Dio è l’autorità suprema. Egli, essendo il Creatore di ogni essere, è colui da cui tutti dipendono per la vita stessa: “Togli loro il respiro ed essi muoiono, tornano ad essere polvere! Mandi il tuo soffio di vita e sono ricreati” (Sl 104:29,30, TILC). Dio è il tutore sollecito della sua creazione: “Egli fa sorgere il suo sole sui malvagi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5:45, TNM). Dio è anche il garante della libertà da lui stesso voluta e donata. Dopo aver dichiarato: “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male”, aggiunge: “Scegli”. – Dt 30:15,19, CEI.
Proprio perché Dio è il garante della libertà, egli solitamente non si manifesta e non agisce direttamente nella scena della storia umana. Dio è talmente potente e glorioso che ‘nessun uomo può vederlo e vivere’ (Es 33:20). La tutela della libertà umana da parte di Dio giunge fino al punto che egli stesso solitamente si ritrae per lasciare libero l’uomo. Ancora oggi, dopo millenni, l’umanità è sempre talmente libera che può abusare di tale libertà. L’umanità e i singoli individui compiono ogni giorno scelte spesso scellerate e nefaste: è la loro libertà malintesa che si trasforma in libertinaggio. Dio indica, consiglia, guida, ma è l’uomo che alla fine deve scegliere rendendosi responsabile delle conseguenze delle proprie scelte. Quando il popolo di Israele, sotto l’amorevole guida di Dio, era condotto verso la Terra Promessa, Dio disse agli israeliti: “Manderò un angelo per guidarvi. Io però non camminerò in mezzo a voi, perché avete la testa troppo dura. Finirei per sterminarvi lungo la strada”. – Es 33:3, TILC.
La guida di Dio si attua solitamente attraverso dei mediatori. E si dispiega progressivamente lungo la storia: da Abraamo e dagli antichi patriarchi a Mosè e ai profeti, verso il vertice supremo: il Cristo, “il figlio di Dio”.
Dio rimane l’autorità suprema. Ma questa autorità non è esercitata direttamente. Qual è dunque l’autorità di riferimento, stabilita da Dio, per i credenti? “Tutta la Scrittura è ispirata da Dio” (2Tm 3:16, TNM); “La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero” (Sl 119:105, ND). La Bibbia è allora forse l’autorità massima a cui ci si deve riferire per ubbidire a Dio? Non del tutto. Indubbiamente la Bibbia è parola di Dio; essa è “utile per insegnare, per riprendere, per correggere, per disciplinare nella giustizia, affinché l’uomo di Dio sia pienamente competente, del tutto preparato per ogni opera buona” (2Tm 3:16,17, TNM). Eppure la Bibbia non è l’autorità massima nella vita del credente. Questo potrebbe inizialmente stupire, ma il fatto è che l’autorità vera è il Cristo. La Bibbia rimane parola di Dio, come affermato dal Cristo stesso: “La tua parola [di Dio] è verità” (Gv 17:17); “Non dovete pensare che io sia venuto ad abolire la legge di Mosè e l’insegnamento dei profeti. Io non sono venuto per abolirla ma per completarla in modo perfetto” (Mt 5:17, TILC). Il Cristo risorto non si presenta con una nuova legislazione, ma con il suo comportamento esistenziale. Non si impone con la forza: la sua è un’autorità d’amore a cui ognuno liberamente si sottopone. Il Cristo non abolisce né modifica o cambia i Comandamenti di Dio, eppure dà un nuovo comandamento: “Vi do un nuovo comandamento, che vi amiate gli uni gli atri; come vi ho amati io”. – Gv 13:34, TNM.
La Bibbia ha valore perché è l’unico mezzo con cui oggi conosciamo il Cristo. Egli era nel progetto di Dio sin da prima del tempo di Abraamo, anzi sin da prima del peccato di Adamo ed Eva. I credenti non possono trovare che in Cristo la rivelazione piena di Dio. Essi sono necessariamente legati alla Bibbia: essa permette di conoscere i fatti con cui Dio si è rivelato all’uomo e con cui li conduce a Cristo. È il Cristo che sta al centro della vita del credente, non la Bibbia (che comunque rimane l’insostituibile parola rivelata di Dio). La Bibbia è lo scrigno, Cristo è il suo contenuto prezioso. Lo scrigno è importante per quel che contiene. La Bibbia ci presenta il Cristo come salvezza di Dio, ma la Bibbia non è il Cristo; e neppure è la salvezza. La Bibbia è stata ispirata da Dio e scritta per condurci al Cristo:
“Queste cose sono state scritte affinché voi crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome”. – Gv 20:31, ND.
Per dirla con Paolo, “se fosse stata data una Legge capace di dare la vera vita agli uomini, allora la salvezza dipenderebbe dalla Legge. La Legge fu per noi come uno che ci sorvegliava fino alla venuta di Cristo, perché poi fossimo salvati”. – Gal 3:21,24, TILC.
Tutto conduce quindi al Cristo, secondo la volontà di Dio. Ma chi era davvero il Cristo? Tramite la Bibbia, che di lui parla e a lui conduce, possiamo scoprirne la vera identità e conoscere il suo ruolo assolutamente insostituibile e unico nel piano di Dio per la nostra salvezza.
La Bibbia
La Bibbia, dunque. È facile capire la Bibbia? Impossibile non è. È stata scritta per essere letta e applicata, non perché fosse riservata a studiosi ed esegeti. Perché allora abbiamo spesso bisogno di studiosi ed esegeti? Perché l’ultima riga della Bibbia è stata scritta quasi due millenni fa e siamo molto lontani da quel tempo. Ma anche perché fu scritta in ebraico antico e greco antico, lingue che solo gli studiosi oggi conoscono. E anche perché coloro la scrissero vivevano in Medio Oriente e si esprimevano con mentalità mediorientale e semitica.
Se non ci fosse il lavoro di traduttori e di studiosi, la Bibbia ci sarebbe preclusa. Avremmo solo dei testi che potremmo guardare perplessi in qualche museo o nelle loro riproduzioni senza neppure poterli leggere. Ai tempi biblici non era così: pastori e contadini la conoscevano molto meglio di noi oggi. La Scrittura parlava nella loro lingua e con le loro espressioni quotidiane.
Criteri per una buona comprensione del testo biblico
Leggendo un passo biblico, la domanda che occorre sempre porsi è: Come capivano il passo i lettori del tempo in cui fu scritto?
I destinatari originari erano loro. Dobbiamo immedesimarci in loro per comprendere. In questo sito faremo costantemente riferimento al vocabolario biblico sia ebraico che greco, andando a scoprire la mentalità e il modo di esprimersi dei mediorientali. Non dimenticheremo mai che la Bibbia non è un libro occidentale da leggersi con la mentalità del moderno occidentale. Ci sono due modi di leggere la Bibbia: leggerla all’occidentale o leggerla sul serio. Difendiamo strenuamente questo secondo modo.
Ostacoli nella comprensione della Bibbia
Ci sono tre gravi ostacoli che impediscono di comprendere la Bibbia:
■ Leggere il testo biblico con in mente la propria religione è un grande ostacolo che impedisce di capire cosa veramente dice la Scrittura. Se si vuole, si fa dire alla Bibbia più o meno quello che si desidera. Citando frasi prese fuori dal contesto si possono avere degli assurdi. Eccone un esempio. Nella Bibbia si legge: “Dio non c’è”. Questa frase si trova in Salmo 10:4. Ma è presa fuori contesto. Il brano intero dice: “Dice il malvagio nella sua presunzione: «Nessuno mi chiederà conto di nulla. Dio non c’è». Questo è il suo pensiero”. Citando la frase fuori contesto si fa solo la figura del malvagio di cui si parla.
È senza dubbio il pregiudizio religioso che fa tradurre a TNM il passo di Lc 10:7 così: “Non vi trasferite di casa in casa”. I Testimoni di Geova sono noti per il loro andare di casa in casa. Nel passo citato Yeshùa sta proprio dando istruzioni ai suoi discepoli su come compiere la predicazione pubblica. Nel testo originale Yeshùa dice: “Non passate di casa in casa”. Sta vietando proprio quello che i Testimoni di Geova fanno assiduamente.
μὴ μεταβαίνετε ἐξ οἰκίας εἰς οἰκίαν
me metabàinete ecs oikìas èis oikìan
non passate da casa a casa
“Non passate di casa in casa”. – NR.
Il verbo greco μεταβαίνω (metabàino) significa “passare”; è composto da βαίνω (bàino) che significa “camminare”, mentre _μετά (metà, “tra”) dà l’idea del tragitto; in pratica: camminare da un posto all’altro. La traduzione di μεταβαίνω (metabàino) con “passare” è confermata dalla stessa TNM altrove (Gv 13:1). Ora, traducendo: “Non vi trasferite di casa in casa”, forse si evita di dare l’idea che l’andare di casa in casa non sia implicato, ma si fa dire a Yeshùa esattamente il contrario di quello che diceva. Esaminiamo. TNM: “Non abbracciate nessuno nel salutarlo lungo la strada. Dovunque entriate in una casa dite prima: «Questa casa abbia pace». E se lì c’è un amico della pace, la vostra pace riposerà su di lui. Ma se non c’è, tornerà a voi. E restate in quella casa, mangiando e bevendo le cose che provvedono, poiché l’operaio è degno del suo salario” (Lc 10:4-7). I discepoli ricevono istruzioni di andare a predicare la buona notizia. Lungo il cammino non devono fermarsi a salutare nessuno. E già questo è in contrasto con il sistema dei Testimoni di Geova di fermare lungo la strada i passanti. “Dovunque entrare in una casa”, dice Yeshùa. Ma in quali casi vi entravano? Quando erano invitati, ovviamente. Questo era il metodo di Yeshùa stesso: “Andava in giro per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, e predicando la buona notizia” (Mt 4:23, TNM); “Gesù intraprese un giro di tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona notizia” (Mt 9:35, TNM). Non andava di casa in casa, ma di villaggio in villaggio. La sua predicazione era pubblica. Entrava in una casa quando vi era invitato. I discepoli dovevano fare altrettanto: “In qualunque città o villaggio entriate, cercate chi vi è meritevole e lì rimanete finché non partiate” (Mt 10:11, TNM); “Dovunque entriate in una città e vi ricevano” (Lc 10:8, TNM). Quando e se erano invitati, il consiglio era: “Restate in quella casa, mangiando e bevendo le cose che provvedono” (Lc 10:7), “Rimanetevi finché non andate via da quel luogo” (Mr 6:10, TNM). Ma poteva darsi il caso che nessuno li invitasse a casa propria: “Ma dovunque entriate in una città e non vi ricevano . . .” (Lc 10:10, TNM). Da notare che si parla sempre di città e villaggi. Le case sono menzionate solo nel caso in cui vi erano invitati. E poi? Poi non dovevano “passare di casa in casa” (Lc 10:7). Dovevano andare in un altro villaggio limitandosi a predicare all’aperto: “Mentre andate, predicate” (Mt 10:7, TNM). Fino alla nuova casa in cui sarebbero stati invitati. Dovevano sì trasferirsi (cosa che TNM nega, contrariamente alla Bibbia) da una casa all’altra, essendovi invitati, ma non andare di casa in casa. Perché? Perché Yeshùa cercava i meritevoli. La predicazione era generica, ma solo chi era davvero mosso da sincero interesse avvicinava in privato Yeshùa o un suo discepolo. I discepoli fecero proprio come faceva Yeshùa e come lui stesso aveva comandato loro: “Usciti, predicarono affinché la gente si pentisse”. – Mr 6:12; cfr. At 16:11-15.
La Bibbia va letta per quello che dice, non per quello che noi pensiamo debba dire.
■ Il secondo grave ostacolo alla comprensione della Scrittura è la lettura all’occidentale. Peggio ancora all’americana ovvero secondo le religioni di molte sette statunitensi. Cosa significa leggere all’occidentale? Significa ignorare che il testo biblico fu scritto da ebrei con mentalità orientale. Gli stessi scrittori del cosiddetto “Nuovo Testamento” scrissero sì in greco, ma pensando in ebraico. Un esempio illustrerà il punto.
“Beati i puri di cuore”, dice Yeshùa (Gesù) in Mt 5:8. Cosa significa? Per l’occidentale il cuore è la sede dei sentimenti. Ecco cosa ne pensa un editore religioso americano: “Il cuore è la sede dei motivi, delle emozioni, degli affetti e dei desideri” (Svegliatevi! dell8 febbraio 1972, pag. 27). L’interpretazione è all’occidentale. Yeshùa era però un ebreo e Matteo (lo scrittore del brano) era pure ebreo. Nel linguaggio orientale della Bibbia il cuore è la sede dei pensieri. Lo stesso Matteo riporta: “Dal cuore vengono malvagi ragionamenti” (Mt 15:19, TNM). Dato che il cuore è sede dei pensieri (la mente, per gli occidentali), si poteva dire degli apostoli che “il loro cuore era duro a comprendere” (Mr 6:52, TNM), perché in quel caso “non avevano afferrato il significato” (Ibidem). Era la mente (il cuore biblico) ad essere implicato, non il sentimento. Yeshùa conosceva “il ragionamento del loro cuore” (Lc 9:47, TNM). Così, il cuore (ovvero la mente, per noi) può diventare “ottuso” (At 28:27, TNM). Paolo parla di “cuore senza intelligenza” (Rm 1:21, TNM). Ma Yeshùa (Gesù) non distinse forse il cuore dalla mente in Mt 22:37? No, la distinzione è presente solo nella traduzione, non nelle parole originali di Yeshùa. TNM fa dire a Yeshùa che il comandamento direbbe che si deve amare “Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua mente” (Mt 22:37, TNM). Il comandamento citato si trova in Deuteronomio 6:5), che la stessa TNM riporta così: “E devi amare Geova [יהוה (YHVH) nel testo biblico] tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua forza vitale”. Qui della “mente” inserita nella traduzione del passo mattaico non c’è traccia. Dato che “cuore” e “anima” compaiono sia in Dt che in Mt, viene il sospetto che la “forza vitale” nella traduzione di Dt sarebbe la “mente” in Mt, sempre stando alla traduzione. È il caso di vedere cosa dice davvero la Bibbia. Iniziamo con i tre elementi di Dt 6:5:
Il “cuore” biblico è la mente per l’occidentale, l’“anima” biblica è la persona stessa per l’occidentale, meòd (מאד) è non solo la forza ma la potenza. La LXX greca, infatti, la traduce con la parola δύναμις (dǘnamis): “forza/potenza/abilità”. In quanto a “forza vitale”, non ne comprendiamo il senso. Esiste forse una forza proveniente da un morto? Ma come fa la “potenza” (meòd, מאד) di Dt a diventare “mente” in Mt? In verità lo diventa solo nella non buona traduzione. La parola che Matteo usa è διάνοια (diànoia), che indica i pensieri, la facoltà intellettuale e la comprensione. Si tratta quindi di mettere tutta la propria potenzialità, il proprio impegno, nell’amare Dio. Una traduzione appropriata del passo mattaico è: “Con tutta la tua mente, con tutto te stesso e con tutto il tuo modo di pensare”. – Dia.
Un errore che ha a che fare con il precedente – e più frequente di quanto si possa pensare – è quello di leggere sempre la Bibbia alla lettera. Il semplice, con la sua mentalità occidentale, neppure sospetta che per l’ebreo biblico l’astrazione è un concetto assurdo. Gli ebrei erano concreti. Per esprimere quelle che per noi sarebbero solo idee astratte, l’ebreo usava materializzare il concetto. Il profeta Geremia aveva l’incarico di profetizzare la prossima schiavitù dei giudei attuata dai babilonesi. Nel nostro modo di esprimerci astratto sarebbe stato sufficiente che Geremia lo annunciasse a parole, magari con particolare enfasi. Invece riceve questo comando: “Fatti delle catene e dei gioghi, e mettiteli sul collo”. – Ger 27:2.
Ora, se non si tiene conto di questa concretizzazione del pensiero astratto, si prendono delle grosse cantonate. Si veda l’assurda conclusione (che rasenta il tragicomico) cui arrivò la mentalità religiosa occidentale nel comprendere il passo di Mr 14:22-24:
“Gesù prese del pane; detta la benedizione, lo spezzò, lo diede loro e disse: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi, preso un calice e rese grazie, lo diede loro, e tutti ne bevvero. Poi Gesù disse: «Questo è il mio sangue»”.
Non dice forse il testo: “Questo è?”. La traduzione è perfetta, il greco dice proprio “è”: ἐστίν (estìn). Ma l’occidentale legge alla lettera e applica. E così ne sorse la strana idea della transustanziazione, quasi che Yeshùa facesse una specie di magia trasformando pane e vino in carne e sangue. Quello che l’occidentale trascura è che Yeshùa, da ebreo, stava materializzando un concento astratto. Ben traduce qui TNM: “Egli prese un pane, disse una benedizione, lo spezzò e lo diede loro, e disse: «Prendete, questo significa il mio corpo». E preso un calice, rese grazie e lo diede loro, e tutti ne bevvero. E disse loro: «Questo significa il mio sangue»” (il corsivo è nostro). Qui abbiamo, giustamente, una doppia traduzione: dal greco all’italiano, ma anche dal concetto ebraico a quello occidentale.
■ Il terzo grave errore (che diventa un ostacolo notevole alla comprensione) nel leggere la Bibbia è quello di interpretare il cosiddetto “Vecchio Testamento” alla luce del cosiddetto “Nuovo Testamento”. I teologi insistono su questo errore, e non solo loro. In verità, dovrebbe essere esattamente il contrario. Yeshùa stesso disse: “Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti [due grandi suddivisioni del cosiddetto “Vecchio Testamento”]; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento” (Mt 5:17). Occorre partire dal prima per comprendere il poi.