, al punto che si separarono; Barnaba prese con sé Marco e s’imbarcò per Cipro” (At 15:39). Nonostante quest’acceso dissenso, ci fu poi evidentemente una rappacificazione, tanto che Paolo fa i più caldi elogi di Marco: “Marco, il cugino di Barnaba (a proposito del quale avete ricevuto istruzioni; se viene da voi, accoglietelo)” (Col 4:10). Anche Pietro manifesta stima per Marco chiamandolo figlio in senso spirituale: “Marco, mio figlio, vi saluta”. – 1Pt 5:13.

   Ci sono notizie non bibliche su Marco che sono scarsamente attendibili o del tutto inattendibili. Secondo Eusebio, Marco avrebbe fondato la comunità di Alessandria (Storia Ecclesiastica 2,16) e, a dire di Girolamo, ne sarebbe stato il primo “vescovo” (Prefazione a Matteo) fino al suo martirio menzionato da Gelasio (PL 59,139). I “padri” alessandrini non menzionano nulla di tutto ciò. È poi da respingere del tutto la leggenda secondo cui il corpo di Marco sarebbe stato trasferito nell’828 a Venezia, dove i dogi fecero del “santo” il patrono della loro repubblica (da cui il leone, stemma veneziano, simbolo attribuito a Marco).

   Quello che compare oggi nelle nostre Bibbie come secondo Vangelo godette inizialmente di grande prestigio. Come abbiamo già esaminato in uno studio precedente (I vangeli sinottici, in questa stessa categoria), fu preso quale filo conduttore da Matteo e da Luca per i loro scritti. In seguito fu alquanto dimenticato, almeno fino al sorgere della critica moderna. All’inizio del secolo scorso l’interesse per Marco fu rinnovato. La scuola liberale lo studiò sotto l’aspetto storico e non teologico, ma ora gli studiosi ne indagano la soggiacente concezione teologica.

   I cosiddetti “padri della chiesa” hanno presentato Marco come interprete di Pietro. Essi sono concordi nel dire che Marco scrisse il suo Vangelo in Italia. Sulla data non sono concordi: secondo Papia ed Ireneo, lo avrebbe scritto dopo la morte di Pietro; secondo Clemente Alessandrino, Pietro era ancora in vita e avrebbe addirittura approvato lo scritto marciano.

Autenticità, indirizzo e origine di Marco

   Marco va ritenuto autentico. Si pensi solo al fatto che Marco non fu un apostolo rinomato (si rammenti che “apostolo” significa “inviato”, non necessariamente dei Dodici), ma un semplice collaboratore di Pietro e Paolo, per cui se si fosse voluto inventare un nome per dar più credito allo scritto, la scelta sarebbe caduta su una persona più nota. Questo procedimento avvenne sempre per gli scritti apocrifi! L’avere preferito lasciare il nome vero è già prova di autenticità.

   Marco rivolge il suo scritto a persone di provenienza gentile, cioè straniera e pagana. Dato che tali persone erano ignare dei costumi ebraici, Marco li spiega loro: “I farisei e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani con grande cura, seguendo la tradizione degli antichi; e quando tornano dalla piazza non mangiano senza essersi lavati. Vi sono molte altre cose che osservano per tradizione: abluzioni di calici, di boccali e di vasi di rame” (Mr 7:3,4). Se egli riferisce parole in aramaico, subito le traduce in greco: “Gli disse: ‘Effatà’!’ che vuol dire: ‘Apriti!’” (Mr 7:34); “Gesù gridò a gran voce: ‘Eloì, Eloì lamà sabactàni?’ che, tradotto, vuol dire: ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’” (Mr 14:34); “Ai quali pose nome Boanerges, che vuol dire figli del tuono” (Mr 3:17); “Nella geenna [leggere gheènna], nel fuoco inestinguibile” (Mr 9:43); “Bartimeo (il figlio di Timeo)” (Mr 10:46, TNM), in cui “Bartimeo” non è un nome!, ma è “bar [בר, bar, “figlio”, in aramaico] di Timeo”; “Abbà, Padre!” (Mr 14:36); “Condussero Gesù al luogo detto Golgota che, tradotto, vuol dire ‘luogo del teschio’” (Mr 15:22); “Le disse: ‘Talità cum!’ che tradotto vuol dire: ‘Ragazza, ti dico: àlzati!’” (Mr 5:41). Dato che la parola era conosciuta anche al di fuori di Israele, conserva “rabbino” senza tradurla: “Gli si accostò, dicendo: ‘Rabbi!’”. – Mr 14:45, TNM.

   Il Vangelo scritto di Marco è quello che più di tutti presenta vocaboli latini (confermando in tal modo di essere stato scritto in una regione latina): “Calarono la branda [greco κράβαττον, kràbatton; latino grabatus]” (Mr 2:4, TNM); “Il mio nome è Legione [greco Λεγιὼν, leghiòn; latino legio]” (Mr 5:9); “Mandò subito una guardia [greco σπεκουλάτορα, spekulàtora; latino speculator; soldato romano incaricato di far la guardia]” (Mr 6:27); “Duecento denari [greco δηναρίων, denarìon; latino denarius]” (Mr 6:37); “Un quarto di soldo [letteralmente “un quadrante” (moneta romana di rame o di bronzo del valore di un sessantaquattresimo di denaro); greco κοδράντης, kodràntes; latino quadrans]” (Mr12:42); “Dentro il pretorio [greco πραιτώριον, praitòrion; latino praetorius]” (Mr 15:16); “Il centurione [greco κεντυρίων, kentürìon; latino centurio]” (Mr 15:39); “Sotto il moggio [greco μόδιον, mòdion; latino modius]”. – Mr 4:21, TNM.

   Marco scrisse dunque da una regione latina. Probabilmente da Roma. Un indizio è dato da Mr 15:21: “Costrinsero a portar la croce di lui un certo Simone di Cirene, padre di Alessandro e di Rufo”. Perché Marco specifica che quel cireneo era padre di Alessandro e di Rufo? Se si ammette che Marco scrisse a Roma, il suo ricordo di questi due si spiega con il fatto che probabilmente li aveva conosciuti proprio a Roma. Paolo, infatti, rivolgendosi ai confratelli romani, saluta un certo Rufo: “Salutate Rufo”. – Rm 16:13.

   L’origine romana del Vangelo scritto di Marco risulta anche confermata dai seguenti fatti: Marco evita il termine “giudei” malvisto dai romani (Tacito, Annali XV), insistendo nel dire che Yeshùa era un galileo; dice che la morte di Yeshùa era frutto di una cospirazione giudaica che facendo leva sulla folla forzò la mano a Pilato che lo riteneva innocente; preferisce il verbo didàskein (insegnare) al verbo kerΰssein (annunciare mediante un araldo), dato che si pesta meno alla interpretazione di Yeshùa come facinoroso; nell’invio dei Dodici, ricorda solo l’invito al ravvedimento (“Predicavano alla gente di ravvedersi” – Mr 6:12) senza l’annuncio del regno, quasi temesse che Yeshùa fosse identificato con un propagandista del regno giudaico in opposizione a quello di Cesare; l’omissione del cosiddetto Pater Noster e l’enfasi data alla pericope sul tributo da dare a Cesare rispondono alla medesima preoccupazione di non contrastare i romani.

Lo stile

   Lo stile di Marco è semplice. Moltiplica la parola “ecco” all’inizio delle frasi. Al posto del tempo imperfetto preferisce il verbo essere seguito dal participio: “Gesù andava davanti a loro” (Mr 10:32), dove quell’“andava davanti” o “precedeva” è nel testo greco ἦν προάγων  (en proàgon) ovvero “era precedente”. Ama il presente storico, usato ben 151 volte, specialmente con i verbi “egli dice” o “essi dicono” (72 volte). Ama congiungere le frasi con un semplice “e” (paratassi) – greco καὶ (kài) – di cui fa un uso smodato:

Mr 1:5 καὶ […] 1:6 καὶ […] 1:7 καὶ […] 1:9 καὶ […]  1:10 καὶ […] 1:11 καὶ […] 1:12 καὶ […] 1:13 καὶ […] καὶ […] 1:15 καὶ […]καὶ […] 1:16 καὶ […] 1:17 καὶ […] καὶ […] 1:18 καὶ […] 1:19 καὶ […] 1:20 καὶ […] 1:21 καὶ […] καὶ […] 1:22 καὶ […] 1:23 καὶ […] 1:24 […] καὶ […] 1:25 καὶ […] καὶ […] 1:26 καὶ […] 1:27 καὶ […] καὶ […] 1:28 καὶ […] 1:29 καὶ […] καὶ […] καὶ […] 1:30 […]  καὶ […] 1:31 καὶ […] καὶ […] 1:32 […] καὶ […] 1:33 καὶ […] 1:34 καὶ […] kaˆ […] καὶ […] 1:35 καὶ […]καὶ […] 1:36 καὶ […] καὶ […] 1:37 καὶ […] καὶ […] 1:38 καὶ […] καὶ […] 1:39 καὶ […] καὶ […] 1:40 καὶ […] καὶ […] 1:41 καὶ […] καὶ […] 1:42 καὶ […] καὶ […] 1:43 καὶ […] 1:44 καὶ […] καὶ […] 1:45 […] καὶ […] καὶ […] 2:1 καὶ […] 2:2 καὶ […] καὶ […] 2:3 καὶ […] 2:4 καὶ […] καὶ […] 2:5 καὶ […] 2:6 […] καὶ […] 2:8 καὶ […] 2:9 […] καὶ […] καὶ […] 2:11 […] καὶ […] 2:12 καὶ […] καὶ […] καὶ […] 2:13 καὶ […] καὶ […]καὶ […] 2:14 καὶ […] καὶ […].

   Si tenga presente che la citazione suddetta è stata presa a caso. Marco usa anche per 42 volte la parola εὐθὺς (euthΰs) che si dovrebbe tradurre “sùbito/immediatamente”, ma che presso Marco ha il significato ridotto di “poi”: “E immediatamente [greco καὶ εὐθὺς (kài euthΰs)] uscirono dalla sinagoga” (Mr 1:29), così TNM, che denota scarsa conoscenza del modo di esprimersi proprio di Marco; se si esamina infatti il contesto, nulla giustifica quell’“immediatamente” (come se fosse successo chissà cosa per cui dovettero precipitarsi fuori); è solo il modo semplice, se pur poco elegante, che usa Marco: “E poi uscirono dalla sinagoga”; la NR mantiene il senso semplice pur mettendolo in un buon italiano: “Appena usciti dalla sinagoga”; così anche la PdS: “Subito dopo, uscirono dalla sinagoga”.

   Tutto questo si spiega con il fatto che il testo greco traduce il testo aramaico del semita Marco. Questi, davvero senza pretese letterarie, riporta evidentemente in modo semplice e diretto quello che ha sentito oralmente in forma colloquiale. Ciò avvalora la tradizione che designa Pietro quale fonte orale di Marco.

La fonte pietrina di Marco

   L’evangelista riporta, senza variare nulla, ciò che aveva sentito da Pietro, un ‘popolano senza istruzione’ (At 4:13), nel suo linguaggio di uomo ‘illetterato e comune’. – Ibidem, TNM.

   Il contenuto stesso del Vangelo scritto di Marco coincide con la predicazione pietrina conservata in riassunto in At 10:

“Questa è la parola ch’egli ha diretta ai figli d’Israele, portando il lieto messaggio di pace per mezzo di Gesù Cristo. Egli è il Signore di tutti. Voi sapete quello che è avvenuto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio lo ha unto di Spirito Santo e di potenza; e com’egli è andato dappertutto facendo del bene e guarendo tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; essi lo uccisero, appendendolo a un legno. Ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che egli si manifestasse non a tutto il popolo, ma ai testimoni prescelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. E ci ha comandato di annunziare al popolo e di testimoniare che egli è colui che è stato da Dio costituito giudice dei vivi e dei morti. Di lui attestano tutti i profeti che chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati mediante il suo nome”. – Vv. 36-43.

    Come si nota, Pietro inizia la sua predicazione con la vita pubblica di Yeshùa dopo il suo battesimo ad opera di Giovanni. Marco fa lo stesso.

   C’è anche da osservare un aspetto interessante in Mr 1:30: “La suocera di Simone era a letto con la febbre; ed essi subito gliene parlarono”. A ben rifletterci, pare proprio che Marco stia riferendo un racconto diretto che ha sentito a viva voce, come se Pietro gli avesse raccontato: ‘Mia suocera era a letto con la febbre; e subito gliene parlammo’. Così, quando Marco scrive: “Giunsero all’altra riva del mare” (5:1) pare di sentire Pietro: ‘Giungemmo all’altra riva del mare’; “Giunsero a casa del capo della sinagoga” (5:38): ‘Giungemmo a…’; “Passati all’altra riva, vennero a Gennesaret e scesero a terra. Come furono sbarcati […]” (6:53,54): ‘Passati all’altra riva, venimmo a Gennezaret e scendemmo a terra. Come fummo sbarcati […]’; “Giunsero a Betsaida” (8:22): ‘Giungemmo a Betsaida’; “Partiti di là, attraversarono la Galilea” (9:30): ‘Partiti di là, attraversammo la Galilea’; “Giunsero a Capernaum; quando fu in casa, domandò loro: ‘Di che discorrevate per strada?’” (9:33): ‘Giungemmo a Capernaum; quando fu in casa, ci domandò: […]’; “Mentre erano in cammino salendo a Gerusalemme” (10:32): ‘Mentre eravamo in cammino salendo da Gerusalemme’; “Poi giunsero a Gerico” (10:46): ‘Poi giungemmo a Gerico’; “Quando furono giunti vicino a Gerusalemme” (11:1): ‘Quando fummo giunti vicino a Gerusalemme’; e così via.

   Un altro indizio su Pietro quale fonte di Marco si trova anche nell’inciso del colloquio tra Yeshùa risorto e le donne: “Andate a dire ai suoi discepoli e a Pietro che […]” (Mr 16:7). Questo passaggio è presente solo in Mr e manca presso gli altri vangeli scritti: si può spiegare meglio come una reminescenza personale di Pietro raccontata a Marco.

   Si può concludere che Marco era un giudeo convertito che, trasferitosi in una comunità romanizzata, scrisse il suo Vangelo seguendo la predicazione di Pietro testimone oculare. Così risulta meglio comprensibile l’ispirazione del libro: esattamente come fecero i discepoli dei profeti nelle Scritture Ebraiche, così il discepolo Marco non presentò uno scritto personale ma solo raccolse ciò che un ispirato testimone oculare andava predicando.

   Pur non essendo stato testimone oculare dell’attività di Yeshùa, Marco è assai vivo, smagliante, pittorico e incisivo. Proprio come poteva esserlo il testimone oculare da lui riprodotto: Pietro.

Vivide immagini riprodotte

   Scorrendo il Vangelo scritto di Marco, il lettore diviene partecipe di quelle scene così vivamente descritte. Vede la folla dai colori smaglianti che, seduta sull’erba verde, forma quasi delle aiuole variopinte: “Allora Gesù ordinò di far sedere tutta la gente, a gruppi, sull’erba verde. E quelli si misero seduti in ordine, a gruppi” (Mr 6:39,40, PdS). Vede Yeshùa che riposa in barca con il capo appoggiato su un cuscino: “Gesù intanto dormiva in fondo alla barca, la testa appoggiata su un cuscino” (Mr 4:38, PdS). È colpito dal colore degli abiti di Yeshùa, che durante la trasfigurazione diventano “splendenti e bianchissimi” tanto che “nessuno a questo mondo avrebbe mai potuto farli diventar così bianchi a forza di lavarli”. – Mr 9:3, PdS.

   In ogni racconto di Marco si legge qualche particolare sfuggito agli altri evangelisti: pochi giorni prima di essere ucciso, “sedutosi di fronte alla cassa delle offerte, Gesù guardava come la gente metteva denaro nella cassa” (Mr 12:41); l’asinello condotto a Yeshùa era “legato a una porta, fuori, sulla strada” (Mr 11:4); l’aula di Caifa doveva essere ad un piano superiore, dato che “Pietro era giù nel cortile” (Mr 14:66): per Matteo, Pietro stava solo “seduto fuori nel cortile” (26:69), mentre Luca si limita a dire che stava “in mezzo al cortile” (22:55). Si noti come ancora una volta questi particolari possano essere fatti risalire al racconto di Pietro.

   In Mr anche la persona di Yeshùa è colta sul vivo. Marco ci parla del suo sguardo a un tempo severo e dolce: “Gesù, guardatili tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza del loro cuore” (Mr 3:5); “alzando gli occhi al cielo, sospirò” (Mr 7:34); “Gesù, guardatolo, l’amò”. – Mr 10:21; PdS: “Gesù lo guardò con amore”.

   Marco ricorda pure i molti rimproveri che Yeshùa rivolse ai discepoli: Yeshùa “entrò in casa, i suoi discepoli gli chiesero di spiegare quella parabola. Egli disse loro: ‘Neanche voi siete capaci di comprendere?’” (Mr 7:17,18); un’altra volta, conosciute le loro preoccupazioni, Yeshùa disse loro: “Perché state a discutere del non aver pane? Non riflettete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate?”. – Mr 8:17,18.

   Non di rado Marco presenta il luminoso amore di Yeshùa che Pietro aveva intuito nel suo perdono: “Prese i bambini tra le braccia, e li benediceva posando le mani su di loro” (Mr 10:16, PdS). L’immagine che si ricrea da questi tratti è impressionante e piena di vita. Lo scritto di Marco è la testimonianza di uno che ha visto gli eventi: Pietro.

   Quando Marco riferisce storie diverse, ma dello stesso tipo, le racconta in modo assai simile, evitando variazioni: questo si spiega ancora una volta con il fatto che egli cerca di riportare fedelmente un racconto orale che ha ricevuto. Ecco degli esempi:

  • Mr 1:21,22,27: “Gesù, entrato nella sinagoga, insegnava. Essi si stupivano del suo insegnamento, perché egli insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi. […]  E tutti si stupirono e si domandavano tra di loro: ‘Che cos’è mai questo?’”.
  • Mr 6:2: “Si mise a insegnare nella sinagoga; molti, udendolo, si stupivano e dicevano: ‘Da dove gli vengono queste cose? Che sapienza è questa che gli è data? E che cosa sono queste opere potenti fatte per mano sua?’”.
  • Mr 1:23-26: “Si trovava nella loro sinagoga un uomo posseduto da uno spirito immondo, il quale prese a gridare: ‘Che c’è fra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto per mandarci in perdizione? Io so chi sei: Il Santo di Dio!’ Gesù lo sgridò, dicendo: ‘Sta’ zitto ed esci da costui!’”.
  • Mr 5:6-8: “Quando vide Gesù da lontano, [il posseduto] corse, gli si prostrò davanti e a gran voce disse: ‘Che c’è fra me e te, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Io ti scongiuro, in nome di Dio, di non tormentarmi’. Gesù, infatti, gli diceva: ‘Spirito immondo, esci da quest’uomo!’”.
  • Mr 11:2-7: “’Andate nel villaggio che è di fronte a voi; appena entrati, troverete legato un puledro d’asino, sopra il quale non è montato ancora nessuno; scioglietelo e conducetelo qui da me. Se qualcuno vi dice: Perché fate questo? rispondete: Il Signore ne ha bisogno, e lo rimanderà subito qua’. Essi andarono e trovarono un puledro legato a una porta, fuori, sulla strada, e lo sciolsero. Alcuni tra quelli che erano lì presenti dissero loro: ‘Che fate? Perché sciogliete il puledro?’ Essi risposero come Gesù aveva detto. E quelli li lasciarono fare. Essi condussero il puledro a Gesù”.
  •  Mr 14:13-16: “Egli mandò due dei suoi discepoli e disse loro: ‘Andate in città, e vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua; seguitelo; dove entrerà, dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov’è la stanza in cui mangerò la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà di sopra una grande sala ammobiliata e pronta; lì apparecchiate per noi’. I discepoli andarono, giunsero nella città e trovarono come egli aveva detto loro; e prepararono per la Pasqua”.

 

 

 

Tempo di composizione

   Per quanto riguarda il tempo di composizione di Mr, è già stato detto. La più antica testimonianza è quella di Ireneo: “Dopo la loro morte [di Pietro e Paolo] Marco, discepolo e interprete di Pietro, ci trasmise per iscritto quanto era stato predicato da Pietro” (Adv. Haer. 3,1,1). D’altra parte, il modo impreciso (proprio dello stile profetico) con cui si parla della distruzione di Gerusalemme ci fa comprendere che essa non si era ancora attuata al tempo della stesura del libro, altrimenti Marco avrebbe chiarito tramite il racconto dell’evento storico la profezia in sé oscura (Mr 13:3-37). Luca, infatti, la chiarisce (Lc 21:20-36). Generalmente gli studiosi pongono la composizione di Mr negli anni 60 del 1° secolo. Lo studioso C. C. Torrey la pone nell’anno 50, sostenendo una prima stesura aramaica.

   Se poi la testimonianza di Ireneo non è attendibile, troverebbe più valore la testimonianza che proviene dalla grotta numero 7 a Qumràn (in Israele, presso il Mar Morto) scoperta nel 1955. In questa grotta sono stati rinvenuti 18 frammenti scritti in greco. Nel quinto frammento, il 7Q5, venti lettere sopra un pezzo di papiro grande quanto un francobollo sembrerebbero doversi attribuire al Vangelo di Marco. – Si veda al riguardo lo studio Il frammento 7Q5 ritrovato nella grotta 7 di Qumràn, più avanti, in questa stessa categoria.

   Nel 1972, il papirologo spagnolo José O’Callaghan, ricercatore dell’istituto biblico di Roma, mentre stava lavorando alla catalogazione di questi frammenti, si accorse che il 7Q5 non conteneva un testo delle Scritture Ebraiche, ma i versetti 52 e 53 del capitolo sesto del Vangelo di Marco. L’intuizione del papirologo fu in seguito sottoposta a rigorose verifiche scientifiche. Il gruppo testuale del 7Q5 è stato confrontato al computer con tutta la letteratura greca nota dell’epoca, ma l’unica risposta è stata Mr 6:52,53. E la probabilità che si possa trovare casualmente un altro testo letterario con la stessa disposizione di spazi e lettere è stata calcolata essere di 1 su 900 miliardi. Ma c’é di più: considerazioni sullo stile di scrittura (lo Zierstill) usato nel frammento e il confronto con altri frammenti di datazione certa, hanno permesso di sostenere che il 7Q5 non sia più tardo del 50 E. V..  Sarebbe questo, dunque, il più antico frammento di Vangelo scritto.

   “Si dava per scontato” dice O’Callaghan “che dalla morte di Cristo alla stesura del Vangelo di Marco, fossero passati 40 anni, scoprire invece che ne passarono meno di 20 lascia ritenere che si cominciò a mettere per iscritto la predicazione di Gesù, quando ancora erano in vita i testimoni oculari dei fatti”.

    Sono due i frammenti di papiro greco dalla Grotta 7 di Qumràn che sono stati identificati come passi delle Scritture Greche (7Q4 = 1Timoteo 3:16-4:3; 7Q5 = Marco 6:52,53). Pur restando controversi per alcuni, altri studiosi che hanno analizzato il problema del 7Q4 e del 7Q5 da una posizione neutrale sono d’accordo su un punto: tutti i tentativi di trovare una nuova identificazione del frammento 7Q5 sono miseramente falliti. Il caso è più sorprendente se prendiamo in considerazione la discussione su un altro frammento del papiro greco dalla Grotta 7 di Qumràn, il 7Q4. Questo è composto di due parti, una più lunga e una molto breve. Per un papirologo professionista ha sempre aiutato il fatto che il frammento più lungo conserva la parte in alto a destra della fine di una pagina. Ciò significa che si sa come finiscono le righe e ciò rende assai più facile la ricostruzione degli inizi, poiché l’inizio e la fine di ogni riga deve riportare il testo in sequenza. Quindi anche i papirologi che inizialmente avevano dubitato che il frammento 7Q5 fosse di Marco, hanno accettato che il 7Q4 è di 1Tm 3:16. Si tratta di un’identificazione evidente. Che cosa dunque ha fatto sorgere i dubbi recenti?

   Alcuni studiosi, soprattutto Ernest A. Munro e Emile Puech, sono convinti che i testi delle Scritture Greche non avrebbero potuto essere preservati a Qumràn. Si tratta però di una decisione ideologica basata su assunzioni che potrebbero essere errate. Gli storici non dimenticano, infatti, che non esisteva un “Nuovo Testamento” quando furono scritti la prima lettera a Timoteo e il Vangelo di Marco. Quando Marco scriveva, non esisteva un genere letterario chiamato “vangelo” e non esisteva una comunità di discepoli di Yeshùa con una raccolta stabilita di lettere quando Paolo inviò le sue missive alle congregazioni e alle persone. Tutto ciò è avvenuto più tardi. Paolo, Marco e gli altri autori degli scritti che ora vengono chiamati “Nuovo Testamento” erano degli ebrei che scrivevano su un ebreo – Yeshùa il consacrato – e i loro primi lettori erano ebrei, con alcuni non ebrei come ulteriore e più ampio pubblico di lettori.

   Ebrei scrivevano per gli ebrei su un ebreo: è certo che gli ebrei leggevano tali testi ed è un’ovvia conclusione che gli ebrei di Qumràn, gli esseni, fossero particolarmente interessati a questi documenti. Dopo tutto essi stessi stavano aspettando l’arrivo del messia e l’avvento degli ultimi giorni. Essi dovevano aver studiato questi documenti di un movimento messianico rivale – un movimento che affermava che il messia era giunto e che era Yeshùa di Nazaret.

   È un fatto evidente che la grotta 7 era situata oltre i quartieri residenziali di Qumràn. Chiunque voleva raggiungere questa grotta doveva passare davanti agli uffici della comunità. La grotta 7 era sorvegliata, e soltanto le persone con buone credenziali, i pii esseni, vi avevano accesso. Dopo tutto, questa grotta conservava testi “pericolosi” di un movimento messianico rivale che proclamava Yeshùa come il messia da lungo tempo atteso.

   Per questo motivo vi sono esperti ebrei dei rotoli del Mar Morto (come Shemaryahu Talmon) che affermano che Qumràn era il luogo più naturale in cui i primi scritti relativi a Yeshùa venivano raccolti e studiati. Talmon ha anche affermato che l’esistenza di una copia del Vangelo di Marco – un Vangelo senz’altro scritto prima del 68 E. V., quando Qumràn fu occupata dai romani – deve essere data per scontata, anche se il frammento 7Q5 non fosse mai stato trovato e identificato.

   In altre parole, le tesi contro una collezione relativa a Yeshùa a Qumràn e, in particolare, le recenti tesi contro il 7Q4, non possono avere valore storico e teologico. A parte l’ideologia, l’unico motivo perché tali tesi dovrebbero essere discusse è semplicemente papirologico: esistono davvero delle ragioni dal punto di vista della papirologia per dubitare che le lettere e le righe sul frammento 7Q4 non sono conformi al testo della prima lettera a Timoteo 3:16–4:3?

   Prima di tutto deve essere categoricamente affermato che un’identificazione del 7Q4 con la prima lettera a Timoteo non pone alcun problema testuale. Vi sono soltanto due variazioni rispetto al testo greco moderno stampato e queste sono normali varianti degli scribi, ben note e ben attestate da numerosi papiri antichi. Nessun filologo classico vede alcun problema in ciò. Se Munro e Puech suggeriscono piuttosto dei passaggi dal libro non biblico di Enoc, utilizzando a sostegno di ciò ulteriori frammenti dalla grotta 7, dobbiamo porci una domanda diretta: il loro suggerimento rappresenta davvero un passo in avanti, oppure si tratta puramente di un tentativo disperato da parte di chi semplicemente non può e non vuole accettare che un frammento della prima lettera a Timoteo sia stato trovato in una grotta di Qumràn?

   Per chiunque abbia studiato i frammenti originali della grotta 7, la risposta è chiara: l’identificazione del 7Q4 e di altri piccoli pezzi dalla grotta 7 con Enoc 103 è pura fantasia, non un fatto. Dal punto di vista storico non è affatto sicuro che sia esistita una traduzione greca di Enoc prima del 68 E. V.. Dal punto di vista papirologico, le lettere sui frammenti non corrispondono in ogni caso a Enoc. Munro e Puech devono inventare dei collegamenti che non esistono, e lettere che non ci sono. Le analisi al microscopio hanno indicato che in particolare il suggerimento di Puech è basato su disegni falsificati. Per dirla in termini inequivocabili: egli ha falsificato l’evidenza.

   Ulteriori frammenti dalla grotta 7 corrispondono alla prima lettera a Timoteo. Il frammento 7Q11 concorda con 1Tm 2:15–3:1; il 7Q12 può essere identificato con 1Tm 3:1,2; il frammento 7Q13 è 1Tm 3:15 e il 7Q14 corrisponde a 1Tm 3:7. In altre parole, appare ora che il frammento 7Q4 non è la sola evidenza per questa epistola. Il 7Q4 è stato ampliato dai frammenti 7Q11, 7Q12, 7Q13 e 7Q14, e ora possediamo una sequenza impressionante: questa lettera pastorale, scritta prima del 68 E. V., era stata studiata a Qumràn, e i passaggi dai capitoli 2, 3, e 4 sono sopravvissuti in meno di sei frammenti. Questo avvalora l’esistenza di Marco già nel 50 E. V..