Il Vangelo giovanneo può essere diviso in tre parti, cui sta premesso un prologo.

   Prologo (cap. 1). La “parola” esistente presso Dio si è impersonata in Yeshùa per illuminare le tenebre che tuttavia non ne vogliono sapere. L’idea è uno sviluppo logico del concetto riguardante la sapienza divina (“la parola”) che si trova nelle Scritture Ebraiche.

   Prima parte (capp. 2-12). Yeshùa passa ripetutamente dalla Galilea alla Giudea. I miracoli che egli compie sono presentati come segni destinati a sostenere le verità da lui proferite. Dopo il miracolo di Cana in cui l’acqua viene trasformata in vino, Yeshùa scaccia dal Tempio gli animali venduti per i sacrifici, proclamandosi in tal modo superiore al Tempio (cap. 2). A Nicodemo Yeshùa spiega in un lungo colloquio notturno la necessità di una nuova nascita (cap. 3). Parlando con la samaritana al pozzo di Sichem, egli si presenta come l’atteso messia che avrebbe dato inizio a un nuovo culto “in spirito e in verità”, vale a dire corrispondente al volere di Dio e attuato mediane la potenza stessa dello spirito divino (cap. 4). Con la guarigione del paralitico di Betesda Yeshùa si mostra come un grande taumaturgo cui Dio ha concesso potenza (cap. 5). Moltiplicando i pani si proclama vero “pane di vita” (cap. 6). Dopo la professione di fede dichiarata da Pietro, Yeshùa giunge a Gerusalemme per la Festa delle Capanne e vi si afferma “luce del mondo” (capp. 7 e 8). Vi guarisce il cieco nato e mostra così ancora una volta che la sua missione è di rendere vedenti i ciechi e ciechi coloro che si credono vedenti (cap. 9). Yeshùa è un buon pastore che dà la sua vita per le pecore che lo seguono e odono la sua voce (cap. 10). Egli è anche “la resurrezione e la vita” come dimostra facendo risorgere Lazzaro già morto da quattro giorni (cap. 11). A Betania, Maria unge di prezioso profumo i piedi di Yeshùa, prefigurando in tal modo la cura che si usava dispensare al corpo di una persona amata che era morta; Yeshùa entra poi trionfalmente in Gerusalemme al grido della folla in delirio: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!”. – Cap. 12.

   Seconda parte (capp. 13-17). Contiene il colloquio intimo di Yeshùa con i suoi discepoli. Dopo aver consumato la sua ultima cena, Yeshùa dà istruzioni e ammonimenti ai discepoli, raccomandando l’umile servizio per gli altri, che dimostra con la lavanda dei piedi (cap. 13). Promette loro la discesa dello spirito santo che li guiderà in tutta la verità (capp. 14-16). Il colloquio termina con la nota preghiera di tipo sacerdotale in cui Yeshùa invoca Dio perché dia l’unità ai suoi discepoli: “Che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi”. – Cap. 17.

   Terza parte (capp. 18-21). Contiene la passione, la morte e la resurrezione di Yeshùa. Giovanni segue qui gli schemi tradizionali, pur presentando alcuni particolari come l’episodio di Miryàm madre di Yeshùa ai piedi del figlio sul palo (19:25-27). Le apparizioni di Yeshùa, proprie di Giovanni, sono quelle alla Maddalena e agli apostoli tornati a pescare sul lago di Tiberiade, dove ridà a Pietro il suo ufficio apostolico : “Seguimi!”. – Cap. 21.

   Il Vangelo giovanneo presenta una fisionomia diversa dai tre sinottici. Questa sua fisionomia lo rende attuale e moderno. Vediamone gli insegnamenti principali.

   1. Yeshùa è la manifestazione di Dio.

   I Vangeli non sono biografie; essi sono degli scritti destinati a suscitare la fede: “Questi [fatti] sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio” (20:31). Gv ricorda dapprima che la parola o sapienza di Dio si è fatta carne. Qui non si allude ad una creatura preesistente chiamata “parola”, e non si allude nemmeno alla gnosi. Ci si richiama invece la sapienza personificata di Dio ripensata alla luce delle Scritture Ebraiche. Questa “parola” divina che era presso Dio, “diventata carne”, “ha abitato [letteralmente: “si è attendata”] per un tempo fra di noi” (1:14; per approfondimenti si veda lo studio Il lògos (la parola), chi o cosa era, nella sezione Yeshùa). Giovanni continua poi dicendo che era “piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre (1:14). La gloria di Yeshùa è la sua resurrezione così intimamente legata alla morte, come la spiga di grano è legata al chicco che muore: “Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto (12:24), e come la nascita di una nuova creatura è legata alle doglie del parto: “La donna, quando partorisce, prova dolore, perché è venuta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’angoscia per la gioia che sia venuta al mondo una creatura umana” (16:21). La morte è quindi l’ora di Yeshùa che già include in modo germinale la gloria: “L’ora sua non era ancora venuta” (7:30); “L’ora è venuta, che il Figlio dell’uomo dev’essere glorificato” (12:23); “Gesù, sapendo che era venuta per lui l’ora di passare da questo mondo al Padre” (13:1); “L’ora viene, anzi è venuta” (16:32); “Alzati gli occhi al cielo, disse: ‘Padre, l’ora è venuta; glorifica tuo Figlio’”. – 17:1.

   L’amore di Yeshùa, superiore a quello di qualsiasi altra persona eroica, sta nel fatto che egli prevedeva la sua fine. Ci si potrà mai fare un’idea della situazione psicologica interiore di una persona che prevede nettamente un martirio morale e fisico quale Yeshùa sopportò? Yeshùa sapeva. Sapeva pure che sarebbe morto su un palo: “Quando sarò innalzato”, e “così diceva per indicare di qual morte doveva morire”, “Così diceva per indicare di qual morte doveva morire” (12:32,33). La morte è quindi il momento in cui il maligno, dominatore di questo mondo, è debellato e scacciato dal suo regno: “Ora sarà cacciato fuori il principe di questo mondo” (12:31); “io ho vinto il mondo” (16:33). L’ora decisiva della storia umana si è attuata a Gerusalemme, alle 15 di mercoledì 5 aprile del 30 E. V.. Gli ultimi momenti che portarono a quel culmine erano iniziati con l’ultima cena, erano continuati in un giardino al di là del torrente Cedron, poi nella sede del governatore Ponzio Pilato, infine su di un palo innalzato dai romani sul Golgota, e da ultimo culminati con il sepolcro vuoto e la resurrezione di Yeshùa. Nulla di più importante e decisivo può più accadere all’umanità, perché tutto “è compiuto” (19:30). Di Yeshùa viene detto che, pur inferiore a Dio, è unito a lui (14:28) ed è uno con lui (17:21). È per questo motivo che chiunque vede Yeshùa vede Dio (14:9). Dalle affermazioni scritturali è ben difficile vedere l’identità sostanziale di Yeshùa con Dio. Non si parla di sostanza, ma di relazione: Yeshùa è Dio per noi, suo rappresentante, unico mediatore; questo perché è in lui che Dio dimostra il suo amore ed è in lui che la salvezza ci viene donata. Gv non vuole parlare di unione sostanziale, ma vuole esaltare l’unione di volontà tra Yeshùa e Dio. “Il mio cibo è far la volontà di colui che mi ha mandato, e compiere l’opera sua” (4:34), così disse Yeshùa stesso. La “parola” di Dio era scesa in Yeshùa e dimorava in lui ed esprimeva la parola eterna di Dio: “Io non ho parlato di mio; ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha comandato lui quello che devo dire e di cui devo parlare” (12:49). Anche i discepoli di Yeshùa, compiendo la volontà di Dio, possono divenire simili a lui e formare un’unità con lui. – 17:20-26.

   Gv non riferisce molti miracoli, sebbene dica che “vi sono ancora molte altre cose che Gesù ha fatte” e che “se si scrivessero a una a una”, “il mondo stesso non potrebbe contenere i libri che se ne scriverebbero” (21:25). Gv sceglie solo alcuni miracoli più significativi, su cui innesta dei discorsi che ne mettono in risalto il valore e confermano come Yeshùa sia il consacrato di Dio. I miracoli sono in Gv dei σημεῖα (semèia), dei “segni”. Guarendo il cieco nato, Yeshùa si mostra luce del mondo; resuscitando Lazzaro, sorgente di vita; moltiplicando i pani, cibo spirituale. Per i sinottici, i miracoli significano che il Regno di Dio ha fatto il suo ingresso nel mondo, sono delle azioni che conducono alla fede. Per Gv i miracoli possono servire per una fede esitante e provvisoria; essi sono una manifestazione della presenza divina, percepita però solo da chi ha già la fede. La presentazione stessa dei miracoli è diversa. Nei sinottici si segue uno schema costante:

Descrizione della situazione

(gravità del caso) >

Guarigione >

Risultato:

la fede nei presenti

Schema dei sinottici

In Gv il terzo elemento è sostituito da un dialogo complicato con gli increduli, i cui si sviluppano i temi propri giovannei:

Descrizione della situazione

(gravità del caso) >

Guarigione >

Dialogo con gli increduli

Schema giovanneo

 

   I discorsi che troviamo in Gv sono una realtà storica e non una finzione letteraria, anche se talora i discorsi mostrano la profondità della meditazione compiuta da Giovanni sotto la guida dello spirito santo, intrecciando parole di Yeshùa e riflessioni giovannee. Per fare un esempio, nella frase “Nessuno è salito in cielo, se non colui che è disceso dal cielo: il Figlio dell’uomo” (3:13) si suppone già avvenuta la resurrezione (‘nessuno è salito… se non’, quindi Yeshùa è salito), che invece non era ancora avvenuta, perché quella frase la sta dicendo Yeshùa a Nicodemo. Il vangelo di Gv serve quindi a penetrare più profondamente nella conoscenza di Yeshùa.

   2. Yeshùa è una realtà vera proprio come lo siamo noi.

   Al tempo in cui Giovanni era ancora vivo cominciarono a sorgere delle dottrine che trovando indegno che Yeshùa avesse un corpo umano come il nostro, gli attribuivano un corpo solo apparente e non reale (così la pensavano i doceti). Contro costoro Gv sottolinea che la parola di Dio si è fatta carne, vale a dire si è calata in un corpo umano mortale come il nostro:

“La Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi”. – 1:14.

“Ogni spirito, il quale riconosce pubblicamente che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio”. – 1Gv 4:2.

   È per questo che Yeshùa ci può compatire e perdonare: ha provato nella sua vita le nostre debolezze e le nostre miserie, le nostre prove e le nostre tentazioni. Anche se Gv non lo esprime chiaramente, questa è una conseguenza logica del suo essere stato “carne” passibile e morente come noi. Ma – a differenza di noi – non commise mai peccato.

   3. La buona notizia della vita.

   L’uomo contemporaneo brama divenire immortale, non morire mai. Nuove medicine vengono scoperte per allungare la vita. Con i trapianti si cambiano parti del corpo deteriorate per ridargli vita. Ma si tratta pur sempre di vita terrena. Lazzaro tornò in vita per morire di nuovo. Anzi, per colmo d’ironia, proprio con la resurrezione corse il maggior pericolo: “I capi dei sacerdoti deliberarono di far morire anche Lazzaro”. – 12:10.

   Yeshùa – al contrario degli scienziati che fanno di tutto per poter allungare la vita – non offre una continuazione di vita, ma la vita eterna di cui parla la Bibbia: “Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno; gli uni per la vita eterna [לְחַיֵּי עֹולָם, lekhaiyè olàm], gli altri per la vergogna e per una eterna infamia” (Dn 12:2). La vita eterna è diversa qualitativamente dalla presente terrena ed è riservata alla nuova era futura attesa anche dagli ebrei. Si tratta di vita vissuta totalmente alla presenza di Dio e colma delle benedizioni divine; è vita che non teme la morte perché è vita di Dio. Giovanni tenta di definire questa vita quando dice: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo” (17:3). Questa “conoscenza” non va intesa secondo il nostro modo occidentale; non è affatto una conoscenza teologica su Dio e su Yeshùa. Questo è l’errore che fanno molte religioni moderne che insistono sulla necessità di conoscenza nel senso di apprendere e conoscere delle dottrine. La “conoscenza” di cui parla la Scrittura e che qui Giovanni menziona è un’esperienza personale con Dio per mezzo di Yeshùa il consacrato. È una conoscenza che non si riceve da libri e da opuscoli, non si insegna alla gente e non può essere imparata. È una conoscenza in senso semitico, fatta per esperienza, che – se Dio la concede – si può solo vivere e godere infinitamente.

   4. Nessuna continuazione nei “sacramenti”.

   Alcuni studiosi (americani, inglesi e francesi; non molti i tedeschi) asseriscono che Gv ha un grande interesse per i “sacramenti” con cui la chiesa continuerebbe l’opera di Yeshùa. Questi “sacramenti” sarebbero il battesimo e l’eucaristia. Altri studiosi fanno notare che Giovanni, da buon spiritualista, sarebbe del tutto contrario ai “sacramenti”. Questo è il caso classico in cui la verità sta nel mezzo. Giovanni non fu affatto contrario alla cena del Signore e al battesimo. Pur tuttavia, non ne va esagerato sproporzionatamente il valore simbolico. Per essere più chiari, battezzare un bambino non toglie davvero nessun presunto peccato originale, come “fare la comunione” non mette in “grazia di Dio”. Questi argomenti sono trattati più approfonditamente in altri studi.

   I Vangeli sinottici parlano di un futuro Regno di Dio. Questa realtà, pur essendo presente in maniera embrionale nella chiesa o congregazione, rimane pur sempre una realtà del futuro. È forse per questo motivo che la gente in genere si sente distante dal vangelo; la gente è abituata a guardare alle realtà attuali e non alle utopie future; così si pensa che il vangelo vada bene per i bambini ma non per gli adulti. Le religioni hanno una grande e grave responsabilità per aver prodotto questa incredulità diffusa. Comunque, sotto quest’aspetto il Vangelo di Giovanni è più corrispondente ai bisogni attuali: esso insiste infatti sui beni presenti, pur non negando affatto quelli futuri. Anche Gv naturalmente parla dell’ultimo giorno e della separazione finale:

“Non vi meravigliate di questo; perché l’ora viene in cui tutti quelli che sono nelle tombe udranno la sua voce e ne verranno fuori; quelli che hanno operato bene, in risurrezione di vita; quelli che hanno operato male, in risurrezione di giudizio”. – 5:28,29.

   In Gv c’è una progressione. Da questa realtà futura non siamo nettamente separati. Sin da ora si attua la separazione, la crisi, la salvezza o la condanna; gli uomini stessi si autocondannano respingendo Yeshùa, mentre coloro che lo accettano non passano nemmeno per il giudizio.

  “Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna. Infatti Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è giudicato; chi non crede è già giudicato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”. – 3:16-18.

  “Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero colpa; ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Chi odia me, odia anche il Padre mio. Se non avessi fatto tra di loro le opere che nessun altro ha mai fatte, non avrebbero colpa; ma ora le hanno viste, e hanno odiato me e il Padre mio”. – 15:22-24.

   È già su questa terra che avviene la decisione personale. Il credente risponde con la fede, l’amore e la fiducia.

   Fede. Più di cento volte ricorre in Gv la parola πιστεύειν (pistèuein), “credere” (che in tutte le Scritture Greche si rinviene circa trecento volte), vale a dire un terzo del suo uso. La fede di cui si parla in Gv non è l’adesione astratta a un credo o sistema dottrinale. È il darsi di chi crede nella persona di Yeshùa, è l’inizio della comunione con Dio, è un amore fiducioso verso Yeshùa. “Gesù disse loro: ‘Se Dio fosse vostro Padre, mi amereste’” (8:42); “Se voi mi amate, osserverete i miei comandamenti” (14:15); “Chi ha i miei comandamenti e li osserva, quello mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e io lo amerò e mi manifesterò a lui” (14:21); “Chi non mi ama non osserva le mie parole” (14:24); “il Padre stesso vi ama, perché mi avete amato e avete creduto che sono proceduto da Dio” (16:27). Per questa fede i credenti sono uniti a Yeshùa come i tralci alla vite: “Io sono la vite, voi siete i tralci” (15:15). Essi lo seguono come le pecore seguono il pastore: “Va davanti a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce” (10:4). E, dato che la fede poggia sulla testimonianza che ha dato lo spirito santo guidando gli apostoli in tutta la verità, ne deriva che non conta la trasmissione delle dottrine attraverso la gerarchia di una presunta “successione apostolica” e non conta neppure il presunto intendimento di una classe di persone che si arrogano il diritto di capire e spiegare la verità. La fede è la fedeltà a quanto sta scritto nelle Scritture. “Questi [i segni compiuti da Yeshùa] sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome” (20:31). Gv insiste sul fatto che il giudizio si attua già nel presente. In Gv c’è un’escatologia (dottrina delle cose ultime che riguardano l’umanità) già realizzata, sebbene si attenda l’atto finale di questa escatologia.

   Amore. L’amore di Yeshùa che dà la vita per i fratelli è non solo il modello ma anche la fonte del fraterno amore tra i suoi discepoli. “Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io” (13:14,15); “Io vi do un nuovo comandamento: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri” (13:34). Questo amore riguarda principalmente i credenti e non include il mondo che è condannato da Dio: “Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri. Se il mondo vi odia, sapete bene che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe quello che è suo; poiché non siete del mondo, ma io ho scelto voi in mezzo al mondo, perciò il mondo vi odia” (15:17-19; cfr. 18:8: “Gesù rispose: ‘Vi ho detto che sono io; se dunque cercate me, lasciate andare questi’”). In Gv viene messo in risalto che la comunità dei salvati deve essere separata dal mondo che giace nelle tenebre. I credenti sono affidati a Yeshùa fin dall’eternità e lui li custodisce con cura in modo che nessuno si perda: “Erano tuoi e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola […] Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dati, perché sono tuoi”. –  17:6,9.

   Fiducia. Alla gente sfiduciata di tutti i tempi Giovanni dice che la vita sta in Yeshùa. Non è dallo sforzo individuale che proviene la vita: invano la cercano i rabbini con il loro zelo e con l’osservanza scrupolosa della Legge. Non la raggiunsero gli stoici con i loro ideali di fratellanza umana. Anche oggi il “cristianesimo sociale” non raggiunge lo scopo. Ciò di cui il credente ha bisogno è l’agire in unione con Yeshùa, rivivendo il suo amore sotto la spinta dello spirito santo. In Gv traspare un grande amore per il Dio vivente e il desiderio di donare la nuova vita da lui ricevuta per mezzo di Yeshùa, vivendola alla sua lode: “Quel che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché voi pure siate in comunione con noi; e la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo” (1Gv 1:3). Se oggi questa dimensione (che è la realtà vera) manca, non è perché Dio si è ritirato, ma per il fatto che le persone vivono senza Dio oppure sono prigioniere delle religioni che annebbiano le loro menti e non sanno più appropriarsi e godere del dono di Dio.