Altre malattie

 

   La donna emorragica (Mr 5:21-34; Mt 9:20-22; Lc 8:43-48). Questo episodio è incluso nel racconto che descrive la resurrezione della figlia di Giairo, perché avvenne durante il tragitto verso la casa di quel capo della sinagoga. Per le vie tortuose e strette del villaggio, mentre la folla premeva Yeshùa da ogni parte, una donna afflitta da perdite di sangue ne approfittò per accostarsi a lui e toccarlo, nella speranza di ottenere la guarigione.

   Si trattava di una metrorragia (descritta in Lc 15:25-30) proveniente dagli organi genitali: ἡ πηγὴ τοῦ αἵματος αὐτῆς (e peghè tu àimatos autès; letteralmente: “la fonte del sangue di lei”; “la fonte del suo sangue”, Mr 5:29, TNM; “Flusso del suo sangue”, Lv 12:7). Secondo la legge biblica questa perdita di sangue era causa di una gravissima impurità che si trasmetteva a cose e persone con cui la donna entrava in contatto: “La donna che avrà un flusso di sangue per parecchi giorni, fuori del tempo delle sue mestruazioni, o che avrà questo flusso oltre il tempo delle sue mestruazioni, sarà impura per tutto il tempo del flusso, come durante le sue mestruazioni. Ogni letto sul quale si coricherà durante tutto il tempo del suo flusso sarà per lei come il letto sul quale si corica quando ha le sue mestruazioni; ogni mobile sul quale si sederà sarà impuro, come l’impurità delle sue mestruazioni. Chiunque toccherà quelle cose sarà immondo; si laverà le vesti, laverà sé stesso nell’acqua e sarà impuro fino a sera”. – Lv 15:25-27.

   Date queste restrizioni, si comprende perché la donna agì in modo circospetto. E si comprende anche la sua vergogna nel rendere pubblico l’accaduto:

“La folla faceva ressa intorno a lui. Una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni [e aveva speso tutti i suoi beni con i medici] senza poter essere guarita da nessuno, si avvicinò di dietro e gli toccò il lembo della veste; e in quell’istante il suo flusso ristagnò. E Gesù domandò: ‘Chi mi ha toccato?’. E siccome tutti negavano, Pietro e quelli che erano con lui risposero: ‘Maestro, la folla ti stringe e ti preme’. Ma Gesù replicò: ‘Qualcuno mi ha toccato, perché ho sentito che una potenza è uscita da me’. La donna, vedendo che non era rimasta inosservata, venne tutta tremante e, gettatasi ai suoi piedi, dichiarò, in presenza di tutto il popolo, per quale motivo lo aveva toccato e come era stata guarita in un istante”. – Lc 8:42-47.

   La donna “toccò la veste” di Yeshùa (Mr 5:27) o meglio “il lembo della veste” di Yeshùa (v. 44; Mt 9:22): τοῦ κρασπέδου τοῦ ἱματίου (tu kraspèdu tu imatìu), “il fiocco [la frangia] dell’abito”. L’imàtion, tradotto “veste” da NR e “mantello” da TNM, era la pezza quadrata e variamente drappeggiata che si portava sopra la tunica. Il kràspedon è una parola usata anche in Mt 23:5 per indicare i quattro fiocchi (o nappe) posti ai quattro angoli del mantello (imàtion): “Tutte le loro opere le fanno [gli scribi e i farisei] per essere osservati dagli uomini; infatti allargano le loro filatterie e allungano le frange dei mantelli”.

   Yeshùa vestiva questo mantello ebraico secondo le disposizioni di Nm 15:38,39:

“Parla ai figli d’Israele e di’ loro che si facciano, di generazione in generazione, delle nappe agli angoli delle loro vesti, e che mettano alla nappa di ogni angolo un cordone violetto. Questa nappa vi ornerà la veste, e quando la guarderete, vi ricorderete di tutti i comandamenti del Signore per metterli in pratica”.

   Questi quattro fiocchi o nappe erano formati da tre fili bianchi legati assieme da un nastro di porpora viola. Questi fiocchi si chiamano in ebraico tzitzìt. TNM traduce, in Lc 8:44, “la frangia del mantello”; ma pare fare confusione su cosa intendere per “frangia”, perché nella nota in calce tenta di spiegare: “O, ‘il bordo; la nappa’”. Bordo e nappa sono cose diverse. In greco kràspedon (κράσπεδον), numero Strong 2899, indica:

1) L’estremità o parte prominente di una cosa, orlo, margine

  1a) la frangia di un indumento

  1b) nel Nuovo Testamento una piccola aggiunta che pende dall’orlo del manto o mantello, fatto di lana torta

  1c) un fiocco, ciuffo: gli ebrei avevano tali aggiunte attaccate ai loro manti per ricordare loro la legge

(Fonte: Vocabolario del Nuovo Testamento).

   Nel caso di Yeshùa, ebreo praticante, è ovvio che si tratta dei significati 1c e 1b. Tra l’altro, un bordo od orlo sarebbe stato ben difficile da raggiungere da parte della donna. I quattro fiocchi invece erano discretamente lunghi ed erano le parti più significative dell’abito. In Mt 14:36 si ha: “Lo supplicavano di poter toccare solo la frangia del suo mantello” (TNM); in Mr 6:56 si ha: “Lo supplicavano perché potessero toccare almeno la frangia del suo mantello” (TNM). Nel passo in questione (Lc 8:44) la Volgata traduce: “Fimbriam vestimenti eius” (“La frangia del suo vestito”). Si noti come questa precisazione giudaica si trovi in Mt e Lc, nonostante la sua laconicità, mentre manca nella narrazione in Mr. I lettori di Marco non dovevano essere al corrente di tali particolari, per cui egli li omette. Potrebbe essere un suggerimento anche per i traduttori moderni delle Scritture? Sì, se le loro traduzioni sono destinate alla lettura di un pubblico generico, per cui si debba guardare più alla sostanza che ai particolari. No, se le loro traduzioni sono destinate al serio studioso della Scrittura.

   Il modo di agire della donna è di stile prettamente popolare: a quel tempo si credeva che una potente personalità potesse operare anche attraverso oggetti che erano venuti a contatto con il suo corpo o anche attraverso la sua ombra, quasi si trattasse di un’estensione della sua persona. Si veda At 5:15;19:12: “Portavano perfino i malati nelle piazze, e li mettevano su lettucci e giacigli, affinché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra ne coprisse qualcuno”; “Si mettevano sopra i malati dei fazzoletti e dei grembiuli che erano stati sul suo corpo [di Paolo]”.

   Il richiamo che fa Yeshùa è importante: “Chi mi ha toccato? […] La tua fede ti ha salvata; va’ in pace  (Lc 8:45,48). Yeshùa vuol far notare che non fu un gesto magico a guarirla, ma la sua fede. Molti toccavano Yeshùa: “La folla faceva ressa intorno a lui”, “La folla ti stringe e ti preme” (vv. 42 e 45), ma solo lei ottiene un aiuto. Per la sua fede.

   Marco, da buon popolano e poco amante dei medici, nota non solo che nessun medico l’aveva potuta guarire e non solo che aveva speso tutto in inutili cure, ma che anzi era andata sempre più peggiorando: “Molto aveva sofferto da molti medici, e aveva speso tutto ciò che possedeva senza nessun giovamento, anzi era piuttosto peggiorata” (5:26). Luca, che era medico, sminuisce l’amaro commento marciano: “Non aveva potuto essere guarita da nessuno” (8:43, TNM). Si notino le differenze:

Marco

Luca (medico)

Da molti medici era stata sottoposta a molte pene”

“Non aveva potuto essere guarita da nessuno

“aveva speso tutte le sue risorse e non ne aveva ricevuto nessun beneficio”

“ma, anzi, era peggiorata”

(TNM)

   Questa donna emorroissa è stata oggetto di leggende nel corso dei secoli. Secondo Eusebio, ella sarebbe stata una pagana vivente a Paneas (Cesarea di Filippi) presso la sorgente del fiume Giordano (Eusebio, Storia Ecclesiastica 7,17 PG 20,680). I Vangeli apocrifi le assegnano anche un nome: Berenice (Vangelo di Nicodemo 7). Questo nome in latino divenne Veronica. Origène riferisce che lei avrebbe preso parte al processo tenuto presso Pilato contro Yeshùa: “Una donna di nome Berenice gridando da lontano disse: ‘Ero sofferente di perdite di sangue e toccai la frangia del suo vestito e subito cessò il flusso che durava da dodici anni’” (Origène, Contra Celsum 6,35,35). Questa leggenda si complicò nel 5° secolo, per cui la Berenice/Veronica divenne una principessa. E qui nasce la leggenda del volto di Yeshùa. Secondo il codice di Vienna (Vindobonense 315) Yeshùa avrebbe chiesto prima dell’acqua per lavarsi il volto e poi un telo per asciugarsi, lasciandovi impressa la sua immagine. Secondo l’autore della Lettera a Teofilo (altro apocrifo), Yeshùa si sarebbe invece asciugato il sudore. Secondo lo Pseudo-Costantino si sarebbe asciugato il proprio sangue. Ovviamente, la donna creata dalla leggenda divenne “Santa Veronica”. L’immagine si trovava a Roma (una copia, forse del 14° secolo, è presente a Ginevra). Fu poi portata in Abruzzo dove papa Benedetto XVI durante una sua visita nel 2006 non disse nulla sull’autenticità della reliquia. Veronica, ricordata in una delle stazioni della Via Crucis cattolica (VI stazione), avrebbe asciugato il volto di Yeshùa mentre era condotto al Calvario. Secondo lo studioso Mâle il velo risale al 15° secolo e fu creato per una sacra rappresentazione. Secondo lo studioso Perdrizet avrebbe avuto origine nel culto della passione a Parigi. Quest’ultima ipotesi è la più probabile, anche se non la più sicura.- An. Boll. 1963, pag. 145; Dict. Th. Cath. I cap. 71.

   Idropico (Lc 14:1-6). Invitato a cena da un capo fariseo (quindi probabilmente in Giudea, dove i farisei erano più numerosi), Yeshùa si reca al banchetto pur essendo in giorno di shabàt (sabato). Si trattava di un pranzo freddo, preparato il giorno prima, perché era assolutamente proibito accendere il fuoco per cucinare di sabato. Proprio per questo, il giorno precedente lo shabàt o sabato (il nostro venerdì) era detto “preparazione”. In greco è παρασκευή, paraskeuè: “La Preparazione [παρασκευή (paraskeuè)], cioè la vigilia del sabato”. – Mr 15:42.

   Yeshùa va dunque a cena da questo capo fariseo. Molti altri farisei erano presenti e tutti “lo osservavano attentamente” (v. 1, TNM). “Lo osservavano attentamente” è una traduzione debole che non rende il senso greco. NR, un po’ meglio, ha: “Lo stavano osservando”. Il greco implica l’osservare attentamente (reso da TNM) insieme a qualcosa in più dello “stavano” (di NR). Il greco ha ἦσαν παρατηρούμενοι αὐτόν (èsan paraterùmenoi autòn): èsan è l’imperfetto (azione continuata nel passato) del verbo essere; paraterùmenoi è il participio del verbo παρατηρέω (paraterèo), numero Strong 3906, che significa “stare accanto a e guardare, guardare assiduamente, osservare attentamente, fare attenzione con gli occhi”; autòn significa “lui”. Letteralmente la traduzione è: “Continuavano a essere guardanti lui”; in italiano corrente: “Continuavano a osservarlo con insistenza”. Insomma, gli tenevano in continuazione gli occhi puntati addosso. Possiamo immaginare la scena: Yeshùa in mezzo a tutti quei farisei che non lo perdono di vista e stanno lì a spiarne ogni gesto e parola.

   L’espressione: “Essi lo stavano osservando, quando si presentò davanti a lui un idropico” (vv. 1,2) fa capire che non si trattava di un tranello tesogli di proposito. Meglio qui TNM: “Ed ecco, davanti a lui c’era un uomo affetto da idropisia [greco ὑδρωπικὸς (ϋdropikòs), “idropico”]”. “Ed ecco” che veniva questo poveruomo … non era una trappola: era andato lì sapendo che c’era Yeshùa. Si noti il termine tecnico usato dal medico Luca: ὑδρωπικὸς (ϋdropikòs), “idropico”. Questo era il termine usato da Ippocrate. È l’unico caso in cui questa malattia ricorre nella Bibbia. Si tratta di una ritenzione di liquidi nei tessuti e di un versamento nelle cavità sierose, che danno al malato un caratteristico aspetto di gonfiezza. Oggi questa malattia è chiamata anasarca o edema generalizzato.

   Per gli ebrei l’ospitalità era indiscussa, perciò chiunque poteva entrare anche nella sala da pranzo senza venirne allontanato. Questo comportamento – che nell’Italia settentrionale sarebbe considerato un grave sgarbo e indice di maleducazione – è tuttora normale nell’Italia meridionale, dove in genere una persona può presentarsi all’ora di pranzo ed essere invitata a partecipare. In Israele l’ospitalità era ancora più sacra: chiunque poteva entrare. Si pensi alla prostituta di cui parla lo stesso Luca: “Una donna che era in quella città, una peccatrice, saputo che egli era a tavola in casa del fariseo, portò un vaso di alabastro pieno di olio profumato”. – 7:37.

   Una cena fredda di sabato, dunque. Yeshùa invitato, tra diversi farisei che lo tengono d’occhio. Un poveruomo tutto gonfio che arriva con la speranza di essere guarito. Yeshùa, per non rompere l’atmosfera tutto sommato cordiale dei suoi ospiti, pone una domanda: “È lecito o no far guarigioni in giorno di sabato?” (v. 3). L’intenzione di Yeshùa non è quella di porre una questione teologica. La sua intenzione è pratica e riguarda il caso pietoso che era lì di fronte a loro. Stando alla prassi ebraica, se fosse stata posta una questione teorica d’interpretazione della Legge, quei “dottori della Legge” e farisei (che facevano parte del partito che si chiamava “i leali di Dio” e che cercava di mettere in pratica la Legge), questi conoscitori della Legge menzionati al v. 3, si sarebbero messi a discutere distinguendo tra le varie casistiche secondo la gravità delle malattie per vedere se l’intervento fosse permesso o meno durante il sabato. Si ammetteva che fosse lecito salvare qualcuno in pericolo di morte imminente. Ma questo non era certo il caso di quell’idropico. Per non urtare il buon senso davanti all’ammalato e per non venire tuttavia meno ai loro princìpi, “essi tacquero” (v. 3; v. 4 in altre versioni). Il testo greco dice ἡσύχασαν  (esΰchasan), al tempo aoristo: “Iniziarono a star zitti”, “Di colpo non dissero più nulla”. Noi diremmo: “Si chiusero nel più assoluto mutismo”.

   Yeshùa, a questo punto, per condannare il loro comportamento, fa una cosa di squisita finezza nella significatività del suo gesto. Non comanda all’ammalato di guarire, non dice qualcosa del tipo: “Sii sanato”. Il dire non sarebbe stato un lavoro. Yeshùa fa: “Egli lo prese per mano” (v. 4). E questo era un lavoro. Di sabato. Poi ne spiega a quei dottori della Legge e a quei farisei la ragione molto semplice: “Chi di voi, se gli cade nel pozzo un figlio o un bue, non lo tira subito fuori in giorno di sabato?” (v. 5). Yeshùa fa notare lo stridente e amaro contrasto tra la prontezza con cui i farisei tutelano i propri interessi, traendo non solo un figlio ma perfino un bue dal fosso, e l’indifferenza con cui giudicano il caso di un ammalato che non ledeva i loro personali interessi. Peccato che TNM non colga questa sottigliezza e traduca semplicemente “Prese [l’uomo], lo sanò e [lo] mandò via”. Non è questione di greco, o – perlomeno – non del tutto. Il testo dice ἐπιλαβόμενος ἰάσατο αὐτὸν καὶ ἀπέλυσεν  (epilabòmenos iasàto autòn kài apèlϋsen), letteralmente: “Prendente con le mani lo guarì e congedò”. Quel participio “prendente” (che in italiano va reso col gerundio “prendendo”) ha il senso di tenerlo con le mani. Il “prese” di TNM non rende il senso, né il greco ha quel tempo. Il fatto di aggiungere “[l’uomo]” fa intendere un gesto non chiaro di senso: che vuol dire che Yeshùa ‘prese l’uomo’? A che scopo prenderlo? Luca dice: “Traendolo con le mani”. Yeshùa fa un gesto: lo prende per le mani. Compie un lavoro: così classificavano i farisei quell’azione. E Yeshùa rimprovera loro proprio questa mancanza di carità. Né dà il tempo a loro di obiettargli che ha trasgredito il sabato perché ha compiuto un lavoro. Li anticipa: “Chi di voi”… “Non lo tira immediatamente fuori in giorno di sabato?” (TNM). Ora non possono più nemmeno obiettare. Se loro di sabato non esitano a trarre un bue dal fosso, che potrebbero mai dire di lui se trae a sé un malato per guarirlo? “Chi di voi […] non lo tira immediatamente fuori in giorno di sabato?” (TNM). Il verbo usato per “tira” è ἀνασπάσει  (anaspàsei), ben più forte di quell’epilabòmenos applicato a Yeshùa. Lui, di sabato, trae per le mani un malato; ma loro, di sabato” tirano un bue, e lo fanno “immediatamente”. “Ed essi non potevano risponder nulla in contrario”. – V. 6.

   Ma la lezione impartita da Yeshùa non finisce qui. “Notando poi come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro” una parabola (v. 7). In verità, non è proprio una parabola; e non è neppure “un’illustrazione” (TNM). Si tratta di un “detto” o “massima”. È vero che il testo greco parla di παραβολήν (parabolèn), ma la parola greca παραβολή (parabolè), numero Strong 3850, significa anche: un detto semplice ed istruttivo, che coinvolge qualche somiglianza o paragone e che ha la forza di un precetto o un’ammonizione, un aforisma, una massima. Corrisponde all’ebraico mashàl. Il “detto” in questione rientra nella categoria della sapienza di Israele relativa al modo di comportarsi a tavola: “Quando ti siedi a mensa con un principe, rifletti bene su chi ti sta davanti; mettiti un coltello alla gola, se tu sei ingordo. Non desiderare i suoi bocconi delicati; sono un cibo ingannatore” (Pr 23:1-3). Queste buone maniere della sapienza ebraica cono descritte anche nel libro sapienziale del Siracide, non ispirato, ma pur sempre facente parte della letteratura ebraica: “Cedi il posto a persona onorata; mio fratello sarà mio ospite, ho bisogno della casa. Tali cose sono dure per un uomo che abbia intelligenza: i rimproveri per l’ospitalità”, “Hai davanti una tavola sontuosa? Non spalancare verso di essa la tua bocca e non dire: ‘Che abbondanza qua sopra’”, “Dove guarda l’ospite, non stendere la mano; non intingere nel piatto insieme con lui. Giudica le esigenze del prossimo dalle tue; e su ogni cosa rifletti. Mangia da uomo ciò che ti è posto innanzi; non masticare con voracità per non renderti odioso. Sii il primo a smettere per educazione, non essere ingordo per non incorrere nel disprezzo. Se siedi tra molti invitati, non essere il primo a stendere la mano” (Siracide 29:27,28;31:12,14-18, CEI). Yeshùa richiamava i presenti proprio con questi detti a loro ben noti:

“’Quando sarai invitato a nozze da qualcuno, non ti mettere a tavola al primo posto, perché può darsi che sia stato invitato da lui qualcuno più importante di te, e chi ha invitato te e lui venga a dirti: Cedi il posto a questo!, e tu debba con tua vergogna andare allora a occupare l’ultimo posto. Ma quando sarai invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, affinché quando verrà colui che ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti quelli che saranno a tavola con te. Poiché chiunque si innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalzato’. Diceva pure a colui che lo aveva invitato: ‘Quando fai un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i vicini ricchi; perché essi potrebbero a loro volta invitare te, e così ti sarebbe reso il contraccambio; ma quando fai un convito, chiama poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato, perché non hanno modo di contraccambiare; infatti il contraccambio ti sarà reso alla risurrezione dei giusti’”. – Lc 14:8-14.

   Febbre. L’episodio riguarda la suocera di Pietro (Mr 1:29-33; Mt 8:14-17; Lc 4:38-41). Dopo la riunione sinagogale di sabato, Pietro si reca con Andrea, Giacomo e Giovanni nella propria casa dove sua suocera giace ammalata e febbricitante. Luca, medico, specifica: “Una gran febbre” (4:38). Yeshùa “la prese per la mano e la fece alzare; la febbre la lasciò” (Mr 1:31). Questa volta nessuno lo rimprovera: la febbre, anzi la “gran febbre”, avrebbe potuto portare la donna in pericolo di morte: la guarigione si sabato era dunque legittima anche per i più intransigenti. Il racconto termina con la donna che “si mise a servirli” (Ibidem). È interessante notare che questo “si mise a servirli” è la forma specifica che i Vangeli usano per la sequela femminile di Yeshùa:

Mr 15:40,41

“Delle donne […] lo seguivano e lo servivano

Lc 8:3 (TNM)

“Molte altre donne, che li servivano

Gv 12:2

“Marta serviva

   Si tratta del verbo διακονέω (diakonèo) – derivato da διάκονος (diàkonos) – “servire”. – Cfr. anche Mr 9:35;10:43-45.

   Yeshùa si mostra ben più libero dei rabbini del suo tempo che non volevano essere serviti a tavola da una donna.

   Matteo ha alcune particolarità: parla di Pietro anziché di Simone; pone i miracoli sugli ammalati di sera dopo il tramonto (come in Mr), quando il sabato era terminato:

Lc 4:40

Mt 8:16

“Al tramontar del sole, tutti quelli che avevano dei sofferenti di varie malattie, li conducevano a lui; ed egli li guariva”

“Venuta la sera, gli presentarono […]”

   Il “venuta la sera” di Mt indica il termine del sabato: “Fattosi sera, quando il sole fu tramontato” (Mr 1:32). Matteo ha anche la particolarità di dire che Yeshùa cacciò gli spiriti demoniaci con “una parola”: “Egli espulse gli spiriti con una parola [greco lògos]” (8:16, TNM; cfr. 8:8). Inoltre, Matteo cita Is 53:4: “Affinché si adempisse quel che fu detto per bocca del profeta Isaia: ‘Egli ha preso le nostre infermità e ha portato le nostre malattie’” (Mt 8:18). Matteo fa un’applicazione un po’ diversa dal senso della profezia isaiana. Isaia parlava del messia che prende su di sé il peccato e la sofferenza espiatrice: “Egli [il messia] era trafitto per la nostra trasgressione; era schiacciato per i nostri errori. Il castigo per la nostra pace fu su di lui, e a causa delle sue ferite c’è stata per noi guarigione” (Is 53:5, TNM). Matteo qui applica la profezia al fatto che Yeshùa prende su di sé le malattie guarendole.

   Figlio del cortigiano (Gv 4:46-54). Si tratta del figlio di un basilikòs (βασιλικὸς, Gv 4:46) o “regio”, tradotto “ufficiale del re” da NR e “servitore del re” da TNM. In pratica, il basilikòs, il “regio”, era un funzionario del re Erode Antipa (il quale, pur non essendo re ma solo tetrarca, probabilmente era detto re). Non sappiamo se il compito di questo funzionario regale fosse civile o militare. Non si descrive neppure la malattia del figlio, che aveva la febbre (v. 52) e “stava per morire” (v. 47). Il racconto è affine a quello del centurione (Mt 8:5-13; Lc 7:1-10), ma ci sono troppe differenze per identificarlo. Qui si tratta di un giudeo biasimato per la sua scarsa fede e che ha un figlio ammalato. Presso i sinottici si tratta di un pagano (centurione), elogiato per la sua fede e che ha un servo malato. Da dove veniva il funzionario regale di cui parla Giovanni? La sua famiglia abitava a Cafarnao, dove appunto si trovava il figlio ammalato: “Vi era un ufficiale del re, il cui figlio era infermo a Capernaum” (v. 46). Il padre però poteva trovarsi a Cana se da Cafarnao era partito di buon mattino per essere a Cana verso mezzogiorno (la strada era in salita). Alle tredici (v. 52) si sentì dire da Yeshùa che il figlio era guarito: “Va’, tuo figlio vive” (v. 50). Non potendo ripartire subito da Cana perché le bestie erano stanche, dovette rimanere a Cana per alcune ore e lasciar così passare il solleone. È un’ipotesi. Tuttavia, poteva anche già trovarsi a Cana con un distaccamento militare e, saputa la condizione disperata del figlio e preparandosi a partire, incontrò Yeshùa. Questa è un’altra ipotesi. La Bibbia dice che “quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detta” (v. 50), per cui poteva aver ritenuto di non affrontare il caldo pomeridiano e rimandare l’ora della partenza. In ogni caso, scendendo da Cana verso Cafarnao, incontra i suoi servi che lo informano che il figlio è guarito (v. 51). E gli confermano anche che il figlio aveva iniziato a star bene proprio nell’ora stessa in cui Yeshùa lo aveva rassicurato. – V. 52.

   Il funzionario era un ebreo. Infatti, qui Yeshùa – contro il suo solito – non crea alcuna difficoltà (cosa che regolarmente fa con non ebrei). Anzi, ne biasima la fede scarsa, altro indizio che egli era ebreo. E gli ripete ciò che lamenta sempre degli ebrei: “Se non vedete segni e miracoli, voi non crederete” (v. 48). Si noti il plurale: “Se non vedete”; con questo plurale Yeshùa esprime una nota generica che trascende in caso individuale. Yeshùa si rivolge però di più alla folla riunitasi lì che al padre addolorato, tant’è vero che questi non replica ma continua con la sua richiesta: “Signore, scendi prima che il mio bambino muoia” (v. 49). Si trattava dunque di ebrei, dei quali – in Mt 12:38 – Yeshùa dice: “Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno”. Yeshùa nel suo rimprovero dice: “Se non vedete segni e miracoli” (v. 48); si tratta dei “segni e prodigi” (sèmeia kài tèrata) che le Scritture Greche abbinano insieme. Il primo vocabolo (sèmeia, “segni”) indica fatti straordinari compiuti per dimostrare una qualche verità, un attributo divino o la messianicità di Yeshùa. Il secondo (tèrata, “prodigi”, tradotto “miracoli”) indica un fatto prodigioso in se stesso, come il famoso “segno dal cielo” che Yeshùa non volle mai compiere.

   Si noti il verbo usato dal funzionario. Nella traduzione italiana non è visibile del tutto, ma nella costruzione greca è significativo. Nella sua prima richiesta (v. 47) si usa l’infinito presente: “Stava per morire”; il presente infinito indica uno stato che può durare a lungo: è morente. Nel secondo invito (v. 49) la richiesta diventa più accorata: si usa l’infinito aoristo; letteralmente è: “Scendi prima che il mio bambino morire [ἀποθανεῖν (apothanèin)]”; l’aoristo indica l’istantaneità dell’azione: può morire di colpo; sarebbe un evento irrimediabile cui, secondo il padre, nessuno potrebbe più rimediare. “Quell’uomo credette” (v. 50): anche qui l’aoristo usato indica la subitaneità dell’azione; non è facilmente traducibile in italiano, dato che sarebbe qualcosa come ‘di colpo credette’, ‘all’istante credette’. Il verbo all’aoristo mostra un’adesione totale e definitiva. Il verbo “se ne andava” (v. 50), all’imperfetto, descrive la normalità del lungo viaggio di ritorno (33 km), in armonia col fatto che aveva creduto davvero. Peccato che le traduzioni non rendano queste sfumature: il “se ne andò” di TNM toglie bruscamente tutta la poesia a quella scena così deliziosamente rassicurante: “se ne andava”, serenamente, convinto della guarigione perché “aveva creduto all’istante” a Yeshùa. Tutta l’urgenza precedente era scomparsa.

   La strada da Cana a Cafarnao (che si trova in riva al mare o lago di Galilea) scende per 33 km e, nelle vicinanze dell’attuale Corno di Hattin, la discesa si fa ripida e faticosa (al tempo doveva esserlo ben più dell’attuale). È per questo che il funzionario chiede a Yeshùa di scendere con lui. – Vv. 47 e 49.

   L’espressione “ieri, all’ora settima [le nostre 13]” (v. 52) può essere stata pronunciata dai servi dopo il calare del sole, poiché con la sera (verso le 18) iniziava già per gli ebrei una nuova giornata. Si può quindi pensare che, lasciato passare il soffocante caldo pomeridiano, tanto i servi come il funzionario siano partiti per incontrarsi poco dopo il calare del sole. Noi diremmo: ‘È guarito oggi pomeriggio’. L’invio dei servi può indicare che il padre fosse assente da casa: gli si manda l’ambasciata forse per non obbligarlo a fare un viaggio inutile. L’“ora settima” corrisponde alle ore 13, iniziando il computo dalle sei del mattino.

   Giovanni sottolinea il fatto che egli credette con tutta la sua famiglia: “Credette lui con tutta la sua casa” (v. 53). Probabilmente si tratta di una famiglia nota ai primi discepoli: forse “Cuza, l’amministratore di Erode” (Lc 8:3) o forse “Manaem, amico d’infanzia di Erode il tetrarca” (At 13:1), entrambi appartenenti alla corte di Erode Antipa.

   Paralitico (Mr 2:1-12; Mt 9:1-8; Lc 5:17-26). Yeshùa si trovava a Cafarnao, probabilmente in casa di Pietro: “Appena usciti dalla sinagoga, andarono con Giacomo e Giovanni in casa di Simone [a Cafarnao, v. 21]” (Mr 1:29). Yeshùa vi si era recato per alloggiarvi, dato che “alcuni giorni dopo entrò di nuovo a Capernaum e si seppe che era a casa” (Mr 2:1, TNM). La gente, saputo che era tornato, lo assediò dentro la casa e nel cortile davanti alla porta: “Si radunò tanta gente che neppure lo spazio davanti alla porta la poteva contenere” (Mr 2:2). Data la ressa, un paralitico viene calato dal tetto per essere presentato a Yeshùa: “Vennero degli uomini portandogli un paralitico, trasportato da quattro. Ma non potendolo portare direttamente da [Gesù; il testo ha “lui”] a causa della folla, tolsero il tetto al di sopra di dove egli era, e praticata un’apertura calarono la branda sulla quale giaceva il paralitico” (vv. 3 e 4, TNM). Il tetto di cui si parla era certamente una terrazza cui si accedeva da una scala esterna. Il particolare lucano “scoperchiarono il tetto” (v. 4) non ci può far conoscere la forma del tetto, perché Luca presenta l’episodio a lettori non palestinesi.

   Come si poté scoperchiare il tetto? Qualcuno ha supposto una copertura a lastre in forma di cupola (del tipo degli igloo), in modo che ogni pietra fosse sovrapposta in modo da sporgere sempre più in avanti rispetto a quella inferiore per coprire gradatamente il vano con una lastra posta in mezzo; le pietre sui muri laterali impediscono a quelle sovrapposte di cadere all’interno; sarebbe bastato ai portatori levare la pietra più alta per potervi calare il paralitico. – L. Flonck, Paralyticus per tectum demissus, 1921, pagg. 30-44; a pag. 42 è riportato il disegno di un tetto simile in una casa scoperta a Meghiddo.

   Di solito, però, si pensa a una terrazza con travi su cui erano poste delle stuoie di canne con sopra terra battuta e ghiaia. Sarebbe stato facile, così, scoperchiare parte del tetto, con l’inconveniente però di far cadere del pietrisco sulle persone sottostanti.

   Il dialogo successivo si svolge con gli scribi, che erano i dottori in legge e i maestri dei farisei (i quali farisei non erano una classe sociale, ma una confraternita religiosa – circa seimila al tempo di Yeshùa – racimolata tra i borghesi: esercenti, piccoli proprietari, contadini, benestanti).

   L’interpretazione del miracolo data da Marco è forse uno dei primi tentativi di rispondere al problema del peccato nella congregazione primitiva. Secondo i cattolici, Yeshùa ha il potere personale di perdonare i peccati, e lo prova con un miracolo. Secondo i protestanti, non c’è unità nel racconto e si tratterebbe di due parti indipendenti: il miracolo e la discussione con i farisei. Intanto, va detto subito che il v. 5 non parla di perdono del peccato da parte di Yeshùa: “Figliolo, i tuoi peccati ti sono perdonati”. Il passivo “ti sono perdonati” è solo un modo ebraico di esprimersi per parlare di Dio senza nominarlo. Yeshùa sta dicendo che Dio gli perdona i peccati. Secondo gli scribi, però, si sta arrogando un diritto che è solo di Dio: “Chi può perdonare i peccati, se non uno solo, cioè Dio?” (v. 7). E Yeshùa ribatte: “Il Figlio dell’uomo ha sulla terra autorità di perdonare i peccati” (v. 10). Si noti: “Ha l’autorità”; non perché sia naturalmente sua, ma perché è Dio a dargliela. Qui Yeshùa è nella linea dei profeti che annunciavano il perdono dei peccati a nome di Dio: “Il Signore ha perdonato il tuo peccato” (2Sam 12:13) dice Natan a Davide.

   Ma torniamo al testo marciano:

“Quando Gesù vide la loro fede disse al paralitico: ‘Figlio, i tuoi peccati ti sono perdonati’. Ora erano là seduti degli scribi, che ragionavano nei loro cuori: Perché costui parla in questa maniera? Egli bestemmia. Chi può perdonare i peccati se non uno solo, Dio?’. Ma Gesù, avendo immediatamente compreso mediante il suo spirito che così ragionavano fra sé, disse loro: ‘Perché ragionate di queste cose nei vostri cuori? Che cosa è più facile, dire al paralitico: I tuoi peccati ti sono perdonati, o dire: Alzati e prendi la tua branda e cammina? Ma affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha autorità di perdonare i peccati sulla terra . . .’, disse al paralitico: Io ti dico: Alzati, prendi la tua branda e vattene a casa tua’. Allora egli si alzò, e immediatamente prese la sua branda e uscì davanti a tutti, così che tutti erano semplicemente stupefatti, e glorificavano Dio, dicendo: ‘Non abbiamo mai visto nulla di simile’”. – Mr 2:5-12, TNM.

   Il problema che gli esegeti incontrano è posto dal v. 10: “Ma affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha autorità di perdonare i peccati sulla terra . . .” (TNM). Chi nega che Yeshùa abbia questo potere preferirebbe togliere questo versetto, ritenendolo inserito tardivamente. Costoro sostengono che, togliendolo tutto, il resto fila armoniosamente: Yeshùa annuncia il perdono divino (v. 5), lo certifica con il miracolo (v. 11) e le folle se ne meravigliano (v. 12). Ma è proprio necessario ricorrere all’eliminazione del v. 10 (tra l’altro non motivata da nessun manoscritto)?

   Si presti attenzione all’obiezione sollevata dagli scribi: “Perché costui parla in questa maniera? Egli bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non uno solo, cioè Dio?” (v. 7). Questa obiezione non include forse la pretesa di Yeshùa di perdonare i peccati? Certo che sì. Si presti attenzione al fatto che l’obiezione dei dottori non è espressa, ma intuita da Yeshùa: “Gesù capì subito, con il suo spirito, che essi ragionavano così dentro di loro” (v. 8). Fu per questo che disse: “Ma, affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha sulla terra autorità di perdonare i peccati” (v. 10). Il v. 10 è quindi parte integrante di tutto il ragionamento.

   Tuttavia, questo v. 10 non è tradotto bene. Il greco ha: ἵνα δὲ εἰδῆτε ὅτι […] (ìna de èidete òti […]) che viene solitamente tradotto: “Ma, affinché sappiate che […]”. Così anche TNM. Il traduttore dà a quell’ìna (ἵνα) iniziale il significato di “affinché” seguito da un congiuntivo, con un senso finale: “Affinché sappiate che […]”. Ma traducendo così si ha una frase monca, ovvero senza la proposizione principale. Ne risulta infatti: “’Ma affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha autorità di perdonare i peccati sulla terra’. Disse al paralitico […]”. Il testo sarebbe proprio questo. “Ma affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha autorità di perdonare i peccati sulla terra”. Punto. Frase finita. Ma, come si vede, è monca. I traduttori ricorrono allora a degli aggiustamenti per far stare in piedi la frase. NR aggiusta così: “Ma, affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha sulla terra autorità di perdonare i peccati, io ti dico (disse al paralitico) àlzati, prendi il tuo lettuccio, e vattene a casa tua” (vv. 10,11); l’aggiustamento è dato da “io ti dico (disse al paralitico)”. TNM aggiusta diversamente: “Ma affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha autorità di perdonare i peccati sulla terra . . .’, disse al paralitico: ‘Io ti dico’”; qui l’aggiustamento è ottenuto inserendo quei tre puntini sospensivi dopo la frase monca. Si cerca insomma di far suonare bene, in qualche modo, una frase monca perché tradotta male. Tra l’altro, l’aggiustamento comporta anche che la frase di Marco λέγει τῷ παραλυτικῷ (lèghei to paralϋtikò), letteralmente “dice al paralitico” (al presente) venga volta dal traduttore al passato per far reggere la frase tradotta male: “Disse al paralitico” (NR); “Disse al paralitico” (TNM). Inoltre, il traduttore (sia NR sia TNM) inseriscono un “ma” non presente nel testo greco: “Ma affinché sappiate che […]”, con il chiaro intento di far stare in piedi la frase tradotta da loro in quel modo.

   Il fatto è che nel greco ellenistico e bizantino l’ìna (ἵνα) con il congiuntivo era usato per introdurre una proposizione indipendente con il senso di decisione o preghiera o desiderio. Nel passo in questione si tratta di decisione. La traduzione corretta è dunque: “Sappiate che […]”. Questo significato di ìna è documentato anche nel Vocabolario Greco-Italiano di L. Rocci (vedere significato 2, alla voce ἵνα). Questo stesso significato è ancora presente nel greco moderno, in cui ìna è diventato na (να) e viene quotidianamente usato con il senso di “ecco”. Riferito alla frase di Yeshùa: “Ecco, sappiate che il figlio dell’uomo ha autorità di perdonare i peccati sulla terra”. La frase, come si nota, sta in piedi da sola.

   In conclusione: Yeshùa si presenta come un profeta che annuncia il perdono di Dio. I dottori ebrei gli negano tale autorità ed egli testifica il suo potere guarendo il paralitico.

   Matteo termina il racconto presentando lo stupore della folla perché Dio aveva dato tale potere “agli uomini”: “Visto ciò, la folla fu presa da timore e glorificò Dio, che aveva dato tale autorità agli uomini“ (9:8). Tutta l’umanità è glorificata quando un suo membro (“figlio dell’uomo”) ne è glorificato.

   Tutto il racconto è storico. Non ci sono problemi di critica testuale. Traducendo bene il v. 10, tutto fila. Sia il colloquio sia il miracolo risalgono a Yeshùa e sono collegati tra loro:

“E [alcuni] giorni dopo, essendo entrato di nuovo a Capernaum, si seppe che era a casa. 2 E molti si radunarono, tanto che non c’era spazio, nemmeno presso la porta, ed egli dichiarava loro la parola. 3 E vengono [degli uomini] portandogli un paralitico, sollevato da quattro. 4 E non potendolo portare da lui a causa della folla, scoperchiarono il tetto dove era, e praticata un’apertura calano il lettino dove giaceva il paralitico. 5 E, avendo visto Yeshùa la loro fede, dice al paralitico: ‘Figlio, i tuoi peccati sono perdonati’. 6 C’erano là seduti alcuni degli scribi e ragionavano nei loro cuori: 7 ‘Perché costui parla in questa maniera? Egli bestemmia. Chi può perdonare i peccati se non uno [solo], Dio?’. 8 E Yeshùa, avendo immediatamente compreso nel suo spirito che così ragionavano fra sé, dice loro: ‘Perché ragionate di queste cose nei vostri cuori? 9 Che cosa è più facile, dire al paralitico: I tuoi peccati sono perdonati’, o dire: Alzati e prendi il tuo lettino e cammina? 10 Ecco, sappiate che il figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra’. Dice al paralitico: 11 ‘A te dico: Alzati, prendi il tuo lettino e va’ a casa tua’. 12 E si alzò, e immediatamente avendo preso il lettino, uscì davanti a tutti, così che tutti furono stupefatti e glorificavano Dio, dicendo: ‘Non abbiamo mai visto nulla di simile’” (Mr 2:1-12,TNM come base, allineato però fedelmente al testo greco originale).

   Paralitico di Betesda (Gv 5:1-9). Studiando archeologicamente il luogo in cui era situata la piscina di Betesda si è scoperto che la Aelia Capitolina del 135 E. V. fu eretta, almeno in parte, sopra un santuario preromanico dedicato (secondo le monete e gli ex voto lì rinvenuti) al dio Serapide (Asclepio), identificabile con il dio egizio Osiride (il cui culto ebbe inizio a Byblos (Plutarco, De Is. Et Osir. 15,357). Il sincretismo del tempo permetteva di identificarlo col rispettivo dio amato dai greci, Zeus, Dionisio, Asclepio o il Baal semita. Tale santuario si trovava a Gerusalemme (era fuori dalla città fino a quando Erode ve lo incorporò), vicino alla Fortezza Atonia (una caserma romana), e fu distrutto dai “cristiani” del 4° secolo che vi edificarono sopra la basilica bizantina di Sant’Anna.

   Il culto del dio egizio-ellenistico Serapide-Osiride potrebbe essere stato importato nella capitale palestinese dai siri, come documenta la letteratura ebraica: “Costruirono attorno alla città di Davide [Gerusalemme] un muro grande e massiccio, con torri solidissime, e questa divenne per loro una fortezza. Vi stabilirono una razza empia, uomini scellerati, che si fortificarono dentro”, “Fuggirono gli abitanti di Gerusalemme a causa loro e la città divenne abitazione di stranieri; divenne straniera alla sua gente”  (1Maccabei 1:33,34,38). Avi Yonah documenta l’esistenza di tale culto più o meno eterodosso nel 5° secolo E. V. con l’iscrizione trovata sulla porta Nebi Daud:

Testo dell’iscrizione

Traduzione

Jovi Op Max Serapido

Pro salute et victoria

Im Nerviae Trajani

Optumi Augusti Germanici Dacici

Parthici et Populi Romani

Vexile leg III Cyr fuit.

A Giove ottimo massimo Serapide

Per la salute e la vittoria

Dell’imperatore Nerva Traiano

Ottimo Augusto della Germania Dacia

Partica e del popolo romano

Vessillario della III legione germanica fu.

   Il testo giovanneo conferma la ricostruzione fatta dagli studiosi. Nel brano di Gv, infatti, si trova per ben sei volte il termine greco ὑγιὴς (ϋghiès), “sano”, che molto raramente ricorre nei sinottici e solo qui in Gv, ma che era comune nelle iscrizioni di Epidauro (Asclepio). Con questo termine Giovanni vuol fare comprendere che Yeshùa (e non Asclepio) è il vero guaritore.

   Il culto di Serapide era collegato a sorgenti o acque termali: l’acqua del pozzo di Raa-el-Ain aveva una qualità terapeutica molto efficace (attribuita da quella gente agli dèi). Il culto della sorgente di Efea a Palmira assomigliava molto a quello della piscina probatica (ovvero che riguarda le pecore, dato che in essa venivano lavate anche le pecore destinate ai sacrifici). Gli scavi moderni a Sidone nel santuario di Eshmun (un precursore di Osiride) mostrano grotte e bacini idrici molto simili a quelli di Gerusalemme.

   Il racconto miracoloso di Gv 5:1-9 dice:

“Dopo queste cose ci fu una festa dei giudei, e Gesù salì a Gerusalemme. Ora a Gerusalemme, presso la porta delle pecore, c’è una riserva d’acqua denominata in ebraico Betzata, con cinque colonnati. Sotto questi [colonnati] giaceva una moltitudine di malati, ciechi, zoppi e quelli con membra secche. 4 —  Ma c’era là un uomo che era stato trentotto anni nella sua malattia. Vedendo quest’uomo a giacere, e sapendo che stava [male] già da molto tempo, Gesù gli disse: ‘Vuoi essere sanato?’. Il malato gli rispose: ‘Signore, non ho un uomo che mi metta nella riserva d’acqua quando l’acqua si agita; ma mentre io vengo un altro vi scende prima di me’. Gesù gli disse: ‘Alzati, prendi la tua branda e cammina’. Allora l’uomo fu immediatamente sanato e, presa la sua branda, camminava”. – TNM.

   Il v. 4, omesso da TNM perché mancante nei manoscritti P66,75אBDVgSyc, è presente nei manoscritti AItVgcSyhi,pArm e dice: “Poiché un angelo del Signore scendeva nella piscina di tempo in tempo e turbava l’acqua; quindi il primo che entrava dopo che l’acqua era stata turbata veniva sanato da qualsiasi malattia fosse afflitto”.

   Il racconto miracoloso qui descritto (vv. 1-9) è connesso con il discorso dei vv. 19-47 in cui si mostra che Yeshùa opera come il Padre. La connessione è data dai vv. 10-18 che sono intermediari: “Ora quel giorno era un sabato. I giudei dicevano perciò all’uomo guarito: ‘È sabato, e non ti è lecito portare la branda’. Ma egli rispose loro: ‘Quello stesso che mi ha sanato mi ha detto: Prendi la tua branda e cammina’. Gli chiesero: ‘Chi è l’uomo che ti ha detto: Prendila e cammina?’. Ma l’uomo sanato non sapeva chi fosse, poiché Gesù si era ritirato, essendovi nel luogo la folla. Dopo queste cose Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: ‘Eccoti sanato. Non peccare più, affinché non ti accada qualcosa di peggio’. L’uomo se ne andò e disse ai giudei che era stato Gesù a sanarlo. E a causa di ciò i giudei si misero a perseguitare Gesù, perché faceva queste cose di sabato. Ma egli rispose loro: ‘Il Padre mio ha continuato a operare fino ad ora, e io continuo a operare’. Per questo motivo, in realtà, i giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non solo violava il sabato, ma anche chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio”. – TNM.

   Che dire del v. 4? Esso, ricordiamolo, dice: “Poiché un angelo del Signore scendeva nella piscina di tempo in tempo e turbava l’acqua; quindi il primo che entrava dopo che l’acqua era stata turbata veniva sanato da qualsiasi malattia fosse afflitto”. È genuino? Pare proprio di sì, perché il v. 7 (“Signore, non ho un uomo che mi metta nella riserva d’acqua quando l’acqua si agita”) sarebbe non solo incompleto, ma anche incomprensibile senza la spiegazione del v. 4. Il v. 4 incriminato riproduce solo la tradizione popolare per descrivere un luogo di Gerusalemme in cui avvenivano delle guarigioni tramite bagni idroterapici. Evidentemente, alcuni trascrittori del testo biblico – urtati da tali parole e urtati dalla dubbia ortodossia dei frequentatori di quel luogo al tempo di Yeshùa – eliminarono quel versetto. Tale versetto è rimasto tuttavia in diversi manoscritti. L’analisi critica del testo mostra che quelle parole sono supposte dai vv. 5-9 e sono tipicamente giovannee.

   Quel rimasuglio di culto pagano circa la miracolosità delle acque poté sussistere (spogliato ovviamente da qualsiasi credenza pagana) negli ebrei. Ma attenzione: non il culto pagano, ma solo la convinzione della miracolosità delle acque. L’efficacia terapeutica di quelle acque, del resto, come poteva essere spiegata a quel tempo? I semiti condividevano la credenza che le acque fossero abitate da potenze soprannaturali. Nella letteratura giudaica appare che gli angeli vegliavano sul buon funzionamento e sul gorgogliare delle acque. Secondo alcune tradizioni c’erano delle sorgenti che guarivano. La piscina probatica di Gv 5 e la vasca di Siloe di Gv 9 ne sono una conferma. R. Breteya (verso il 280 E. V.) parla di una sorgente nel paese di Simon abitata da uno spirito che ne faceva gorgogliare l’acqua (Levitino Rabba 24,122, Billerbeck II, pag. 453). Il trattato Sukka allude al rito dell’acqua che si celebrava a Gerusalemme: la sera del primo giorno della Festa delle Capanne si andava ad attingere acqua alla piscina di Siloe e la si versava poi in due bacini d’argento; solo dopo questo rito la gente cominciava a rallegrarsi con le luminarie, i canti e le processioni (Talmud, Sukka). Tutto questo conferma la tradizione popolare riportata nel greco giovanneo: il popolo attribuiva ad un angelo ciò che i pagani riferivano invece al dio Osiride. Conoscendo tutti questi aspetti il racconto biblico diviene comprensibile.

   Uomo dalla mano rinsecchita (Mt 12:9-17; Mr 3:1-6; Lc 6:6-11). Il racconto, nella redazione di Mt 12:9-15 (TNM) dice:

“Partito da quel luogo, andò nella loro sinagoga; ed ecco, un uomo con una mano secca! Quindi gli chiesero: ‘È lecito guarire [qualcuno] di sabato?’, per avere un’accusa contro di lui. Egli disse loro: ‘Chi è fra voi l’uomo che avendo una pecora, se gli cade in una fossa di sabato, non l’afferra e la tira fuori? Tutto considerato, quanto più vale un uomo di una pecora! Perciò è lecito fare una cosa eccellente di sabato’. Allora disse all’uomo: ‘Stendi la mano’. Ed egli la stese, e fu ristabilita, sana come l’altra. Ma i farisei uscirono e tennero consiglio contro di lui per poterlo distruggere. Saputo[lo], Gesù si ritirò di là. E molti lo seguirono, ed egli li guarì tutti”.

   Marco menziona degli oppositori: “L’osservavano per vedere se lo avrebbe guarito in giorno di sabato, per poterlo accusare”, che identifica al v. 6: “I farisei, usciti, tennero subito consiglio con gli erodiani”. Questi erodiani erano un gruppo politico legato ad Erode, i quali temevano in Yeshùa un nuovo battezzatore. La collaborazione tra alcuni farisei e questi erodiani era a quel tempo certo possibile. Non è quindi necessario, come fanno alcuni studiosi, attribuire a Marco un errore cronologico. Qui Marco non parla affatto della collaborazione tra farisei ed Erode Agrippa del 41-44 E. V.. Matteo parla solo di alcuni farisei (quelli del contesto). Luca parla di scribi e farisei. – 6:7.

   Il nucleo centrale è dato da Mr 3:4: “È permesso, in un giorno di sabato, fare del bene o fare del male? Salvare una persona o ucciderla?”. Da questo passo risulta che non c’è nella vita una zona neutrale in cui non si faccia né bene né male. Occorre fare il bene: non fare il bene significa fare il male. Non salvare una vita significa ucciderla. L’ira di Yeshùa si rivolge contro l’insensibilità di coloro che invece di lasciarsi commuovere dal dolore si corazzano contro la misericordia con rigide teorie dogmatiche: “Guardatili tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza del loro cuore”. – Mr 3:5.

   Matteo segue Marco, facendo però porre la domanda (fatta, in Mr, da Yeshùa) agli oppositori, e ampliando la scena con una chiarificazione di Yeshùa:

Mr 3:4,5

Mt 12:10-12

“Domandò loro: ‘È permesso, in un giorno di sabato, fare del bene o fare del male? Salvare una persona o ucciderla?’. Ma quelli tacevano. Allora Gesù, guardatili tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza del loro cuore, disse all’uomo: ‘Stendi la mano!’. Egli la stese, e la sua mano tornò sana”

“Essi, per poterlo accusare, fecero a Gesù questa domanda: ‘È lecito far guarigioni in giorno di sabato?’. Ed egli disse loro: ‘Chi è colui tra di voi che, avendo una pecora, se questa cade in giorno di sabato in una fossa, non la prenda e la tiri fuori? Certo un uomo vale molto più di una pecora! È dunque lecito far del bene in giorno di sabato’”

 

   Servo del centurione (Mt 8:5-13; Lc 7:1-10). Il miracolo riguarda la guarigione del servo di un ufficiale dell’esercito romano. La fonte utilizzata da Matteo e da Marco è centrata su: “Io vi dico in verità che in nessuno, in Israele, ho trovato una fede così grande!” di Mt 8:10, comune a Mr 7:9:  “Io vi dico che neppure in Israele ho trovato una così gran fede”. Nonostante il nucleo comune, i due evangelisti mettono in risalto un aspetto particolare:

  • Per Matteo il centurione (un comandante di cento soldati, la centurio latina) è l’antenato dei gentili nella fede, che si accostò a Yeshùa senza intermediari: “Molti verranno da Oriente e da Occidente [della Palestina, quindi gentili o pagani] e si metteranno a tavola con Abraamo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (8:11). A Matteo il particolare degli intermediari non interessava, per cui il “centurione venne da lui, pregandolo e dicendo” direttamente, senza presentazioni. – 8:5.
  • Per Luca il centurione è un modello di umiltà: non osa andare lui di persona, ma manda avanti gli anziani di Cafarnao: “Gli mandò degli anziani dei Giudei per pregarlo” (7:3). Si spiega così il contrasto tra Mt e Lc.

   La paralitica (Lc 13:10-17). Yeshùa la guarisce in una sinagoga, ponendo le mani su di lei, e ribatte ai farisei dicendo: “Ciascuno di voi non scioglie, di sabato, il suo bue o il suo asino dalla mangiatoia per condurlo a bere? E questa, che è figlia di Abraamo, e che Satana aveva tenuto legata per ben diciotto anni, non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?” (Lc 13:15,16). A quel tempo le malattie erano spiegate con l’influsso satanico.