La creazione dell’essere umano assume nel primo racconto della creazione una rilevanza tutta particolare, tanto che lo scrittore ispirato di Gn impiega un espediente letterario e fa dire a Dio: “Facciamo l’uomo” (Gn 1:26), quasi Dio stesse consultandosi con se stesso o con la corte angelica. È qui fuori luogo l’interpretazione cattolica che intravede nel plurale “facciamo” un riferimento alla trinità (dottrina estranea alla Scrittura): è Dio che “disse” (Gn 1:26); non ‘dissero’, ma “disse”, ed è Dio che “creò”, non ‘crearono’ (Gn 1:27). È pure fuori luogo l’interpretazione che vi vede un colloquio con un inesistente artefice (inteso come una creatura spirituale preumana che sarebbe poi diventato Yeshùa): è “Dio” che “creò l’uomo” (Gn 1:27), non un artefice. Forse l’agiografo intendeva dire che Dio parlava con la corte celeste, quella stessa composta dagli angeli, “tutti i figli di Dio” che “alzavano grida di gioia” (Gb 38:7) quando Dio creava? Può darsi. Anche in Gn 11:7 si ha una costruzione simile, quando Dio dice: “Scendiamo dunque e confondiamo il loro linguaggio”, riferendosi alla torre di Babele. In ogni caso, il “facciamo” denota l’importanza della creazione dell’essere umano, sottolineata poi con il pleonasmo (così caro alla lingua ebraica) “a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza”. – Gn 1:26.

   Questa grandiosa presentazione che la Bibbia fa della creazione dell’essere umano, pone dei punti fermi nell’antropologia biblica:

● L’essere umano maschio (אִשׁ, ish) e l’essere umano femmina (אִשָּׁה, ishàh) sono su un piano di parità.

● Ambedue sono a immagine e somiglianza di Dio.

● Ambedue sono sessuati, quindi complementari e relativi l’uno all’altra.

   La donna entra nel disegno divino sullo stesso piano dell’uomo.  Quest’armonia perfetta riceve la benedizione divina: “Dio li benedisse; e Dio disse loro: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra’” (Gn 1:28). Il commento divino  finale fu che tutto ciò “era molto buono” (Gn 1:31). Nella gerarchia biblica iniziale, l’uomo e la donna, insieme, erano a capo dell’intera Terra: “Rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra” (Gn 1:28). Si tratta di assoluta parità. L’essere umano è uno: “Dio creava l’uomo a sua immagine, lo creò a immagine di Dio; li [“lo”, nel testo ebraico: אֹתֹו (otò)] creò maschio e femmina” (Gn 1:27, TNM). La Bibbia dice:

 

וַיִּבְרָא אֱלֹהִים ׀ אֶת־הָאָדָם בְּצַלְמֹו בְּצֶלֶם אֱלֹהִים בָּרָא אֹתֹו זָכָר וּנְקֵבָה בָּרָא אֹתָם׃

vayvrà elohìm et-haadàm betzalmò betzèlem elohìm barà otò sachàr uneqevàh barà otàm

e creò Dio il terroso a immagine di sé a immagine di Dio creò esso maschio e femmina creò loro

 

   È solo dopo la disubbidienza che la gerarchia cambia, non per volere di Dio, ma per l’indole umana modificata dal peccato: “Alla donna [Dio] disse: ‘. . . i tuoi desideri si volgeranno verso tuo marito ed egli dominerà su di te’” (Gn 3:16). Questa è tuttora la condizione femminile nel mondo.

   La potenza creatrice di Dio non è però separata dal dominio divino sulla storia. Dopo il peccato, l’umanità è sì abbandonata a se stessa e al proprio desiderio di essere artefice della propria vita lontana da Dio, conformemente alla scelta iniziale di voler determinare da sé la “conoscenza del bene e del male” (Gn 2:17), ma il proposito di Dio non viene meno. Dio mantiene il dominio sulla storia: mentre l’umanità agisce di testa propria, il proposito di Dio va avanti e la storia umana non potrà valicare i confini stabiliti da Dio. – Ger 27:4-11; Is 45:12,13.

   I profeti ci fanno intravvedere una nuova creazione:

“’Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra, e le cose di prima non si ricorderanno più e non verranno più in mente. Ma voi gioite ed esultate per sempre in ciò che creo, perché, ecco, io creo Gerusalemme per il gaudio e il suo popolo per la gioia. Mi rallegrerò di Gerusalemme e gioirò del mio popolo; in essa non si udrà più alcuna voce di pianto né voce di grida. Non vi sarà più in essa alcun bimbo che viva solo pochi giorni, né vecchio che non compia i suoi giorni; poiché il giovane morirà a cento anni e il peccatore che non giunge ai cento anni, sarà considerato maledetto. Costruiranno case e le abiteranno, pianteranno vigne e ne mangeranno il frutto. Non costruiranno più perché un altro vi abiti, non pianteranno più perché un altro mangi; poiché i giorni del mio popolo saranno come i giorni degli alberi; e i miei eletti godranno a lungo dell’opera delle loro mani. Non faticheranno invano né daranno alla luce figli per una improvvisa distruzione, perché saranno la progenie dei benedetti dall’Eterno e i loro discendenti con essi. E avverrà che prima che mi invochino io risponderò, staranno ancora parlando che io li esaudirò. Il lupo e l’agnello pascoleranno insieme, il leone mangerà la paglia come il bue e il serpente si nutrirà di polvere. Non faranno più alcun danno né distruzione su tutto il mio santo monte’, dice l’Eterno”. – Is 65:17-25, Did.

 

Dio farà in quel tempo cose straordinarie per il suo popolo. – Es 34:10; Nm 16:30.

 

“Cieli, stillate dall’alto;

le nuvole facciano piovere la giustizia!

Si apra la terra e sia feconda di salvezza;

faccia germogliare la giustizia al tempo stesso.

Io, il Signore, creo tutto questo”. – Is 45:8.

   La donna è presa nella Bibbia a simbolo di Israele: “Il tuo creatore è il tuo sposo”, “Il Signore ti richiama come una donna abbandonata . . . come la sposa della giovinezza, che è stata ripudiata . . . ‘Con un amore eterno io avrò pietà di te’, dice il Signore, il tuo Redentore” (Is 54:5-8). Nella nuova creazione di Dio le cose saranno diverse da oggi:

 

“Il Signore crea una cosa nuova sulla terra:

la donna che corteggia l’uomo”. – Ger 31:22.

   Israele, la donna di Dio, non si terrà più lontana dal suo Sposo, ma lo cercherà, corteggiandolo. Suscita solo indignazione la pessima traduzione con cui TNM maltratta il testo biblico: “Una semplice femmina attornierà un uomo robusto” (“Una semplice femmina”, sic!, per non parlare dello stravagante “uomo robusto”).

   È Paolo a dire la condizione femminile definitiva della donna escatologica: “Voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina”. – Gal 3:27,28.

   Si noti che nel precedente testo paolino non si dice ‘né uomo né donna’, ma “né maschio né femmina”: οὐκ ἔνι ἄρσεν καὶ θῆλυ (uk èni àrsen kài thèlü), “non c’è maschio e femmina”. Questo richiama Gn 1:27 che parla di “maschio e femmina”.

   Al precedente v. 16 Paolo aveva detto che “le promesse furono fatte ad Abraamo e alla sua progenie”, e aveva aggiunto: “Non dice: E alle progenie, come se si trattasse di molte; ma, come parlando di una sola, dice: E alla tua progenie, che è Cristo”. Al v. 29 tutti i credenti sono identificati con Yeshùa. “Se siete di Cristo, siete dunque discendenza d’Abraamo, eredi secondo la promessa”. Tale fusione è così forte che Paolo usa la parola εἷς (èis), “uno”: “Voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3:28). Questo εἷς (èis), “uno”, comporta conseguenze di grande portata. Nella nuova creazione spariscono tutte le differenze di razza (“né Giudeo né Greco”), di condizione sociale (“né schiavo né libero”) e di sesso (“né maschio né femmina”). C’è, nella nuova creazione, assoluta parità di tutti gli esseri umani, “poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti” (Rm 10:12), “poiché, come il corpo è uno e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, benché siano molte, formano un solo corpo, così è anche di Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati in un unico Spirito per formare un unico corpo, Giudei e Greci, schiavi e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un solo Spirito” (1Cor 12:12,13). Queste parole erano inaudite e inammissibili per il mondo all’epoca di Paolo.

   Vogliamo qui far notare che abbiamo evitato accuratamente la parola “uguaglianza”, così cara alle correnti di sinistra. Il motto della Repubblica Francese – Liberté, Égalité, Fraternité (Libertà, Uguaglianza, Fratellanza) – non è conforme al pensiero biblico. La Bibbia direbbe piuttosto: Libertà, Parità, Fratellanza. Il non essere tutti uguali non è una ingiusta disparità, ma una ricchezza. Paolo dice che “tutte le membra del corpo, benché siano molte, formano un solo corpo”, ma non vuol certo sostenere che tutte le membra siano uguali. “L’occhio non può dire alla mano: ‘Non ho bisogno di te’; né il capo può dire ai piedi: ‘Non ho bisogno di voi’” (1Cor 12:21), ma l’occhio rimane occhio e i piedi non sono uguali alla testa. “Le membra del corpo che sembrano essere più deboli, sono invece necessarie; e quelle parti del corpo che stimiamo essere le meno onorevoli, le circondiamo di maggior onore; le nostre parti indecorose sono trattate con maggior decoro, mentre le parti nostre decorose non ne hanno bisogno” (1Cor 12:22-24). Così, anche oggi, nella congregazione dei discepoli di Yeshùa tutti hanno pari dignità, ma non sono tutti uguali: “È lui [Yeshùa] che ha dato alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e dottori” (Ef 4:11). Le disuguaglianze rimangono, non solo nelle funzioni di ciascuno, ma anche nelle caratteristiche personali: ci sono persone bionde e more, alte e basse, grasse e magre, nere e bianche, ignoranti e istruite, intelligenti e meno intelligenti, di mente aperta e bigotte, alacri e pigre. La novità è però l’assoluta parità.

   Sull’essere umano (maschio e femmina) Dio spande il suo spirito: “Avverrà negli ultimi giorni, dice Dio, che spanderò del mio Spirito sopra ogni carne; e i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno . . . In quei giorni spanderò del mio Spirito sopra i miei servi e sopra le mie serve”. – At 2:17,18; cfr. Gle 2:28,29.

   Nel secondo racconto della creazione, la creazione dell’essere umano è presentata con una libertà di stile che sa d’incanto. Qui si ha l’immagine di Dio come di un Vasaio. Il Creatore prende del fango e lo modella a corpo umano, cui dà poi vita con il suo alito vitale: “Tu mandi il tuo spirito, ed essi sono creati” (Sl 104:30). “Guai a chi ha conteso col suo Formatore, come un frammento di terracotta con gli altri frammenti di terracotta del suolo! Deve l’argilla dire al suo formatore: ‘Che fai?’”. – Is 45:9, TNM.

 

“L’Eterno Dio formò l’uomo [הָאָדָם (haadàm), “il terroso”] dalla polvere della terra [אֲדָמָה (adamàh)],

gli soffiò nelle narici un alito di vita [נִשְׁמַת חַיִּים (nishmàt khayìym), “soffio di vita”],

e l’uomo [הָאָדָם (haadàm), “il terroso”] divenne un essere vivente [נֶפֶשׁ חַיָּה (nèfesh khayàh), “anima(le) vivente]”. – Gn 2:7.

   Dopo questa immagine, il racconto prosegue con tre scene che nella terminologia teatrale si chiamerebbero quadri, ovvero tre scene a sipario aperto in cui non avviene nessun cambiamento di scena se non l’ingresso o l’uscita di un personaggio. Nel terzo quadro fa la sua apparizione la donna.

   Primo quadro. Appare Dio che delibera: “Non è bene che l’uomo sia solo; io gli farò un aiuto conveniente a lui” (Gn 2:18). La scena è suggestiva: Tutto appare perfetto, ma Dio si ferma per riflettere su un vuoto che ha notato nella sua creazione. “Il terroso” (הָאָדָם, haadàm, “Adamo”) che Dio “pose nel giardino dell’Eden” (v. 15), ovvero ἐν τῷ παραδείσῳ (en to paradèiso), “nel paradiso” (Ibidem, LXX), non poteva essere felice stando da solo: “Non è bene che l’uomo stia solo” (Gn 2:18, TNM). L’agiografo ispirato sembra conoscere molto bene la psicologia umana e sa dell’attrazione dei sessi. Il maschio non è un essere umano completo. E Dio dice: “Gli farò un sostegno come una che gli sta di fronte [עֵזֶר כְּנֶגְדֹּו (èser kenegdò)]” (traduzione letterale dal testo ebraico).

   Secondo quadro. Adamo (אָדָם, adàm, “terroso”) passa in rassegna gli animali, ma “ma per l’uomo non si trovò un sostegno come una che gli sta di fronte” (Gn 2:20, traduzione dal testo ebraico). L’unico risultato è che Adamo signoreggia il mondo animale: “In qualunque modo l’uomo avesse chiamato ogni essere vivente, quello doveva essere il suo nome. E l’uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi” (vv. 19,20). Nel linguaggio biblico, imporre il nome significa avere autorità su chi riceve il nome. Ma, alla fine, Adamo era sempre solo.

   Terzo quadro. Dio pone rimedio alla solitudine di Adamo. Gli dà una compagna. Costei gli è molto intima: è tratta dalla sua metà (Gn 2:21,22; si veda al riguardo lo studio Eva da una costola di Adamo?, in questa stessa sezione). Lo stupore di Adamo è pari alla sua soddisfazione: “Questa finalmente è ossa delle mie ossa e carne della mia carne” (v. 23). La chiama “uoma [אִשָּׁה (ishà); femminile di אִישׁ (ysh), “uomo”] perché è stata tratta dall’uomo [אִישׁ (ìsh)]” (v. 23). Adamo sente una forte attrazione per colei che completa il suo essere. Adamo si riconosce in lei, tanto che le dà un nome. Non le dà un nome per imporre la sua autorità su di lei, perché nel darle un nome lo dà anche a se stesso. Ora non è più semplicemente un “terroso” (אָדָם, adàm): ora lui è אִישׁ (ysh), “uomo”, e lei è אִשָּׁה (ishà), “donna”. Lei è davvero il suo “sostegno come una che gli sta di fronte [עֵזֶר כְּנֶגְדֹּו (èser kenegdò)]” (Gn 2:18). La donna realizza l’uomo nel farlo suo sposo. Questo pieno completamento del maschio è sottolineato dall’agiografo così: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una sola carne” (v. 24). L’uomo prova per la donna un amore tale da strapparlo dai genitori per stare sempre con lei e con lei formare una cosa sola, “una sola carne”.

   Yeshùa conferma l’indissolubilità di questa “sola carne”, riunendo insieme i due racconti della creazione: “’L’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà con la propria moglie, e i due diverranno una sola carne’. E così non sono più due, ma una sola carne; quello dunque che Dio ha unito insieme, l’uomo non lo separi”. – Mt 19:5,6; cfr. 1Cor 6:16, Ef 5:31.

Priorità di ordine e non di dignità

   È un fatto che la Bibbia pone in sequenza prima la creazione dell’uomo e poi quella della donna. Indica ciò una supremazia dell’uomo sulla donna? Se così fosse, gli animali sarebbero superiori all’uomo, dato che furono creati prima di lui. Si tratta quindi di una priorità di ordine: qualcuno per primo doveva essere creato. Non si dimentichi che nel primo racconto della creazione si dice semplicemente che “Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina” (Gn 1:27). Qualcuno potrebbe insistere nel domandarsi perché mai l’uomo fu creato prima e poi la donna. Noi una risposta ce la diamo. E non piacerà ai maschilisti. Notiamo che la creazione è tutto un crescendo: dalla vegetazione si passa agli animali e infine all’uomo. L’opera ultima di Dio fu la creazione della donna. In questo crescendo il culmine della creazione di Dio è lei: la donna, il capolavoro di Dio.

   Nella differenza, la pari dignità di uomo e donna era perfetta. Se proprio dobbiamo trovare una diversità, si deve dire che era il maschio ad essere mancante di qualcosa: da solo mancava di “un sostegno come una che gli sta di fronte [עֵזֶרכְּנֶגְדֹּו (èser kenegdò)]” (Gn 2:18). Fu il peccato a sconvolgere questa perfetta parità. Sebbene l’amore tra uomo e donna continuasse a persistere, in esso s’introdussero le passioni umane: il sesso divenne esacerbato, la vita dolorosa, la convivenza vide la prepotenza del più forte ovvero del maschio.

   La tanto decantata (dai bigotti della religione) frase di Sara: “Mio Signore” (Gn 18:12), da lei rivolta a suo marito Abraamo, non manifesta tutta quella gran sottomissione che si crede. Si legge in una rivista religiosa: “Sara ‘ubbidiva ad Abraamo, chiamandolo ‘signore’, non per semplice formalità o educazione, ma come riflesso della sua autentica sottomissione. (1 Pietro 3:6; Genesi 18:12)”. – La Torre di Guardia del 15 luglio 1994, pag. 12; l’errore di porre la citazione dopo il punto finale è dell’editore italiano, che lo ripropone costantemente.

   In verità, Sara chiamava Abraamo אדֹנִי (adonì). Il termine ebraico אדן (adòn), tradotto “signore”, non ha lo stesso valore che la parola assume oggi in occidente: adòn significa “padrone/signore”. Il servo di Abraamo parla di lui come del suo “padrone [אדן (adòn)] Abraamo” (Gn 24:27, TNM). In Ger 22:18 si legge: “Ahimè, signore, ahimè, maestà!”, che TNM traduce più correttamente: “Ohimè, o padrone [אדן (adòn)]!” In Gn 31:35 è una figlia che si rivolge al padre chiamandolo “mio signore”. La parola usata è sempre אדן (adòn) e la sfumatura è sempre quella di “signore-padrone”. Tale era la condizione femminile delle figlie rispetto al padre.

   Per ciò che riguarda le mogli, la condizione non era diversa. Betsabea, moglie del re Davide, si rivolge al marito chiamandolo “mio signore” (1Re 1:17). È fuori luogo questo commento: “Betsabea trovò conforto nel marito pentito, più volte lo chiamò ‘mio signore’, come aveva fatto Sara. (1Re 1:15-21; 1Pt 3:6)” (Perspicacia nello studio delle Scritture, Vol. I, pag. 355). Il contesto rende più chiara la situazione: “Mio signore [אֲדֹנִי (adonì)], fosti tu a giurare per Geova tuo Dio alla tua schiava” (1Re 1:17, TNM); Betsabea si definisce “schiava” e, conformemente, chiama il marito “signore/padrone”.

   Per essere ancora più chiari, si legga Es 21:22: “Se durante una rissa qualcuno colpisce una donna incinta e questa partorisce senza che ne segua altro danno, colui che l’ha colpita sarà condannato all’ammenda che il marito della donna gli imporrà”. Qui il semplice lettore non trova nulla di strano: la parola usata dalla traduzione è “marito”. Quale fosse la posizione del “marito” in quella società maschilista lo si deduce molto chiaramente dal vocabolo ebraico che la Bibbia usa: בַּעַל (baàl), “padrone”. Forse per evitare tale parola, TNM peggiora le cose e la rende ancor più crudamente con “proprietario [בַּעַל (baàl), “padrone”] della donna”.

   Che אדן (adòn, “signore”) abbia significato analogo a בַּעַל (baàl, “padrone”), è evidente anche da Is 54:1: “I figli dell’abbandonata saranno più numerosi dei figli di colei che ha marito”. Non ci si faccia ingannare dalla traduzione “colei che ha marito” (“donna con un proprietario maritale”, TNM): l’ebraico ha בְעוּלָה (veulàh), che è il participio passato del verbo בעל (baàl), “dominare”. Questo verbo lo troviamo in Dt 21:13: בְעַלְתָּהּ (vealtàh), tradotto da ND con l’eufemismo “sarai suo marito” e da TNM con “devi prenderne possesso come tua sposa”. Letteralmente significa “la dominerai”.

   Non si confonda il pensiero di Dio con quello umano (Is 55:8). La condizione femminile descritta sopra – l’essere una specie di schiava prima del padre e poi del marito – è quella della donna dopo il peccato. La Bibbia si limita a prenderne atto. Così era in quella società maschilista. La donna era trattata come una proprietà, tanto che il “marito” (direbbe oggi l’occidentale) ovvero il “signore/padrone” (dice la Bibbia) poteva ripudiarla. “Nel caso che un uomo prenda una donna e in effetti ne faccia il suo possesso come moglie, deve quindi accadere che se essa non trova favore ai suoi occhi perché egli ha trovato qualcosa di indecente da parte di lei, deve anche scriverle un certificato di divorzio e metterglielo in mano e congedarla dalla sua casa” (Dt 24:1, TNM). Il Siracide, sebbene non appartenente al canone biblico, testimonia la mentalità maschilista della società ebraica di allora: “Dalla donna ha avuto inizio il peccato, per causa sua tutti moriamo . . . Se non cammina al cenno della tua mano, toglila dalla tua presenza” (Ecclesiastico 25:24-26, CEI); in pratica: se non obbedisce, cacciala via.

   Era giusto tutto ciò? Certo che no. Perché allora quella clausola nella Bibbia? Lo spiega bene Yeshùa:

“Dei farisei si avvicinarono a lui per metterlo alla prova, dicendo: ‘È lecito a un marito mandare via la moglie?’ Egli rispose loro: ‘Che cosa vi ha comandato Mosè?’ Essi dissero: ‘Mosè permise di scrivere un atto di ripudio e di mandarla via’. Gesù disse loro: ‘È per la durezza del vostro cuore che Mosè scrisse per voi quella norma; ma al principio della creazione Dio li creò maschio e femmina. Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una sola carne. Così non sono più due, ma una sola carne. L’uomo, dunque, non separi quel che Dio ha unito”. – Mr 10:2-9.

   “Mosè permise”, e Yeshùa ne spiega il motivo: la durezza del loro cuore. Il fatto è che la condizione della donna nel mondo antico era davvero squallida. Così era. Regolare questa realtà era il massimo che si potesse fare. Infatti, dagli ebrei la donna era trattata molto meglio (o molto meno peggio, se si preferisce) che non dai pagani. Tuttavia, questa condizione in cui l’uomo era considerato il padrone della moglie era così radicata che dopo l’affermazione di Yeshùa c’è un commento molto triste da parte degli astanti: “Se tale è la condizione dell’uomo con sua moglie, non è consigliabile sposarsi” (Mt 19:10, TNM). A fare questo commento – lo si noti – non furono i farisei, ma gli stessi discepoli di Yeshùa: “I discepoli gli dissero” (Mt 19:10, TNM). Questo fu uno di quei casi in cui Yeshùa lasciò perdere: non sarebbero stati in grado di capire, non erano pronti. Altre volte Yeshùa disse loro: “Anche voi siete ancora senza intendimento? Non capite”. – Mt 15:16,17.

   È con questa mentalità dura a morire che Pietro parla delle “sante donne che speravano in Dio, restando sottomesse ai loro mariti, come Sara che obbediva ad Abraamo, chiamandolo signore” (1Pt 3:5,6). La congregazione dei discepoli di Yeshùa non era composta da rivoluzionari. La società era quella che era e loro si attenevano ai costumi. Così, Paolo può dire: “Mogli, siate sottomesse ai vostri mariti” (Ef 5:22). E lo dice nello stesso modo in cui dice: “Servi [“schiavi”, TNM], ubbidite ai vostri padroni” (Ef 6:5). Era giusto avere schiavi? Certo che no. Ma Paolo non era un sovversivo, e non lo erano i discepoli di Yeshùa. Paolo stesso, che nulla fa per sovvertire la società di allora, sapeva bene che sarebbe venuto il tempo escatologico in cui davvero “non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina” (Gal 3:28). Nel frattempo, pur non lottando per cambiare una società che sarà Dio stesso a cambiare, rimane valido il consiglio pietrino: “Voi, mariti, vivete insieme alle vostre mogli con il riguardo dovuto alla donna, come a un vaso più delicato. Onoratele, poiché anch’esse sono eredi con voi della grazia della vita”. – 1Pt 3:7.

   La subordinazione della donna all’uomo era un dato di fatto, certo non in armonia con il pensiero originale di Dio, ma pur sempre una realtà della condizione umana dopo il peccato.

   “Esse [le donne] sono eredi con voi della grazia della vita” (1Pt 3:7). A differenza delle religioni pagane che assimilavano la donna alla “madre terra”, la Bibbia identifica la donna con la vita. La prima donna ebbe un nome naturale: Eva, חַוָּה (khavàh), “vivente” (Gn 3:20). La traduzione greca dei LXX traduce il nome di Eva con Ζωή (zoè), “vita”. La “grazia della vita” avviene per grazia di Dio attraverso la donna. A causa del peccato la trasmissione della vita avviene da parte della donna con la propria sofferenza: “Con dolore partorirai figli” (Gn 3:15), ma è la donna che rimane principio di vita per l’intera umanità. Dice Dio: “Io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la progenie di lei; questa progenie ti schiaccerà il capo” (Gn 3:15). Mentre il maligno non ha possibilità ed è condannato a perire con lo schiacciamento della testa, la donna trionfa sulla morte e assicura la continuità del genere umano. Mai altrove nella Bibbia si usa l’espressione “seme” (זַרְעָ, zarà) riferito ad una donna”, qui tradotto “progenie”; la LXX greca, in armonia col testo ebraico, traduce con σπέρμα (spèrma), “seme”.