Abbiamo appena considerato che nelle apocalissi giudaiche gli antichi detti dei profeti vengono sostituiti da immagini alquanto articolate. Ciò accade anche nell’Apocalisse di Giovanni, che presenta una ricca successione di immagini. Gli autori apocalittici giudaici ricevevano in sogno o in visione la conoscenza degli eventi che si dovevano verificare fino alla fine del mondo. Ciò avvenne anche per Giovanni: “Fui rapito dallo Spirito nel giorno del Signore” (Ap 1:10). Giovanni viene trasportato “in spirito” (Ap 17:3;21:10) per partecipare alla misteriosa visione che gli viene rivelata. Tale visione è di portata cosmica: satana con le potenze demoniache della malvagità fanno il loro ingresso in scena insieme agli angeli fedeli; vi si svolge un dramma che in sequenze molto rapide si avvia alla conclusione. Le singole scene del dramma cosmico sono delineate secondo la tradizione apocalittica. Quando manca la chiarezza, possiamo determinarne il significato ricorrendo al senso che la tradizione apocalittica gli attribuiva, ed è l’unico modo che abbiamo. Solo per illustrare, si prenda Ap 1:16: “Nella sua mano destra [di Yeshùa] teneva sette stelle; dalla sua bocca usciva una spada a due tagli, affilata, e il suo volto era come il sole quando risplende in tutta la sua forza”. Cosa vogliono dire questi simboli? Più avanti, al v. 20, è spiegato che “le sette stelle sono gli angeli delle sette chiese, e i sette candelabri sono le sette chiese”, ma rimane la domanda: perché proprio sette? Non si sa. Sappiamo dalla Bibbia che la mano destra indica la forza e la potenza. Dalla tradizione sappiamo che l’Orsa Minore (una costellazione di sette stelle) era considerata simbolo di potenza e dominio; ad esempio, il dio Mitra aveva la costellazione dell’Orsa alla sua destra e la stessa immagine indicava il dominio imperiale dei Cesari romani. Ora, si consideri quale grande potenza deve avere Yeshùa, che tiene le sette stelle semplicemente nel palmo della sua destra! Ciò illustra visivamente e con grandissima efficacia l’enorme dominio che gli è affidato. Mentre il dio Mitra aveva la costellazione solo alla sua destra e i Cesari l’avevano solo come simbolo, Yeshùa la tiene in mano.

   Giovanni non descrive solo la visione che ha avuto, ma nel farlo utilizza i motivi della tradizione, collegandoli tra loro. Questa coordinazione delle immagini è fatta sulla base della testimonianza della prima comunità dei credenti resa a Yeshùa risorto e glorificato, ma anche veniente e venturo alla fine dei tempi. Tutto ciò Giovanni lo fa per ispirazione, perché ricevette il dono della profezia. Ciò che gli rivelato egli lo raccoglie in un’opera letteraria che ha lo scopo di consolare, di rafforzare e di incoraggiare le comunità (chiese o congregazioni) del suo tempo. E anche noi oggi.

   Vi è indubbiamente un’affinità alquanto marcata tra l’Apocalisse biblica di Giovanni e le altre apocalissi giudaiche. Giovanni stesso era un giudeo. Tuttavia, il suo scritto si differenzia anche distintamente dalle apocalissi giudaiche. Infatti, Giovanni non si presenta sotto le mentite spoglie di qualche illustre personaggio del passato, ma dichiara esplicitamente il suo nome sin dal primo versetto: “Rivelazione [ἀποκάλυψις (apokàlypsis)] di Gesù Cristo, che Dio gli diede per mostrare ai suoi servi le cose che devono avvenire tra breve, e che egli ha fatto conoscere mandando il suo angelo al suo servo Giovanni” (Ap 1:1), e continua a farlo: “Giovanni, alle sette chiese che sono in Asia” (1:4), “Io, Giovanni” (1:9;22:8). Questo nome era ben noto alla prima comunità, tanto che Giovanni, identificandosi, dice: “Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione” (1:9). Egli era uno dei Dodici (Mt 10:2; Mr 3:14,16,17; Lc 6:14; 8:51;9:28; At 1:13), scelto direttamente da Yeshùa (Mt 4:21,22) ed era tra coloro che erano “reputati colonne” (Gal 2:9). Giovanni quindi, non concepisce la sua opera apocalittica attribuendola a un antico personaggio, come facevano gli apocalittici. E neppure destina il suo libro alle future generazioni, sigillandolo perché sia aperto solo al tempo della fine. Egli si rivolge alle chiese o congregazioni del suo tempo chiamandole per nome: “Alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatiri, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea” (Ap 1:11). La sua Apocalisse non è sigillata, anzi gli viene imposto “Non sigillare le parole della profezia di questo libro, perché il tempo è vicino” (Ap 22:10). Un’altra differenza con le apocalissi giudaiche è che quella giovannea non presenta l’interpretazione della storia passata, ma presenta gli eventi del tempo della fine, compresi il ritorno di Yeshùa, il giudizio finale e la nuova creazione.

   Trattandosi degli eventi finali di tutta storia umana, già fissati dalla decisione di Dio, Giovanni trova che l’unico linguaggio che si adatta a descriverli è quello del Tanàch, la Bibbia ebraica. È per questo che usa, quasi per ogni sua frase, espressioni tipiche bibliche, perfino quando non si adattano in modo perfetto nel nuovo contesto in cui l’agiografo le inserisce. Come esempio, si prenda Ap 4:8: “Le quattro creature viventi avevano ognuna sei ali, ed erano coperte di occhi tutt’intorno e di dentro, e non cessavano mai di ripetere giorno e notte: «Santo, santo, santo è il Signore, il Dio onnipotente, che era, che è, e che viene»”, al versetto predente è detto che “La prima creatura vivente era simile a un leone, la seconda simile a un vitello, la terza aveva la faccia come d’un uomo e la quarta era simile a un’aquila mentre vola” (v. 8), si tratta quindi di bestie. Nell’analoga visione di Ezechiele, però, riscontriamo delle differenze. – Cfr. Ez 1:5 e sgg..

   Giovanni è così radicato nelle Scritture Ebraiche che ne usa regolarmente le parole ebraiche traducendole nel suo pessimo greco, che infrange la grammatica e la sintassi greche. In questo suo greco sgrammaticato ed ebraizzante, Giovanni annuncia la rivelazione (apocalisse) di Yeshùa che poggia sulla promessa di Dio nel Tanàch e che ne è l’adempimento e il compimento.