Si paragonino le traduzioni, tra loro diverse, di questo stesso passo biblico, quello di Lc 23:43:

“Io ti dico in verità, oggi tu sarai con me in paradiso”. – NR.

“In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”. – CEI.

“Io ti dico in verità, che oggi tu sarai meco in paradiso”. – Did.

“In verità ti dico: oggi tu sarai con me in paradiso”. – ND.

“In verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso”. – Con.

“Veramente ti dico oggi: Tu sarai con me in Paradiso”. – TNM.

   Tutto dipende dalla punteggiatura: secondo dove si collocano la virgola o i due punti, il significato cambia. Questa frase fu pronunciata da Yeshùa prima di morire, quando era appeso alla croce, e fu rivolta a uno dei due delinquenti accanto a lui, loro pure condannati a morte. Uno di questi due malviventi, commentando il sarcasmo dell’altro che faceva ancora lo spavaldo insultando Yeshùa, gli aveva detto: “Non hai nemmeno timor di Dio, tu che ti trovi nel medesimo supplizio? Per noi è giusto, perché riceviamo la pena che ci meritiamo per le nostre azioni; ma questi non ha fatto nulla di male”. Poi, rivolto a Yeshùa: “Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno!” Questo malfattore è noto come il “buon ladrone” (strana definizione: non si comprende come un ladrone – ammesso che fosse un ladro – possa essere buono; meglio sarebbe chiamarlo delinquente pentito). Comunque, Yeshùa gli aveva promesso quanto stiamo analizzando.

   Sono possibili due sensi:

  1. Quello stesso giorno il malfattore sarebbe stato in paradiso insieme a Yeshùa.
  2. Quel giorno ci fu solo la promessa di Yeshùa che in futuro il malfattore sarebbe stato in paradiso.

   È possibile stabilire il vero senso basandosi sul testo greco originale? No. Infatti, nei manoscritti non veniva indicata la punteggiatura. Ci può solo aiutare nella comprensione il contesto e il resto della Bibbia.

   Dal contesto sappiamo che quel malfattore era colpevole; lui stesso ammette: “Riceviamo la pena che ci meritiamo per le nostre azioni”. Il paradiso quindi non lo meritava. Eppure, Yeshùa glielo promette. Ma di che “paradiso” si trattava? La parola scritta in greco è παράδεισος (paràdeisos), ma non si tratta di una parola greca, e neppure ebraica. La parola è di origine persiana. Per i persiani si trattava di un grande parco recintato, ombroso e ben annaffiato, in cui alcuni animali selvatici erano tenuti per la caccia; era circondato da muri e fornito di torri per i cacciatori. La parola persiana è pairidaēza, assunta in ebraico come פַּרְדֵּס (pardès), in greco come παράδεισος (paràdeisos). In Gn 2:8 si parla del “giardino in Eden” e l’ebraico ha per “giardino” la parola גן (gan) che la LXX rese con il greco παράδεισος (paràdeisos), richiamandosi all’iranico pairidaēza. Mentre lo storico greco Senofonte (4°-5° secolo a. E. V.) usava questo termine per indicare il famoso giardino imperiale persiano, la LXX lo collegò con il גַּנ־בְּעֵדֶן (gad-beedèn), “il giardino in Eden”. Da qui l’uso della parola “paradiso” presso gli ebrei.

   Fu solo la religione che, in tempi successivi a quelli biblici, creò l’idea di un paradiso celeste, del tutto assente nella Scrittura. Dante Alighieri diede poi il suo contributo, collocando il Paradiso, titolo della terza delle tre cantiche della sua Commedia, in un mondo immateriale ed etereo. Oggi i cattolici credono all’idea pagana di un paradiso in cielo; i protestanti, nonostante la Riforma, mantennero questa dottrina non biblica.

   Paolo, in 2Cor 24:4 dice di essere stato “rapito in paradiso” dove “udì parole ineffabili”; in un versetto precedente (v. 2) dice trattarsi del “terzo cielo”; “se fu con il corpo o senza il corpo” lui non lo sapeva (v. 3). Il termine appare anche in Ap 2:7 in cui si parla “dell’albero della vita, che è nel paradiso di Dio”, chiaro riferimento al paradiso terrestre di Gn. Anche il paradiso in cui Paolo fu rapito potrebbe essere terrestre. Intanto lui dice che non sa se vi andò “con il corpo o senza il corpo”, e poi “terzo cielo” potrebbe essere inteso in senso orizzontale anziché verticale. Infatti, ammettere un terzo cielo verticale, vorrebbe dire ammetterne almeno un primo e un secondo. Secondo i rabbini i livelli erano sette, ma non ai trova alcun appoggio biblico per ammettere sette cieli. Neppure possiamo pensare a “terzo” nel senso di enfasi: sarebbe stato più appropriato, in tal caso, dire che era stato rapito al settimo cielo. Se invece consideriamo la cosa in senso orizzontale, si può far riferimento alle tre epoche menzionate da Pietro: “ [1] Esistettero dei cieli e una terra tratta dall’acqua . . il mondo di allora, sommerso dall’acqua, perì; mentre [2] i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della perdizione degli empi . . . secondo la sua promessa, noi aspettiamo [3] nuovi cieli e nuova terra” (2Pt 3:5-13, passim; cfr. Riv 21:1; Is 65:17). In tal caso, la promessa di Yeshùa al malfattore pentito riguardava la sua resurrezione sulla nuova terra sotto i nuovi cieli. – Cfr. Ap 21:1-4.

   In ogni caso, la questione di quando quel malfattore sarebbe stato in “paradiso” si risolve con i fatti storici. Dove si trovò Yeshùa quello stesso giorno, dopo la sua morte? “[Giuseppe (v. 50)] trattolo giù dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo mise in una tomba scavata nella roccia” (Lc 23:53). Yeshùa quel giorno fu messo in una tomba e lì rimase per tre giorni. Non era certo in “paradiso” né tantomeno in cielo. E quel malvivente pentito di certo non era con lui.

   La promessa di Yeshùa non poteva quindi che riferirsi al futuro. Perciò, la traduzione giusta è:

“Veramente ti dico oggi: Tu sarai con me in Paradiso”. – TNM.