Le norme della purificazione per una donna che partoriva un maschio si leggono in Lv 12:2-4: “Parla ai figli d’Israele, dicendo: ‘Nel caso che una donna concepisca un seme e in effetti partorisca un maschio, dev’essere impura per sette giorni; sarà impura come ai giorni dell’impurità in cui ha i mestrui. E l’ottavo giorno gli sarà circoncisa la carne del prepuzio. Essa starà nel sangue della purificazione per altri trentatré giorni. Non deve toccare nessuna cosa santa, e non deve entrare nel luogo santo finché non si compiano i giorni della sua purificazione” (TNM). Finito il tempo d’impurità legale, la puerpera doveva sottoporsi al rito della purificazione. In tale occasione doveva offrire a Dio un agnello di un anno per l’olocausto che si bruciava tutto (Lv 1:10-13) e un piccione o una colomba in sacrificio, e tutto veniva consumato dal sacerdote: “Quando i giorni della sua purificazione per un figlio o per una figlia saranno compiuti, porterà al sacerdote all’ingresso della tenda del convegno un agnello di un anno come olocausto e un colombo o una tortora in sacrificio di espiazione. Il sacerdote li offrirà davanti al Signore e farà il rito espiatorio per lei; essa sarà purificata dal flusso del suo sangue. Questa è la legge relativa alla donna, che partorisce un maschio o una femmina” (Lv 12:6,7). In caso di povertà doveva offrire due piccioni o due colombe che servivano per entrambi i sacrifici: “Se non ha mezzi da offrire un agnello, prenderà due tortore o due colombi: uno per l’olocausto e l’altro per il sacrificio espiatorio. Il sacerdote farà il rito espiatorio per lei ed essa sarà monda” (v. 8). È appunto quello che fece Miryàm, dimostrando in tal modo di essere di famiglia povera. – Lc 2:24.
In quell’occasione, per la purificazione di Miryàm si ebbe anche la presentazione del bambino Yeshùa al Tempio, secondo la legge riguardante il primogenito: “Consacrami ogni primogenito, il primo parto di ogni madre tra gli Israeliti – di uomini o di animali -: esso appartiene a me” (Es 13:2). Il motivo del “riscatto” del primogenito maschio era in ricordo di ciò che Dio aveva fatto per gli israeliti quando li aveva liberati dall’Egitto. Mentre ogni primogenito maschio egiziano (umano e animale) furono uccisi, quelli ebrei scamparono dalla morte. In ricordo di ciò gli israeliti dovevano offrire (nel senso di dedicare) a Dio ogni loro primogenito maschio sia degli animali che degli uomini (Es 13:11-16). I bimbi venivano riscattati con il pagamento di 5 sicli d’argento (poco meno di 10 € odierni) all’età di un mese: “Ogni essere che nasce per primo da ogni essere vivente, offerto al Signore, così degli uomini come degli animali, sarà tuo; però farai riscattare il primogenito dell’uomo e farai anche riscattare il primo nato di un animale immondo. Quanto al riscatto, li farai riscattare dall’età di un mese, secondo la stima di cinque sicli d’argento” (Nm 18:15,16). Il riscatto riguardava solo il maschio primogenito, da intendersi in senso stretto come colui che apriva la matrice. Le femmine erano escluse. La vedova che si risposava non era obbligata a riscattare il primogenito maschio del nuovo matrimonio. Anche in caso di aborto, il figlio che sarebbe nato dopo (pur essendo il primo a vivere) era esente dal riscatto. I primogeniti appartenevano a Dio: prima erano destinati a essere sacerdoti, poi – con la scelta dei leviti quali sacerdoti – vennero riscattati.
Gli israeliti portavano al Tempio il bambino di persona, come avvenne per Giuseppe e Miryàm: “Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore” (Lc 2:22,23). Si noti il plurale: la “loro purificazione”. È riferito a Miryàm e a Yeshùa, ma solo Miryàm era impura. Qui probabilmente Luca usò il plurale per indicare che anche Yeshùa era con Miryàm al Tempio, anche se le cerimonie erano diverse.
Durante la presentazione di Yeshùa al Tempio fanno la loro comparsa Simeone e Anna.
Simeone era un uomo giusto, avanzato negli anni, ma che aveva avuto la rivelazione di non morire prima di aver visto “il Messia del Signore”. Mosso dallo spirito santo di Dio giunse al Tempio proprio durante la presentazione di Yeshùa e, presolo in braccio, ringraziò Dio celebrando un inno in cui egli pare paragonarsi ad una sentinella posta su un luogo elevato in attesa di un astro da annunciare al mondo. Ora che la stella era apparsa, egli poteva morire e andarsene in pace.
“A Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d’Israele;
lo Spirito Santo che era sopra di lui, gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto
il Messia del Signore.
Mosso dunque dallo Spirito, si recò al tempio; e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge,
lo prese tra le braccia e benedisse Dio:
‘Ora lascia, o Signore, che il tuo servo
vada in pace secondo la tua parola;
perché i miei occhi han visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli,
luce per illuminare le genti
e gloria del tuo popolo Israele’”. – Lc 2:25-32.
Simeone benedice poi i genitori di Yeshùa e profetizza che la missione del bambino è quella di separare i giusti dai cattivi, di essere causa di rovina e di resurrezione: “Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: ‘Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima’” (Lc 2:34,35). Simeone usa tre paragoni che si richiamano a tre immagini comuni: 1. La pietra di fondamento (“per la rovina e la resurrezione”; “è posto per la caduta e il risorgere di molti in Israele”, TNM); 2. Il vessillo (“segno”); 3. La spada.
La pietra migliore era allora posta agli angoli di una casa dove due muri si connettevano e dove era di conseguenza necessaria maggiore stabilità e consistenza. Tale pietra, che sporgeva a volte dal suolo, poteva divenire causa d’inciampo ma era anche di valido aiuto nella costruzione. Già il salmista aveva parlato di “pietra scartata dai costruttori” che “è divenuta testata d’angolo” (Sl 118:22). Non basta tuttavia avere una pietra d’angolo per costruire come si deve: occorre anche usarla bene e non male. L’effetto buono (la salvezza) o cattivo (la rovina) della pietra viene attribuito non alla pietra in se stessa ma alla responsabilità di chi ne fa uso: “Hanno urtato così contro la pietra d’inciampo, come sta scritto: Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo e un sasso d’inciampo; ma chi crede in lui non sarà deluso”. – Rm 9:32,33.
Il vessillo poteva essere innalzato per segnalare un pericolo oppure per annunciare un avvenimento straordinario che interessava la cittadinanza. Anche Yeshùa fu “innalzato” (Gv 3:14). C’è chi lo interpreta bene e chi come disgrazia: “Segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori”. Yeshùa, quale segno innalzato svelerà i pensieri reconditi nell’animo di molti. Nelle Scritture Greche i “pensieri” sono connessi con qualcosa di malvagio; non sono pensieri buoni ma intenti cattivi.
La spada è il terzo simbolo usato da Simeone e spezza la progressione del discorso: Yeshùa come pietra, come segno … poi, di colpo, la spada. A chi si riferisce la frase riguardante la spada? A Miryàm o ad Israele? Sembrerebbe una domanda senza senso, ma dato che alcuni studiosi hanno pensato di applicare la spada ad Israele è bene verificare questa interpretazione per poterla poi escludere con motivo. L’idea è sorta in tali studiosi leggendo Ez 14:17: “Se io mandassi la spada contro quel paese e dicessi: Spada, percorri quel paese” ed essi, con fantasia, hanno pensato che Miryàm simboleggi il popolo ebraico trafitto simbolicamente da una spada. Secondo loro, la vera Israele (quella che ha accolto Yeshùa), soffrirebbe per l’oppressione dei molti che non hanno accettato Yeshùa come messia. Questa sarebbe la spada. Tali studiosi si spingono oltre e – per costruire un paragone – sono costretti a trasformare la malattia fisica di Paolo (“una spina nella carne”, 2Cor 12:7) in una sofferenza spirituale causatagli dai connazionali dell’apostolo che non accettavano Yeshùa. Per respingere queste fantasiose ipotesi è sufficiente leggere il testo nel suo contesto: Simeone sta parlando a Giuseppe e a Miryàm lì presenti. Una metafora sarebbe davvero strana. E poi, Simeone dice “a te” (Lc 2:35), riferendosi alla donna che gli stava di fronte e che aveva appena finito la sua purificazione. Se comunque si vuole fare una più approfondita esegesi del passo, si deve dire che la citazione da Ez non ha il senso che si vorrebbe darle in Lc. Per la colpevolezza di Israele – dice Ez – neppure i tre grandi giusti dell’antichità (Noè, Daniele Giobbe) potrebbero trattenere la spada dal trafiggere gli israeliti (Ez 14:14). Come si vede, spesso le idee preconcette fuorviano anche gli studiosi.
La spada va riferita al cuore personale di Miryàm. Ma che senso avevano le parole di Simeone riportate da Luca? Non certo il senso dato in ambito cattolico, secondo cui verrebbe profetizzata la sofferenza di Miryàm con Yeshùa e quindi la sua corredenzione. Tale idea, tutta e solo cattolica, risale a Paolino da Nola e ad Agostino; fu molto diffusa nel medioevo con questa formula: “Durante la passione di Gesù, Maria soffrì con lui i dolori della passione, poiché in quel momento una spada le trapassò la sua stessa anima. In tal modo ella fu associata alla passione, lo aiutò nella redenzione e divenne madre di una nuova nascita” (Alberto Magno, Quaestiones super Evangelium, 29). Biblicamente le cose non stanno così. Il contesto non parla delle sofferenze di Yeshùa, ma della sua presentazione al Tempio. Parla della crisi che egli porterà nell’umanità, crisi che paleserà i pensieri malvagi delle persone. Ci sarà chi lo accoglierà e chi lo respingerà. La croce o palo su cui Yeshùa morirà non è il mezzo che serve per svelare i pensieri umani, ma è la conseguenza dell’atteggiamento preso nei riguardi di Yeshùa. Sempre Yeshùa è presentato come mezzo di separazione tra credenti e non credenti (Gv 3:17-21;2:11;8:12;9:38,39; 1Gv 3:10; Lc 12:51) e di divisione tra i membri di una stessa famiglia (Gv 3:19). Inoltre va ricordato che il dolore mentale per noi occidentali si soffre nel cuore, ma per gli ebrei si soffriva nelle viscere. Per gli ebrei il cuore non è la sede dei sentimenti e dell’affetto (come per gli occidentali), ma la sede dei pensieri. Quindi il dolore di Miryàm accanto a Yeshùa morente non ha nulla a che vedere in questo contesto. Un testo semitico non va mai inteso alla maniera occidentale: questo è un errore grave che pregiudica la comprensione della Bibbia. Che si tratti di pensieri risulta anche dal fatto che l’espressione è inclusa in un brano che tratta dei pensieri, che per di più sono malvagi. Sembra quindi del tutto scritturalmente logico che la spada abbia a che fare con i pensieri di Miryàm che ella metterà a nudo. La spada è qui quella “spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l’anima dallo spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4:12). Questa spada è dominio di Yeshùa che è un cavaliere dalla cui bocca essa esce: “Dalla sua bocca usciva una spada a due tagli, affilata. […] Colui che ha la spada affilata a due tagli. […] Combatterò contro di loro con la spada della mia bocca. […] Dalla bocca gli usciva una spada affilata. […] Il rimanente fu ucciso con la spada che usciva dalla bocca di colui che era sul cavallo” (Ap 1:16;2:12,16;19:15,21). Tale spada va identificata con la parola di Dio: “Era vestito di una veste tinta di sangue e il suo nome è la Parola di Dio” (Ap 19:13); “La parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio” (Eb 4:13). Questa parola svela le realtà umane occulte:
“La parola di Dio è vivente ed esercita potenza ed è più tagliente di qualsiasi spada a due tagli e penetra fino alla divisione dell’anima e dello spirito, e delle giunture e del [loro] midollo, e può discernere i pensieri e le intenzioni del cuore. E non c’è creazione che non sia manifesta alla sua vista, ma tutte le cose sono nude e apertamente esposte agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto”. – Eb 4:12,13, TNM.
Anche Miryàm durante la vita di Yeshùa dovette soffrire dei dubbi: suo figlio era veramente il consacrato, il messia? Come mai agiva così diversamente da quello che l’angelo aveva profetizzato annunciandogli il trono di Davide? Come mai subiva tanta opposizione e non era accolto dal popolo degli ebrei? Come mai non liberava Israele dai romani (secondo la concezione allora diffusa che gli stessi apostoli mantenevano nonostante gli anni in compagnia di Yeshùa – At 1:6)? Era stato davvero Dio a mandare quell’angelo? I Vangeli ci mostrano molti episodi d’incomprensione da parte di Miryàm. Lei non comprende il comportamento del figlio dodicenne (Lc 2:50); va con gli altri suoi figli a prendere Yeshùa mentre predica, perché non lo capiscono (Mr 3:21,31,sgg.); la sua famiglia lo ritiene “fuori di sé” (Mr 3:21); Yeshùa stesso si lamenta perché un profeta non è onorato nella sua casa (Gv 7:5) e perché i suoi peggiori nemici sono proprio quelli di casa sua. – Mt 10:36.
La Bibbia dice chiaramente che “neppure i suoi fratelli credevano in lui” (Gv 7:5). Miryàm per quanto tempo non si scostò dai fratelli di Yeshùa? Dai dati precedenti e dal silenzio su di lei durante tutta la predicazione di Yeshùa pare che ella non armonizzasse troppo con lui. O almeno aveva dei dubbi angosciosi circa l’attività del figlio.
Anna era una profetessa, figlia di Famule di Aser, che rimasta vedova dopo soli sette anni di matrimonio, si era dedicata ai lavori del Tempio sino a raggiungere la bella età di 84 anni (Lc 2:36,37). Alla presenza di Yeshùa ella si mise a lodare Dio e ad elogiare il bimbo destinato a liberare Israele. – V. 38.
Si noti la meraviglia di Giuseppe e di Miryàm al sentire tutte quelle magnificenze che si dicevano del loro bimbo: “Il padre e la madre di Gesù restavano meravigliati delle cose che si dicevano di lui”. – V. 33.
Da tutti questi racconti appare come Luca metta in risalto la funzione salvifica di Yeshùa: egli si attornia di peccatori, è sottomesso a tutte le leggi mosaiche, nasce come tutti gli altri (tanto che Miryàm ha bisogno di purificazione). Gli umili, mossi dallo spirito santo di Dio, vedono nel piccolo il salvatore, il redentore di Israele. I sacerdoti e i maestri non lo riconosceranno come tale. Ma è lì, proprio a Gerusalemme, nel Tempio, a casa del Padre, che per bocca di Simeone ispirato Dio è presentata al mondo la futura missione salvifica e redentrice di questo bimbo prodigio.