Il primo miracolo di Yeshùa, compiuto durante un banchetto nuziale, consistette nel trasformare l’acqua delle anfore per i lavacri in ottimo vino. Ecco alcuni problemi:

  1. “Il terzo giorno” dopo il colloquio con Natanaele (Gv 1:45), Yeshùa con i discepoli partecipò ad un banchetto nuziale: “Il terzo giorno ebbe luogo a Cana di Galilea una festa nuziale, e la madre di Gesù era là. Gesù e i suoi discepoli furono pure invitati alla festa nuziale” (Gv 2:1,2, TNM). Si tratta del terzo giorno dopo il colloquio con Natanaele? Così sembrerebbe dal testo. Ma il lettore occidentale non sempre sa leggere bene. Il greco ha τῇ ἡμέρᾳ τῇ τρίτῃ (te emèra te trìte); “nel giorno nel terzo”, letteralmente. “Nel terzo giorno” è certamente la traduzione giusta, ma di quale terzo giorno si tratta? Si tratta del terzo giorno della settimana, il nostro martedì. In ebraico i giorni della settimana sono detti “primo giorno”, “secondo giorno” e così via fino al “sesto giorno” (nostro venerdì), poi segue lo shabàt (sabato) che chiude la settimana. Anche oggi, nell’ebraico moderno, si dice beyòm shlishì (ביום שלישי; “nel giorno terzo”) per indicare il nostro martedì. Il martedì è presso gli ebrei il giorno tradizionalmente indicato per le nozze.
  2. “Ebbe luogo a Cana di Galilea”. È incerto se questa Cana di Galilea debba identificarsi con Kefer Kenna posta a circa 9 km a nord-est di Nazaret dove oggi esiste un santuario, oppure con le rovine di Khirbet Qanà un po’ più a nord-ovest della precedente. Pare si debba propendere per questa seconda soluzione (G. Ravini, Le nozze di Cana, pag. 15 e sgg.). Khirbet Qanà è a circa 13 km a nord di Nazaret. Qui si trovano le rovine di un antico villaggio su una collina situata al limitare della pianura di Asochis, attualmente chiamata el-Battuf (Biqàt Bet Netofa). Le canne abbondano in una vicina pianura acquitrinosa, cosa che renderebbe molto appropriato il nome Cana. In arabo è ancor oggi chiamata Qana el-Jelil, cioè Cana di Galilea. Giuseppe Flavio, storico ebreo del 1° secolo E. V., dice di aver risieduto “in un villaggio della Galilea chiamato Cana” e successivamente menziona “la grande pianura, detta pianura di Asochis, dove abitavo” (Vita, 86 [16]; 207 [41]). Anche questa testimonianza accredita l’identificazione di Cana di Galilea col sito di Khirbet Qanà, piuttosto che con Kefer Kenna. Anche se a Khirbet Qanà non c’è nessuna fonte, le rovine rivelano i resti di antiche cisterne; si ha anche notizia del ritrovamento in loco di frammenti di vasi di terracotta e monete che vengono fatte risalire al 1° secolo E. V..
  3. Idre. “C’erano sei recipienti di pietra per l’acqua posti là come esigevano le regole della purificazione dei giudei” (Gv 2:6, TNM). Questi recipienti “contenevano ciascuno due o tre misure” (v. 6). Queste “misure” sono nel testo greco μετρητὰς (metretàs), che indica una misura di 39 litri. Quindi ogni idra poteva contenere circa 80 o 120 litri ciascuna, il che dà un totale di circa 4 ettolitri e mezzo di vino (6 x 80 l = 480 l). La mancanza di vino si spiega con la durata della festa nuziale (una settimana) cui, secondo l’uso, ognuno poteva partecipare. L’arrivo di Yeshùa con la madre e i suoi discepoli accresceva ancora di più il numero dei convitati.
  4. Miryàm, presente non solo come semplice invitata, ma per sorvegliare l’andamento del pranzo (come si deduce dal suo atteggiamento), si accorge per prima della mancanza di vino e ne parla con Yeshùa. La risposta del figlio: “Che c’è fra me e te, o donna? L’ora mia non è ancora venuta” (v. 4), ha dato origine a numerose spiegazioni. Pur sembrando a prima vista una repulsa, non è però considerata così da Miryàm che fiduciosa dice ai servitori di fare quanto Yeshùa dice. Vediamo, comunque, alcune interpretazioni. Grimm e Schäfer (Th. Q. 38,1885,765) l’intendono con il fatto che sebbene l’ora di compiere miracoli per Yeshùa sia a Gerusalemme, egli la anticipi per la madre. Un simile atteggiamento accade anche per la cananea, quando Yeshùa esprime il principio generale di essere inviato solo per gli israeliti ma poi per la fede della donna ne guarisce la figlia (Mr 7:26-30). Altri autori (come P. Michaud), partendo dal successivo comportamento di Miryàm, sostengono che la risposta di Yeshùa deve essere stata affermativa. Miryàm dice, infatti, ai servitori: “Fate tutto quel che vi dirà” (v. 5). L’espressione “Che c’è fra me e te, o donna?” (v. 4) potrebbe avere anche un valore di consenso secondo il tono della voce. Si vorrebbe dare alla frase di Yeshùa “l’ora mia non è ancora venuta” (v. 4) un senso ebraico. Anche se in greco c’è un chiaro senso negativo (οὔπω, ùpo, “non ancora”), potrebbe essere la traduzione letterale di un modo di dire ebraico quando si attende una risposta positiva; la frase equivarrebbe a: ‘Non per niente è venuta la mia ora’. La parola “donna” (γύναι, gΰnai) starebbe per “signora” come segno di stima da parte del figlio verso la madre (J. Pane Michaud, Le signe de Cana dans son contexte johannique, Analys-Synthèx, Montreal, Editions Mont Fortaines). Questa è però una speculazione bella e buona dettata dalla devozione verso “Maria” e dal desiderio di presentarla come mediatrice di grazia. Il senso più ovvio e più corrispondente al substrato ebraico sottostante alle frasi è proprio quello di una ripulsa data da Yeshùa a Miryàm. C’è anche chi vi vede una forma interrogativa, come se Yeshùa avesse detto: ‘Forse che la mia ora non è ancora venuta?’, intendendo poi: ‘Certo che sì’. È la tesi di M. E. Boiemard (RB 1965, pag. 624). Ma è possibile dare una forma interrogativa a questa frase che indica logicamente una pura e semplice negazione? È il debole di questa ipotesi filologicamente non suffragata. Va trovata una nuova soluzione. Vediamola. L’“ora” di Yeshùa è nel Vangelo di Giovanni quella della sua morte e glorificazione, concetti che in Gv sono riuniti. L’“ora” di Yeshùa, in Gv, ha questo senso preciso: “Cercavano perciò di arrestarlo, ma nessuno gli mise le mani addosso, perché l’ora sua non era ancora venuta” (7:30), “Nessuno lo arrestò, perché l’ora sua non era ancora venuta” (8:20), “L’ora è venuta, che il Figlio dell’uomo dev’essere glorificato” (12:23), “Alzati gli occhi al cielo, disse: ‘Padre, l’ora è venuta; glorifica tuo Figlio’” (17:1). Questo significato preciso dell’“ora” di Yeshùa è presente anche in Mr: “L’ora è venuta: ecco, il Figlio dell’uomo è consegnato nelle mani dei peccatori” (14:41); anche in Mt: “Ecco, l’ora è vicina, e il Figlio dell’uomo è dato nelle mani dei peccatori” (26:45); e anche in Lc: “Questa è l’ora vostra, questa è la potenza delle tenebre” (22:52). È quindi illogico dare un senso diverso a questo vocabolo nel caso delle nozze di Cana. Yeshùa afferma in linea di principio che tra lui e Miryàm non vi sono rapporti figlio-madre per quanto concerne la sua missione. Egli, come “figlio di Dio” deve compiere esclusivamente la volontà del Padre (Gv 4:34). Tuttavia, egli non è ancora salito alla gloria, come avverrà nella sua “ora”, per cui al momento (mentre è ancora sulla terra) può anche ascoltare i desideri della madre. Quell’ùpo greco (οὔπω) non significa necessariamente “non ancora” nel senso di un “no” secco; può significare: però, tuttavia, non ancora. Il senso sarebbe quindi: Tuttavia, non è ancora arrivata la mia ora, per cui sono ancora legato a te con vincoli filiali, e posso accontentarti. Si noti che Giovanni è l’unico evangelista che fa iniziare la vita pubblica di Yeshùa con la madre e che la fa culminare con l’addio di Yeshùa alla madre che affida proprio a lui, Giovanni, il “discepolo amato”. Sul Calvario si attua di conseguenza quanto è qui prefigurato. Dopo aver lasciato tutto, perfino la propria madre, Yeshùa sale al Padre (Gv 20:17). Ormai i vincoli familiari più non contano, nemmeno quelli con sua madre: ormai “tutto è compiuto!”. Nel miracolo di Cana vi è probabilmente una punta polemica contro gli ebioniti (giudei divenuti discepoli di Yeshùa) che davano tanta importanza ai vincoli carnali di Yeshùa con Miryàm. Dopo Giacomo, il fratello carnale di Yeshùa, per tutto il primo secolo si erano andati scegliendo vescovi tra i cugini di Yeshùa. Qui Giovanni sembra dire: Avere vincoli carnali con Yeshùa non conta; se ciò contasse, Miryàm non sarebbe stata affidata a me; per quanto riguarda la missione evangelica i vincoli carnali non contano, tanto che Yeshùa disse alla madre che in quel senso non c’era nulla tra lei e lui. Anche se il termine “donna” non è certo in sé segno di disprezzo, in bocca ad un figlio segna un distacco; ciò conferma il fatto che non vi sono rapporti tra Yeshùa e la madre che valgano nel campo della missione di Yeshùa. Miryàm comprende bene quanto Yeshùa voleva dirle, infatti – dopo quel momento – si ritira e non la si vede più nella vita pubblica di Yeshùa (a parte l’incidente di Mr 3:21,31 in cui si presenta per allontanare Yeshùa!), mentre altre donne seguono il maestro facendosi sue discepole. Miryàm apparirà nuovamente nell’“ora” di Yeshùa, ai piedi della croce. È comprendendo tutto questo che Miryàm, alle nozze di Cana, dice ai servi: “Fate tutto quel che vi dirà”. Ella sapeva che l’ora del distacco non era ancora giunta. C’è qui, nel racconto giovanneo, una psicologia finissima. Occorre essere capaci di immedesimarsi per coglierla. Lei, la madre, trova naturale rivolgersi al figlio: non hanno più vino. Lui dice quello che dice: è sua madre, ma in quanto alla sua missione ciò non conta; tuttavia la sua ora gloriosa non è ancora venuta e rimane pur sempre suo figlio. Lei accusa il colpo e si ritirerà per sempre da lui, finché, vedendolo morente, la mamma avrà di nuovo il sopravvento. Ma intanto, accusando il colpo, è pur sempre la madre e mantiene la sua dignità: “Fate tutto quel che vi dirà”. Sembra dire: voi fatelo, per il resto è cosa mia. Ma c’è di più. Ignorando la repulsa del figlio, dicendo ai servi che devono attenersi a quanto dirà lui, e dicendolo davanti a lui, in un certo senso lo obbliga a provvedere. È l’atteggiamento dignitoso di una madre che mantiene la sua autorità materna.
  5.  Il vino presentato all’architriclino (a colui, cioè, che presiedeva alle portate e doveva per primo assaggiare i cibi e le bevande; v. 8: “Il maestro di tavola”, “il direttore del banchetto” per TNM) fu trovato dei migliori. Egli dice: “Ognuno serve prima il vino buono; e quando si è bevuto abbondantemente, il meno buono; tu, invece, hai tenuto il vino buono fino ad ora” (v. 10). È difficile trovare dei paralleli a questa affermazione. Nel Talmud si trova che, per allontanare da casa un ospite dimentico di andarsene, si deve trattarlo sempre meno bene, fino a quando finisce per stancarsi; gli si deve dare dapprima gli uccelli, poi in manzo e infine pesce, e da ultimo i legumi. È ormai da un secolo che è stato scoperto il frammento 344 di Teopompo (ZNW 14,1913, 249) dove si narra di una donna che gestisce un’osteria: all’inizio dà un vino buonissimo e riceve molto denaro; poi, quando il vino comincia a fare il suo effetto, ne offre un altro con un sapore che tende all’aceto. Così, continua Teopompo, hanno fatto gli spartani: all’inizio fecero molte promesse, ricevettero il denaro, ma in seguito agirono ben diversamente.
  6. Questo fu il primo miracolo di Yeshùa. Dunque gli apocrifi riguardanti la prima infanzia di Yeshùa (in cui si narrano tanti suoi miracoli da bambino) sono falsi. Con questo Yeshùa manifestò la sua gloria, ovvero la potenza ricevuta da Dio con cui si compiono i prodigi. Questa gloria divina è qui presentata come dimorante in Yeshùa. Dalla presenza di Yeshùa al banchetto di Cana si vede come egli non seguisse il rigorismo del battezzatore: va ad un pranzo nuziale, dona il vino e ne beve: “Difatti è venuto Giovanni il battista che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: ‘Ha un demonio’. È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: ‘Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori!’” (Lc 7:33,34). Molto discutibile è il rapporto che alcuni studiosi vogliono vedere a forza con l’eucaristia. Il contatto è minimo: viene menzionato solo il vino senza il pane, e il contesto non consente accostamenti.

   Miracolo di Cana e increduli. Alcuni studiosi vi riconoscono un fatto reale che cercano però di spiegare naturalmente. Si è ricorso all’essenza di vino (sapore, odore, gusto del vino) introdotta di nascosto nelle idre; ma esisteva a quel tempo un’essenza simile? E, in tale caso assurdo, come giudicare quella presunta essenza quale vino migliore? Si è persino pensato ad una suggestione creata da Yeshùa come in una moderna seduta illusionistica: i commensali avrebbero bevuto acqua credendo di gustare un vino delizioso. Qualcun altro ha ipotizzato uno scherzo: vino messo di nascosto nelle idre; i commensali credono ci sia acqua e invece ci sarebbe stato il regalo di nozze portato da Yeshùa quale sorpresa. Si tratta di assurdità. E stupisce che siano degli studiosi a proporle.

   Altri studiosi vi vedono un mito: gli dèi pagani trasformavano talvolta l’acqua in vino. Il console Muciano affermò che nell’isola di Aniro, nel tempio di Bacco, al 5 gennaio (“nonis januarii”) sgorgava dal terreno una fonte con bevanda dal gusto di vino (“Fontem vini sapore fluire” ; Plinio, Hist. Nat. 2,106,11). Epifanio disse di aver bevuto da una simile fonte nella Licia: tutti i fiumi si sarebbero mutati in vino. Secondo questi studiosi, questo mito sarebbe poi stato applicato a Yeshùa e riferito al 6 gennaio (Epifania, cfr. Epifanio, Haer. 51,22,5,11). Con il miracolo di Cana – concludono tali cosiddetti studiosi – si sarebbe voluto mostrare che Yeshùa era superiore agli dèi pagani. L’obiezione che facciamo è: ma questi racconti mitici erano noti agli evangelisti? Poi, il rapporto tra loro è lontano: qui non si tratta di fiumi, ma solo dell’acqua contenuta in sei anfore.

   Altri studiosi ancora parlano di simbolismo. L’insegnamento di Yeshùa e la sua stessa persona sarebbero il “vino nuovo” destinato ad eliminare l’ebraismo delle sinagoghe. Miryàm biasimata sarebbe l’antica Israele. E vi sarebbe anche un’allusione all’eucaristia. Ma dobbiamo obiettare che non vi è proprio nessun indizio nel racconto per intendere Miryàm come figura della sinagoga ebraica. Al massimo si potrebbe dire che le abluzioni legali ebraiche sono rese inutili dal sangue (simboleggiato dal vino) di Yeshùa che purifica per sempre le persone. Le parole dell’architriclino (“Il vino buono fino ad ora”) prefigurerebbero la morte di Yeshùa e il suo sangue dato per l’umanità, che è migliore di tutte le purificazioni precedenti: “Con quei sacrifici, che sono offerti continuamente, anno dopo anno, essa non può rendere perfetti coloro che si avvicinano a Dio. Altrimenti non si sarebbe forse cessato di offrirli, se coloro che rendono il culto, una volta purificati, avessero sentito la loro coscienza sgravata dai peccati? Invece in quei sacrifici viene rinnovato ogni anno il ricordo dei peccati; perché è impossibile che il sangue di tori e di capri tolga i peccati” (Eb 10:1-4). Va però notato che per un semita il simbolismo è inteso in modo diverso da noi. Per un semita il simbolismo non crea un fatto, ma lo presuppone. Il semita scopre e mette in luce il simbolismo da un fatto già esistente. Tolto il fatto, mancherebbe il simbolismo. Lo scrittore biblico ha bisogno dei fatti, perché senza di essi non potrebbe vederne la realtà autentica. L’ebreo biblico vede poi dei simboli in tutta la realtà storica; mentre con gli occhi la vede e con gli orecchi la sente, con la mente e con lo sguardo della fede vi vede una realtà più profonda che conferisce il vero significato ai fatti. Il mondo terreno, per l’ebreo biblico, è tutto una specie di simbolo che addita una realtà più profonda. La Palestina e Gerusalemme e il Tempio per lui non sono altro che immagini di una realtà superiore: la Palestina celeste, la Gerusalemme celeste e il Tempio del cielo. Allora sì che qui il banchetto di Cana con il vino prezioso donato da Yeshùa è simbolo del banchetto celeste e del sangue purificatore sparso da Yeshùa per la salvezza dell’umanità. Ma tutto questo non elimina, anzi presuppone, il fatto storico.