La critica testuale è una scienza biblica indispensabile: senza di essa, oggi non potremmo leggere la Bibbia.

   Nel passato la scrittura era poco diffusa ed era un’arte riservata a pochi: si trattava in genere di specialisti che operavano presso le corti dei re o al servizio di qualche ricco magnate. Ciò accadeva soprattutto per il costo elevato del materiale scrittorio (papiri, pelli).

   Il materiale scrittorio, già di per sé deperibile, col tempo si usurava e alla fine si decomponeva. Se non fosse stato per il paziente lavoro degli scribi, oggi non avremmo più nulla di quegli antichi scritti.

   Comunque – si sa, errare è umano -, quegli amanuensi commisero a volte involontari errori di copiatura. È qui che diventa prezioso il lavoro dei critici testuali. Questi studiosi devono scoprire, ricavandolo dalle diverse copie rinvenute, il vero testo originale.

   La critica testuale è una disciplina molto complessa, ma al tempo stesso è forse la più importante nella biblistica. Applicata alla Sacra Scrittura, produce risultati più certi che rispetto ad altre opere antiche, perché il materiale esistente (manoscritti) è incomparabilmente più vario e abbondante di qualsiasi altro che sia stato scritto in passato. Sotto questo aspetto la differenza tra la Bibbia e qualsiasi altra opera letteraria deve essere riconosciuta: le tragedie di Eschilo che ci sono pervenute, sono conservate soltanto in 50 manoscritti, nessuno dei quali è completo; delle opere di Sofocle abbiamo soltanto un centinaio di manoscritti, dei quali solo sette sono di apprezzabile valore; stessa cosa per gli Annali di Tacito; dei poemi di Catullo esistono soltanto tre manoscritti indipendenti. Questi esempi vanno aggiunti a quelli riportati nello studio Come ci è pervenuta la Bibbia (in questa stessa categoria). Un recente calcolo contava ben 5.269 manoscritti biblici nel greco originale delle Scritture Greche e circa 6.000 nell’ebraico originale delle Scritture Ebraiche.

   L’enorme massa di manoscritti ci dà la garanzia che il vero testo non è andato perduto. Il compito di selezione del vero testo estratto da tutte queste svariate ed autorevoli testimonianze è di estrema delicatezza e complessità. L’esame del materiale utile è immenso: distinguere tra manoscritto e manoscritto, tra versione e versione è uno dei problemi più ardui e difficili che sia mai stato affrontato dalla critica testuale.

   Desideriamo dare un esempio del lavoro svolto su un singolo frammento di manoscritto. Ci riferiamo, per l’esempio, al manoscritto P52, contenente Gv 18:31-33,37,30.

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Lettere in colore rosso: visibili nel frammento. Lettere in colore nero: ricostruite in base ad altri manoscritti dello stesso testo.

   Il frammento del papiro era compreso in un gruppo di papiri acquistato sul mercato egiziano nel 1920 dal papirologo Bernard P. Grenfell. Fu trascritto e tradotto originariamente da Colin H. Roberts nel 1934. Furono trovate scritture simili in papiri datati all’epoca tra il 50 e il 150 E. V. (i casi più simili riguardavano scritture del periodo dell’imperatore romano Adriano). Siccome la composizione di Gv è fatta risalire a cavallo tra il 1° e il 2° secolo della nostra èra, Roberts propose una datazione corrispondente alla prima metà del 2° secolo. In seguito, però, le scritture usate da Roberts come paragone sono state datate ad un paio di decenni in più rispetto alla data di Roberts; nel contempo, altre scritture simili sono state scoperte e queste risalgono alla seconda metà del 2° secolo.

   L’importanza del P52 è dovuta alla sua composizione antica, oltre che alla relativa poca distanza geografica dal luogo di composizione dell’originale. Gv fu citato da Giustino di Nablus, per cui fu scritto probabilmente prima del 160. Molti studiosi collocano la stesura di Gv attorno al 90. Comunque, il P52 è stato datato con precisione dalla paleografia, senza l’ausilio di prove testuali esterne.

testo: RectoGv 18:31-33

Linee: 7. Lettere leggibili: 57. Lettere ricostruite: 3. Lettere non presenti: 24. Media lettere per linea: 32,6.

testo: VersoGv 18:37-38

Linee: 7. Lettere leggibili: 55. Lettere ricostruite: 5. Lettere non presenti: 21. Media lettere per linea: 30.

   Il frammento è autentico senza ombra di dubbio. Non proviene da un rotolo, ma da un codice. Secondo Roberts il frammento apparterrebbe al secondo fascicolo di un bifolium di un codice che doveva essere composto da 66 fogli di 21 cm x 20 cm che conteneva solo Gv. Gli studiosi sono concordi nel ritenere il P52 il più antico manoscritto attualmente rinvenuto delle Scritture Greche. Secondo una teoria da non sottovalutare, il frammento proviene da Efeso, presunto luogo di composizione di Gv. Da Efeso sarebbe poi stato portato in Egitto, dove fu ritrovato.

   La scrittura greca maiuscola del P52 è del tipo documentaria riformata, comprendente lettere tonde e proporzionate, impresse con inchiostro scuro. Le lettere alfa (α), iota (ι) e üpsilon (υ) a volte varcano la linea superiore. La lettera rho (ρ) ha il tratto verticale prolungato oltre la linea inferiore. Si notano i luoghi in cui il calamo ha incontrato l’attrito della superficie scrittoria. La mano dello scriba appare pesante: alcune lettere (la eta, η, e il sigma, ς) sono ricalcate; le lettere omega (ω), iota (ι) e üpsilon (υ) sono leggermente uncinate nei tratti finali per via dell’inchiostro fuoriuscito. Il frammento contiene due tipi di alfa (α): la prima, composta da un tratto verticale arcato; la seconda, formata da un unico tratto circolare. La lettera (μ) è leggermente flessa nella parte centrale. Non si sono preservate le lettere fi (φ) e psi (ψ). La grafia indica uno scriba indubbiamente colto, ma non esperto del mestiere.

   Il P52 non contiene punteggiatura, aspirazioni, iota ascritti e altri segni diacritici. Sotto il profilo ortografico, il P52 è sostanzialmente corretto, ma vi ricorrono tre itacismi. L’itacismo indica la pronuncia reuchliniana della lingua greca antica, secondo la quale la eta (η) e il dittongo ει si pronunciano i, come nel greco moderno. Questi itacismi indicano che il testo fu scritto sotto dettatura: sentendo pronunciare i, lo scriba scrisse il dittongo ει laddove si trattava invece di iota (ι). Ciò non deve scandalizzate: questo tipo di errori sono molto presenti nei manoscritti antichi.

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