“La mattina presto tornò al Tempio, e il popolo si affollò attorno a lui. Gesù si mise seduto e cominciò a insegnare”.

   “I maestri della Legge e i farisei portarono davanti a Gesù una donna sorpresa in adulterio e gli dissero:

– Maestro, questa donna è stata sorpresa mentre tradiva suo marito. Nella sua legge Mosè ci ha ordinato di uccidere queste donne infedeli a colpi di pietra. Tu, che cosa ne dici?”. – Gv 8:2-5, PdS.

   Un tribunale popolare improvvisato, una corte costituita dai notabili gerosolimitani. Farisei e maestri della Legge: insieme costituiscono sia il collegio del pubblico ministero, sia i testimoni dell’accusa, sia la corte giudicante, sia i boia incaricati dell’esecuzione. Il codice, quello supremo, è aperto sull’articolo violato: Non commettere adulterio. Sul banco degli imputati una donna.

   Eppure i colpevoli sono due: la donna e Yeshùa. Nelle loro intenzioni segrete, Yeshùa è il vero accusato: “Parlavano così per metterlo alla prova: volevano avere pretesti per accusarlo” (v. 6, PdS). Strano, però: manca qualcuno. Dove mai è finito quello che era con lei, l’uomo? O si dovrebbe dire semplicemente maschio?

   Il peccato della donna è evidente: colta sul fatto, in flagranza di reato. Il peccato di Yeshùa appare più pericoloso: eccesso di misericordia. Lo sarà, misericordioso? In tal caso violerebbe la Legge. Oppure si atterrà alla Legge? In tal caso, la sua reputazione di applicazione misericordiosa della Legge sarebbe compromessa. Questa la trappola in cui l’hanno messo. Comunque decida, sbaglierebbe. È già condannato.

   “Ma Gesù guardava in terra, e scriveva col dito nella polvere”. – V. 6, PdS.

   La tattica di Yeshùa è sbalorditiva. Disorienta. È pura psicologia applicata. Yeshùa era già seduto prima che arrivassero. Stava insegnando. Lo hanno interrotto bruscamente per obbligarlo a prendere posizione su un caso scandaloso. Non si alza. Non intende fronteggiare gli accusatori. Rimane seduto e fa altro, con disarmante calma. Li disorienta. Inevitabilmente, il loro atteggiamento sicuro ne risente. Nel disagio che si è creato, non resta loro che insistere sul caso che gli hanno presentato. Ma la loro arrogante sicurezza ora è un po’ indebolita.

   “Quelli però insistevano con le domande”.

   Yeshùa li ha disorientati, ma la tattica non può durare a lungo. Ora deve davvero affrontarli.

   “Allora Gesù alzò la testa”.

   Yeshùa non si alza. Alza solo la testa. Non li fronteggia da pari a pari: riacquisterebbero la loro sicumera e ciò li farebbe tornare aggressivi. Alza solo la testa. Quanto basta per rivolgersi a loro, ma da una posizione non di sfida. Con uno che rimane pacificamente seduto a terra e ti guarda dal basso non si può essere troppo prepotenti.

   “E disse:

– Chi tra voi è senza peccato, scagli per primo una pietra contro di lei”.

   È fatta. Apparentemente non ha preso le difese della donna. È colpevole?, – sembra dire – va lapidata? Fatelo, ma inizi chi è senza colpa. Il momento è delicatissimo. Se stesse lì a fissarli sarebbe una sfida aperta. Per non perdere la faccia, inizierebbero a replicare. Il clima si arroventerebbe, forse partirebbe una prima pietra. E, nella folla – si sa -, ognuno diventa coraggioso, ipocritamente nascosto dagli altri. Sarebbe il fanatismo crudele e senza freno. Precipiterebbe tutto. Sarebbe la lapidazione. Quella prima pietra sarebbe pericolosissima.

   Yeshùa deve dar loro una via di uscita che sia dignitosa per loro. Silenzio e parola.

   “Poi si chinò di nuovo a scrivere in terra”.

   Di nuovo la sua tattica psicologica. Sta scrivendo chissà cosa, è chinato, non li guarda, fa altro, non si occupa di loro: lascia loro il tempo e il modo per scivolar via dalla trappola in cui a sua volta li ha messi. Lui scrive in silenzio. Da ottimo psicologo sa che ora chi parla per primo ha perso. La Legge, di cui loro si riempiono la bocca, prescriveva che dovevano essere proprio loro, i testimoni, ad assumersi la piena responsabilità dell’accusa di fronte a tutti: “I testimoni getteranno per primi i sassi per farlo morire, e, dopo di loro, tutto il popolo”. – Dt 17:7.

   Yeshùa li ha colti tutti di sorpresa. Applica la Legge: sono loro, i testimoni, che devono lapidare la donna. Ma Yeshùa introduce anche una variante cui nessuno può replicare: i primi devono essere sì i testimoni che hanno visto e che sanno, ma che sono a loro volta senza peccato. È facile vedere gli errori altrui. Ma non basta scoprire le malefatte degli altri. Occorre anche esibire il proprio certificato penale che attesti la propria fedina penale immacolata. Se ci sono dei veri giusti escano allo scoperto e diano inizio alla lapidazione. Ci vuole coraggio, molto coraggio. Non per scagliare pietre, ma per attribuirsi la certificazione di persona perfetta. Ci vuole coraggio, molto coraggio. Non per accusare gli altri a colpi di codice, ma per proclamarsi santi.

   “Udite queste parole, quelli se ne andarono uno dopo l’altro, cominciando dai più anziani”.

   Quella prima pietra è diventata davvero pesantissima. Chissà, forse alcuni già la stringevano in mano. Se così era, diverse pietre caddero a terra inutilizzate. A parlare si fa presto. E spesso le parole sono come pietre che lapidano il prossimo sotto una gragnola di accuse, maldicenze, pettegolezzi, mormorazioni, sospetti, calunnie. Tutti i guai dipendono sempre dalla prima pietra. Dopo la prima, tutti fanno a gara per correre in soccorso, con le proprie sassate, non della vittima, ma del lanciatore. Già, la prima pietra. È proprio quella, la prima pietra, quella che colpisce più duro.

   “Rimase soltanto Gesù, e la donna era là in mezzo”.

   “Gesù si alzò”.

   Ora sì che si alza. Aveva evitato di porsi in piedi di fronte a loro. Non sarebbe stato cauto sfidarli apertamente. Ma ora, di fronte alla donna, sì, deve porsi. Non si è trattato, infatti, di un gesto di misericordia gratuito. C’è ancora lei. La donna. Non può assolverla come se nulla fosse. L’ha salvata da una morte annunciata, l’ha portata – per così dire – a una nuova vita. Ora vuole darle anche la possibilità di una vita nuova.   

   “E le disse:

– Dove sono andati? Nessuno ti ha condannata?

   La donna rispose:

– Nessuno, signore.

– Neppure io ti condanno. Va’, ma d’ora in poi non peccare più!”.

   La scena, prima così affollata, pian piano si è svuotata. Ognuno se ne va. Gli accusatori se ne sono già andati, spontaneamente. La donna è invitata da Yeshùa ad andare. “Va’, ma d’ora in poi non peccare più”. Il problema degli accusatori non sarà quello di “da ora in poi non peccare più”. Il loro problema sarà “da ora in poi” di riconoscersi peccatori. Lei verrà liberata, alleggerita della colpa. Loro sono costretti a portare il peso dei propri peccati.

   Eppure, loro pure hanno ricevuto da Yeshùa qualcosa. Sono stati messi di fronte a se stessi e alla propria coscienza. Yeshùa li ha staccati dall’anonimato della folla e dalla complicità del gruppo, ha tolto loro la maschera. Abilissimi a vedere le magagne altrui e a denunciarle sdegnati, non sapevano più guardare in se stessi per accorgersi delle proprie malefatte e per preoccuparsene. Abituati ad a essere accusatori e giudici, non si domandavano mai se per caso appartenessero loro stessi alla categoria delle canaglie. A forza di obbligare gli altri a render conto delle azioni – codice alla mano – non sapevano più guardarsi allo specchio.

   Yeshùa ha obbligato i giudici a giudicare se stessi. Così, quel pubblico processo alla fine diventa un processo a porte chiuse, nell’intimo della propria coscienza. Non solo sono cadute le pietre dalle loro mani. Sono cadute anche le loro maschere. Erano venuti come giusti, se ne sono andati come peccatori. Loro pure, ora, possono però iniziare una vita nuova, se lo vogliono.

   “Neppure io ti condanno”. Lei, probabilmente, non ha neppure bisogno di sentire quelle parole. Aveva già visto la morte in faccia decretata negli occhi cattivi di quei fanatici. Già era spacciata. È rinata. E ora non ha nulla da temere da quell’uomo che scrive misteriosamente per terra. Ma lei lo sa benissimo, lei è perfettamente consapevole che ora toccherà a lei dare una risposta. Ma domande non ce ne sono. Yeshùa non le pone nessuna domanda. “Va’, ma d’ora in poi non peccare più”.

   Non sappiamo cosa poi fece quella donna. Non abbiamo bisogno di saperlo. Ma se riusciamo a vedere quello che gli occhi di lei hanno visto, la risposta la sappiamo. Lei ha visto gli occhi di Yeshùa, il suo sguardo. È li, in quello sguardo, che lei davvero ha letto non solo la misericordia e il perdono. Ha letto la fiducia. Non era scritta per terra, sulla polvere. Era scritta nello sguardo vivo di Yeshùa che incontrava il suo.

   Andati via gli accusatori, lei – rinata – può alzare gli occhi. E vede lui, Yeshùa, uno che la guarda in maniera diversa da tutti. Nessuno mai l’aveva guardata così. Finora aveva fatto esperienza di sguardi diversi. Conosceva lo sguardo maschile del desiderio e dell’egoistica cupidigia, quello del suo amante. Conosceva ormai anche quello della condanna, quello cattivo dei suoi crudeli accusatori. E, chissà, forse anche lo sguardo ipocrita di qualche accusatore, dietro cui lei aveva saputo leggere un desiderio insano. Ora gli occhi di lei incrociano uno sguardo nuovo, puro. Gli occhi di Yeshùa non vedono in lei né un oggetto di piacere né un bersaglio per le pietre scagliate. È uno sguardo libero che sa guardare dentro senza giudicare.

   Quello sguardo è entrato dentro di lei, nel segreto più intimo del suo essere. Non ci è entrato a forza, vincendo a sassate le resistenze. Lì, nel luogo più nascosto che ci sia, nella segretissima intimità dell’animo, non si entra con i ragionamenti, né con le costrizioni né con il dito accusatore che vorrebbe scuotere. La porta è fermamente sbarrata, invalicabile. Si apre solo e soltanto all’amore.

   Quel luogo inesplorato è stato raggiunto dallo sguardo di Yeshùa, uno sguardo pregante di rispetto, di comprensione, di accettazione e di fiducia. Uno sguardo che sa trasformare dal di dentro una persona per sempre.

   La scena è svuotata. La donna, quella donna colpevole, se ne va completamente alleggerita del suo passato che ormai pare trapassato remoto. Se ne va verso un futuro tutto nuovo, intatto, bello, da inventare nella libertà.

   Rimane solo lui, Yeshùa, l’unico innocente, senza peccato. Da lì a poco andrà a morire per i peccati di tutti: quelli dei giudici e quelli della donna. E anche per i nostri.

 

(Gv 8:2-11, PdS).