Pochissimi sono i passi biblici in cui Yeshùa sembra essere chiamato Dio.

   Il passo più chiaro è ritenuto quello di Gv 20:28. Qui Yeshùa risorto appare all’apostolo Tommaso che esclama: “Mio Signore e mio Dio!” (TNM). Va analizzato il contesto: Tommaso era quello che aveva dubitato fortemente della resurrezione di Yeshùa, tanto che aveva dichiarato: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, certamente non crederò” (Gv 20:25, TNM). È questo ostinato incredulo che, otto giorni dopo, si trova in casa con gli altri apostoli. Il gruppo lì riunito non aspettava certo Yeshùa, giacché le porte erano serrate. E Yeshùa, inatteso, “venne, benché le porte fossero serrate, e stette in mezzo a loro” (v 26). Possiamo immaginare lo stupore di Tommaso, ma riusciamo a immaginare la fortissima carica emotiva che dovette provare quando Yeshùa risorto, tra i tanti presenti si rivolse proprio a lui dicendogli: “Metti il tuo dito qui, e vedi le mie mani, e prendi la tua mano e mettila nel mio fianco”? Fu in quel momento così carico di emozione che Tommaso uscì nella sua esclamazione: “Mio Signore e mio Dio!”. È la stessa espressione che scappa a molti di noi di fronte a qualcosa d’inatteso e che ci stupisce grandemente.

   Tra l’altro, era un’espressione conosciuta al di fuori del mondo della fede ebraica. Sono state rinvenute monete su cui Antioco IV Epifanie aveva fatto coniare: “Signore e Dio” per esaltare la propria grandezza.

Passi criticamente dubbi

   “Nessuno ha mai visto Dio; un Dio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1:18). Così traduce la versione cattolica di Garofalo. Anche se questa è la lezione più attestata, non mancano codici con le varianti “unigenito figlio” e “unigenito di Dio”. Se dovessimo guardare allo stile di Giovanni dovremmo preferire “unigenito figlio” che ricorre anche altrove (Gv 3:16,18; 1Gv 4:9). A creare la lezione che ha “unigenito Dio” potrebbe essere stata la confusione fatta dal copista tra lettere greche simili tra loro:

υἱός

θεός

üiòs

theòs

figlio

Dio

   Può anche darsi che sulla lezione abbia influito la controversia ariana con la tendenza ad assimilare Yeshùa a Dio. In ogni caso – a prova dell’inattendibilità della lezione – la Bibbia ufficiale della Chiesa Cattolica (della Conferenza Episcopale Italiana) ha oggi: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”.

   “Dio si è manifestato in carne” (1Tm 3:16, Textus Receptus). Questa lezione non appare in nessun codice unciale (prima mano) anteriore al 9° secolo. È quindi una lezione da scartare, in quanto i codici più importanti hanno “Colui che” invece di “Dio”. Anche qui è sufficiente citare la versione cattolica moderna: “Egli si manifestò nella carne”. – C.E.I..

   Ci sono poi traduzioni molto dubbie, in cui si gioca con la punteggiatura. Come dovrebbe essere noto, i codici antichi non segnavano la punteggiatura: i vocaboli si susseguivano uno attaccato all’altro senza nessuna spaziatura (il materiale su cui scrivevano era prezioso e lo spazio andava quindi risparmiato).

     Rm 9:5 è uno di quei passi che può essere tradotto diversamente a seconda della punteggiatura che si mette. Il brano, letteralmente, è questo:

ἐξ ὧν ὁ χριστὸς τὸ κατὰ σάρκα, ὁ ὢν ἐπὶ πάντων θεὸς εὐλογητὸς εἰς τοὺς αἰῶνας ἀμήν

ecs on Christòs to katà sàrka o on epì pànton theòs euloghetòs èi tus aiònas amèn

da i quali il Cristo lo secondo carne l’essente sopra tutti Dio benedetto verso i secoli amen

   Messo in un italiano più fluido, ma sempre letterale e senza punteggiatura, suona: “Dai quali [antenati di Israele] [venne] il Cristo secondo la carne colui che è sopra tutti Dio benedetto nei secoli amen”.

   Se si mette un punto dopo “carne”, abbiamo: “Dai quali [è venuto] il Cristo secondo la carne. Colui che è sopra tutti, Dio, [sia] benedetto nei secoli, amen”.

   Se si mette una virgola dopo “carne”, abbiamo: “Dai quali [è venuto] il Cristo secondo la carne, colui che è sopra tutti Dio benedetto nei secoli, amen”.

   Se si mette un punto dopo “tutti”, abbiamo: “Dai quali [è venuto] il Cristo secondo la carne, colui che è sopra tutti. Dio [sia] benedetto nei secoli, amen”.

   Questa terza ultima ipotesi non è preferibile: essendo questa una dossologia (una celebrazione) di esultanza semplice, sarebbe stato più logico (conformemente alla lingua greca) avere “benedetto [sia] Dio” che non “Dio [sia] benedetto” che appare nella lezione.

   Siccome Paolo (autore della lettera ai romani) nelle sue lettere non chiama mai Yeshùa Dio, va scartata anche la seconda ipotesi.

   Rimane quindi valida la prima ipotesi. Che sia quella giusta lo mostra il contesto stesso: Paolo ha appena detto che Yeshùa viene dalla discendenza degli israeliti, così tanto amati da Dio, “ai quali appartengono l’adozione come figli e la gloria e i patti e l’emanazione della Legge e il sacro servizio e le promesse; ai quali appartengono gli antenati e dai quali [sorse] il Cristo secondo la carne” (vv. 4,5, TNM); dopo aver menzionato tutte queste ricchezze che vengono da Dio e che culminano in Yeshùa, irrompe allora in un’esclamazione di gratitudine: “Colui che è sopra tutti, Dio, [sia] benedetto per sempre!” Che si tratti proprio di un’esclamazione di benedizione rivolta a Dio è confermato poi dalla parola finale: “Amen”.

   Un altro passo controverso è quello di At 20:28 che, letto nella versione cattolica della CEI, suona: “A pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue”. Dato che chi ha dato il suo sangue è Yeshùa e dato che il sangue è detto “suo” (cioè di Dio), ne verrebbe che Yeshùa è Dio.

   La traduzione, però, può essere ben diversa. Vediamo intanto il testo greco:

διὰ τοῦ αἵματος τοῦ ἰδίου

dià tu àimatos tu idìu

per mezzo del sangue del  proprio

   Il nocciolo della questione sta in quel “del proprio”. In Rm 8:32 si trova un’espressione simile: “Colui che non ha fatto risparmio nemmeno del proprio figlio [τοῦ ἰδίου υἱοῦ, tu idìu üiù, del proprio figlio]”. È noto che nei papiri greci è usato l’epìteto affettuoso “proprio” per indicare una persona molto cara o un parente molto stretto. L’espressione di Atti potrebbe quindi significare: Dio non ha risparmiato “il proprio”, il suo caro, quello che gli era così vicino. Va poi notato che la lezione “per mezzo del suo proprio sangue” che si trova nei testi bizantini non si trova altrove, per cui è dubbia. In più, parlare di sangue di Dio è una bestemmia.

   “Noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna” (1Gv 5:20, C.E.I.). Altro passo di dubbia traduzione. Quel “noi siamo nel vero Dio” non è così nel testo greco che ha solo “noi siamo nel vero”:

ἐσμεν ἐν τῷ ἀληθινῷ

esmèn en to alethinò

siamo in il vero

   Una traduzione conforme al testo greco è: “Noi siamo nel vero attraverso il suo proprio figlio Yeshùa il consacrato. Questo è il vero: Dio e vita eterna”.

   Altro testo controverso: “Nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” (Tt 2:13, C.E.I.). Il testo greco ha:

τοῦ μεγάλου θεοῦ καὶ σωτῆρος ἡμῶν Χριστοῦ Ἰησοῦ

tu megàlu theù kài sotèros emòn Iesù Christù

del grande Dio e salvatore nostro Yeshùa consacrato

   L’unico articolo iniziane (“del”), non ripetuto davanti a “salvatore” potrebbe far pensare all’unica persona di Yeshùa che sarebbe così chiamata “grande Dio e salvatore”. Una buona argomentazione contro l’interpretazione suddetta, si trova nell’Appendice 6E della Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture: “Uno studio dettagliato della costruzione di Tit 2:13 si trova in The Authorship of the Fourth Gospel and Other Critical Essays, di Ezra Abbot, Boston, 1888, pp. 439-457. A p. 452 di quest’opera si trovano i seguenti commenti: ‘Prendete un esempio dal Nuovo Testamento. In Matt. xxi. 12 leggiamo che Gesù ‘scacciò tutti quelli che vendevano e compravano nel tempio’, τους πωλουντας και αγοράζοντας [tous poloùntas kai agoràzontas]. Nessuno può ragionevolmente supporre che qui siano descritte le stesse persone nell’atto di vendere e di comprare contemporaneamente. In Marco le due categorie sono distinte dall’inserzione di τούς davanti ad αγοράζοντας; qui è tranquillamente lasciato all’intelligenza del lettore distinguerle. Nel caso in questione [Tit 2:13], l’omissione dell’articolo davanti a σωτηρος [sotèros] mi sembra non presenti difficoltà, non perché σωτηρος sia sufficientemente determinato dall’aggiunta di ηµων [emòn] (Winer), poiché, dal momento che sia Dio che Cristo sono spesso chiamati “nostro Salvatore”, η δόξα του µεγάλου θεου και σωτηρος ηµων [he dòxa tou megàlou Theoù kai sotèros hemòn], se stesse da solo, si intenderebbe nel modo più naturale come riferito a un solo soggetto, cioè Dio, il Padre; ma l’aggiunta di ’Ιησου Χριστου [Iesoù Christoù] a σωτηρος ηµων [sotèros hemòn] cambia interamente la cosa, limitando σωτηρος ηµων a una persona o essere che, secondo il consueto uso della lingua che fa Paolo, è distinto dalla persona o essere che egli designa come ο θεός [ho Theòs], di modo che non c’era bisogno della ripetizione dell’articolo per evitare ambiguità. Così in 2 Tess. i. 12, l’espressione κατα την χάριν του θεου ηµων και κυρίου [katà ten chàrin tou Theoù hemòn kai kyrìou] sarebbe naturalmente intesa come riferita a un solo soggetto, e ci vorrebbe l’articolo davanti a κυρίου se se ne intendessero due; ma la semplice aggiunta di ’Ιησου Χριστου [Iesoù Christoù] a κυρίου [kyrìou] rende chiaro il riferimento ai due distinti soggetti senza l’inserzione dell’articolo’. Perciò, in Tit 2:13, si parla di due persone distinte, Geova Dio e Gesù Cristo. In tutte le Sacre Scritture non è possibile identificare Geova e Gesù come se fossero la stessa persona”.

   Tuttavia, si potrebbe anche pensare a un atto unico in cui si manifestano insieme Dio e Yeshùa. L’unicità dell’articolo determinativo vorrebbe appunto sottolineare che i due appariranno simultaneamente nel giudizio finale. Questa interpretazione si può applicare anche a 2Pt 1:1: “Una fede preziosa quanto la nostra nella giustizia del nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo”. Questa interpretazione è resa certa da 2Ts 1:2: “Grazia a voi e pace da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo”: qui è impossibile identificare i due in una sola persona, altrimenti si dovrebbe affermare che il Padre e Yeshùa sarebbero la stessa persona, cosa che è inequivocabilmente esclusa in tutte le Scritture Greche. E che porrebbe una grave difficoltà anche alla dottrina della trinità: se il Padre e il Figlio sono la stessa persona, come si fa ad avere tre persone?

   Infine abbiamo il passo di 1Gv 5:7: “Sono tre che rendono testimonianza in cielo: Il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo: e questi tre sono una cosa sola”. Così si legge nella versione cattolica di Monsignor Antonio Martini. Qui non solo si affermerebbe l’uguaglianza di Yeshùa (“il Verbo”) con Dio, ma addirittura si affermerebbe la trinità (dottrina del tutto estranea alla Scrittura). Riguardo a questo passo F. H. A. Scrivener, esperto di critica testuale, scrive: “Non esitiamo a dichiarare la nostra convinzione che le parole in questione non furono scritte da S. Giovanni: che furono originariamente introdotte in copie latine in Africa da una glossa marginale, dove erano state collocate come pia e ortodossa annotazione sul v. 8: che dal latino finirono in due o tre tardi codici greci, e da lì nel testo greco stampato, dove non avevano alcun diritto di trovarsi”. — A Plain Introduction to the Criticism of the New Testament (Cambridge, 1883, 3a ediz.), p. 654.

   Che questa lezione sia una vera e propria manomissione del testo originale è ormai accertato dai critici. Tanto è vero che oggi la C.E.I. (versione ufficiale della Chiesa Cattolica) ha: “Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi” (1Gv 5:7,8). Dopo “che rendono testimonianza” i mss. corsivi n. 61 (XVI secolo) e n. 629 (in latino e greco, XIV-XV secolo) e la Vgc aggiungono le parole: “in cielo, il Padre, la Parola e lo spirito santo; e questi tre sono uno. E tre sono quelli che rendono testimonianza sulla terra”. Ma queste parole sono omesse da אABVgSyh,p.

   Yeshùa non è Dio. La Bibbia dichiara inequivocabilmente: “Ascolta, Israele: Il Signore [יהוה, Yhvh, nel testo ebraico], il nostro Dio, è l’unico Signore [יהוה, Yhvh]” (Dt 6:4). La “divinità” di Yeshùa è qualcosa di estraneo alla Bibbia: essa appartiene alle religioni, non alla verità della Scrittura.

      Uno dei passi più controversi su cui i trinitari basano la divinità di Yeshùa è Gv 1:1, in cui – nella versione della nuova CEI – si legge: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. “Verbo” è l’italianizzazione del latino verbum, che significa “parola” (greco λόγος, lògos ). Questo passo merita una trattazione a parte ed è considerato nello studio Il lògos (la parola): chi o cosa era?, presente in questa stessa sezione.