Tenendo ben presente che la situazione femminile descritta nella Bibbia non è conforme al disegno iniziale di Dio, ma che è solo conseguenza del peccato di ambedue i nostri progenitori, vediamo la sua situazione reale ai tempi biblici.

   Finché la donna viveva nella casa paterna, ella era del tutto sottomessa al padre. In pratica, il padre ne faceva quello che voleva. Poteva perfino venderla: la Bibbia parla del “caso che un uomo venda sua figlia come schiava” (Es 21:7, TNM). Come abbiamo già sottolineato – ma non sarà mai abbastanza – il pensiero di Dio era ben diverso: qui si parla degli usi e costumi della società maschilista di allora; deprecabile quanto si vuole, ma così era. La Legge di Dio arginava però questi comportamenti profondamente ingiusti: “Se uno vende la propria figlia come schiava, questa non se ne andrà come se ne vanno gli schiavi. Se lei non piace al suo padrone, che si era proposto di prenderla in moglie, deve permettere che sia riscattata; ma non avrà il diritto di venderla a gente straniera, dopo esserle stato infedele. Se la dà in sposa a suo figlio, dovrà trattarla secondo il diritto delle figlie. Se prende un’altra moglie, non toglierà alla prima né il vitto, né il vestire, né la coabitazione. Se non le fa queste tre cose, lei se ne andrà senza pagare nessun prezzo” (Es 21:7-10). Il padre-padrone poteva fare sposare la figlia a chi gli pareva: “Saul disse a Davide: ‘Ecco Merab, la mia figlia maggiore; io te la darò in moglie’ . . . Ma quando giunse il momento di dare Merab, figlia di Saul, a Davide, fu invece data in sposa ad Adriel il Meolatita . . . Mical, figlia di Saul, amava Davide; lo riferirono a Saul e la cosa gli piacque. Saul disse: ‘Gliela darò’” (1Sam 18:17,19,20,21). Questa situazione perdurava ancora nel 2° secolo prima della nascita di Yeshùa, come testimonia la letteratura non biblica del tempo. Eccone uno scampolo in cui si nota come la donna non avesse alcuna libertà nella scelta del marito, mentre l’uomo poteva comprarsi una moglie: “Una donna accetterà qualsiasi marito . . . [l’uomo] si procura una sposa” (Siracide 36:21,24, CEI). Come se non bastasse tutto ciò, il padre aveva sulla figlia diritto di vita e di morte: “Iefte fece un voto al Signore e disse: ‘Se tu mi dai nelle mani i figli di Ammon, chiunque uscirà dalla porta di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vincitore sugli Ammoniti, sarà del Signore e io l’offrirò in olocausto’ . . . Iefte tornò a Mispa, a casa sua; ed ecco uscirgli incontro sua figlia . . . egli fece di lei quello che aveva promesso”. – Gdc 11:30-39, passim; a dimostrazione che ciò avvenne, si veda il nostro studio Iefte sacrificò davvero sua figlia nella categoria Scritture Ebraiche della sezione Esegesi biblica.

   Se la donna aveva dei fratelli maschi, non ereditava alcunché: “Nel caso che un uomo muoia senza avere un figlio, dovete fare in modo che la sua eredità passi a sua figlia” (Nm 27:8, TNM). Quest’ultimo comando fu dato da Dio stesso. Ancora una volta si vede come quella società maschilista era regolata da Dio che ne arginava gli eccessi. Se fosse stato per loro, le figlie non avrebbero avuto nulla, ma Dio regolò la questione con il meno peggiore dei mali. Quando un tale Zelofead morì, non lasciò figli maschi, ma solo cinque figlie (Nm 27:1). Sorse allora un problema di eredità e le figlie di Zelofead chiesero la parte di terra che spettava loro. Il caso fu sottoposto a Dio che decretò che le figlie ereditassero la proprietà tribale del padre. Ciò costituì poi un precedente legale.

   La nascita stessa di una femmina era considerata causa di maggiore impurità per la madre: “Quando una donna sarà rimasta incinta e partorirà un maschio, sarà impura per sette giorni; sarà impura come nei giorni del suo ciclo mestruale . . . La donna poi resterà ancora trentatré giorni a purificarsi del suo sangue . . . Ma, se partorisce una bambina, sarà impura per due settimane come nei giorni del suo ciclo mestruale; e resterà sessantasei giorni a purificarsi del suo sangue”. – Lv 12:1,4,5.

   La donna fidanzata aveva gli stessi doveri di quella sposata. Se era infedele, veniva lapidata: “Quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo, trovandola in città, si corica con lei, condurrete tutti e due alla porta di quella città, e li lapiderete a morte” (Dt 22:23,24). Così la Legge. La pratica era un po’ diversa: “Gli scribi e i farisei gli condussero [a Yeshùa] una donna colta in adulterio; e, fattala stare in mezzo, gli dissero: ‘Maestro, questa donna è stata colta in flagrante adulterio. Or Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare tali donne’” (Gv 8:3-5). Si notano qui due atteggiamenti maschilisti. Quegli scribi e farisei dicono: “Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare tali donne”, la Legge diceva invece: “Condurrete tutti e due alla porta di quella città, e li lapiderete a morte”. Il secondo atteggiamento riprovevole è dato dalla dichiarazione: “questa donna è stata colta in flagrante adulterio”, come se fosse stata lei sola a commettere adulterio. E quel grand’uomo così “coraggioso”, suo complice d’adulterio, che fine aveva fatto? Sparito. Comunque, quei maschilisti “dicevano questo per metterlo alla prova, per poterlo accusare” (v. 6); forse conoscevano la propensione di Yeshùa per le donne (Mt 27:55; Lc 8:3,23:49; Mr 15:41). La risposta di Yeshùa li spiazzò: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (v. 7). “Essi, udito ciò, e accusati dalla loro coscienza, uscirono a uno a uno, cominciando dai più vecchi fino agli ultimi; e Gesù fu lasciato solo con la donna che stava là in mezzo. Gesù, alzatosi e non vedendo altri che la donna, le disse: ‘Donna, dove sono quei tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata?’ Ella rispose: ‘Nessuno, Signore’. E Gesù le disse: ‘Neppure io ti condanno; va’ e non peccare più’”. – Vv. 9-11.

   Ben poco si poteva fare per modificare quella mentalità maschilista, ma la Legge almeno poteva mitigare le cose in difesa delle donne: “Se uno seduce una fanciulla non ancora fidanzata e si unisce a lei, dovrà pagare la sua dote e prenderla in moglie. Se il padre di lei rifiuta assolutamente di dargliela, il seduttore pagherà una somma pari alla dote che si è soliti dare per le fanciulle” (Es 22:16,17). “Non affliggerete la vedova” (Es 22:22). “Se l’uomo trova per i campi la fanciulla fidanzata e facendole violenza si corica con lei, allora morirà soltanto l’uomo che si sarà coricato con lei; non farai niente alla fanciulla; nella fanciulla non c’è colpa degna di morte” (Dt 22:25,26). “Quando un uomo trova una fanciulla vergine che non sia fidanzata, e l’afferra e si corica con lei e sono sorpresi, l’uomo che si è coricato con lei darà al padre della fanciulla cinquanta sicli d’argento e lei sarà sua moglie, perché l’ha disonorata; e non potrà mandarla via per tutto il tempo della sua vita”. – Dt 22:28,29.

   La donna passava poi dal padre-padrone al “marito”, ovvero al suo adòn (אדן), “signore” o suo baàl (בַּעַל), “padrone”. Aveva un po’ di respiro durante i fasti nuziali, ma subito tornava alla realtà. I lavori più pesanti erano i suoi. Erano le donne a occuparsi del duro lavoro della macinatura (Lc 17:35). Fare il pane e le focacce era compito delle donne (1Sam 8:13). “Le donne escono ad attinger acqua” (Gn 24:11; cfr. Es 2:16, 1Sam 9:11, Gv 4:7); e non solo: dovevano abbeverare pure le bestie. – Es 2:16; Gn 24:17-20.

   È scandaloso per noi il comportamento di Lot, nipote di Abraamo, che per difendere i messaggeri divini ospiti in casa sua, propone ai sodomiti che vogliono avere rapporti omosessuali con loro: “Vi prego, fratelli miei, non fate questo male! Ecco, ho due figlie che non hanno conosciuto uomo: lasciate che io ve le conduca fuori, e voi farete di loro quel che vi piacerà; ma non fate nulla a questi uomini” (Gn 19:7,8). Come pure è scandaloso ciò che poi fanno le sue due figlie: “La maggiore disse alla minore: ‘Nostro padre è vecchio, e non c’è più nessuno sulla terra per mettersi con noi, come si usa in tutta la terra. Vieni, diamo da bere del vino a nostro padre, e corichiamoci con lui, perché possiamo conservare la razza di nostro padre’” (Gn 19:31,32). Forse questo episodio incestuoso ci predispone un po’ contro le donne dell’epoca patriarcale, ma ci dice anche come quelle donne trovassero normale agire così per “conservare la razza”, abituate com’erano a essere proprietà del padre-padrone. Ovviamente la Bibbia condannava l’incesto (Lv 18:6-18). Comunque, l’agiografo ci spiega: “Così le due figlie di Lot rimasero incinte del loro padre. La maggiore partorì un figlio, che chiamò Moab. Questi è il padre dei Moabiti, che esistono fino al giorno d’oggi. Anche la minore partorì un figlio, che chiamò Ben-Ammi. Questi è il padre degli Ammoniti” (Gn 19:36-38). Moabiti e ammoniti furono e dovevano rimanere nemici degli israeliti per sempre: “L’Ammonita e il Moabita non entreranno nell’assemblea del Signore; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nell’assemblea del Signore; non vi entreranno mai” (Dt 23:3,4). Nello stesso modo agì Tamar, nuora di Giuda figlio di Giacobbe. – Gn 38:13-18.

   Generalmente le donne dovevano stare in casa e le finestre avevano fitte grate in modo che non potessero essere viste: “Il mio caro . . . sta dietro il nostro muro, guardando fisso attraverso le finestre, spiando attraverso le grate” (Cant 2:9, TNM), “La madre di Sisera guarda dalla finestra e grida attraverso l’inferriata” (Gdc 5:28). Anticamente potevano uscire solo se coperte da un velo: “Ella, preso il velo, si coprì” (Gn 24:65), “Ella si tolse le vesti da vedova, si coprì d’un velo, se ne avvolse tutta e si mise seduta alla porta di Enaim” (Gn 38:14), “Come sei bella, amica mia, come sei bella! I tuoi occhi, dietro il tuo velo . . .” (Cant 4:1; cfr. v. 3 e 6:7). Parlare ad una donna per strada era considerato molto sconveniente: “Giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che egli [Yeshùa] parlasse con una donna; eppure nessuno gli chiese: ‘Che cerchi?’ o: ‘Perché discorri con lei?’”. – Gv 4:27.

   Questa era la situazione. E forse, per certi versi, lo è ancora. Di certo lo è, e ben peggiore, per ciò che riguarda le donne mussulmane. Ci rattrista molto leggere, ancor oggi, questa definizione della donna in un’opera religiosa: “Femmina fisicamente adulta della specie umana” (Perspicacia nello studio delle Scritture, Vol. I, pag. 723). Come definizione dell’uomo si dà invece questa: “La più alta forma di vita terrestre creata”. – Ibidem, Vol. II, pag. 1164.

   Com’è oggi la situazione della donna nell’ebraismo? Ogni mattina l’ebreo praticante recita nella preghiera mattutina (detta shakhrìt): “Benedetto Tu Hashèm [= il Nome], nostro Dio Re del mondo, che non mi hai creato donna (la donna dice: Che mi ha cerata secondo la sua volontà)” (Libro di Preghiere, Rito sefardita, Edizioni DLI, pag. 27). Chi non conosce l’ebraismo non s’inganni. Nell’ebraismo le donne sono esonerate da alcuni obblighi perché ritenute più sensibili nel rapporto con Dio. Mentre l’uomo deve essere continuamente richiamato ai suoi doveri e quindi deve attenersi ad una serie di norme, la donna si ritiene abbia un rapporto privilegiato e più diretto con Dio. In pratica, l’ebreo maschio sta dicendo nella sua preghiera: Signore, se tu mi avessi fatto donna, ora non sarei obbligato a servirti adempiendo tutte queste norme; così egli mostra il suo piacere nel dover compiere i suoi obblighi. Quando si entra in sinagoga, è l’uomo a doversi coprire il capo, non la donna. È detto nel Talmùd: “Le donne sono esenti dagli obblighi formulati con ‘tu devi’” (Kid 1,7). Non è però vietato alle donne praticare i doveri imposti all’uomo. Dicono i rabbini: “Davanti a tutti i precetti della Torà uomini e donne sono sullo stesso piano”. – Baba Kamma, XV a.

Il riguardo di Dio per la donna

   Nel Decalogo ci sono due comandamenti che riguardano in modo particolare il rispetto dovuto alla donna. Il quinto Comandamento recita: “Onora tuo padre e tua madre” (Es 20:12); l’ultimo Comandamento ordina: “Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva” (Es 20:17). Anche nel quarto Comandamento si mostra riguardo per le donne: “Ricòrdati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa’ tutto il tuo lavoro, ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al Signore Dio tuo; non fare in esso nessun lavoro ordinario, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva”. – Es 20:8-10.

   Desideriamo far notare alcun aspetti dell’ultimo Comandamento che le traduzioni spesso fanno svanire. Ci riferiamo alla redazione deuteronomica del Decalogo. In Es 20:17 si legge: “Non devi desiderare la casa del tuo prossimo. Non devi desiderare la moglie del tuo prossimo né il suo schiavo né la sua schiava né il suo toro né il suo asino né alcuna cosa che appartiene al tuo prossimo” (TNM). Nella versione posteriore, quella deuteronomica, il decimo Comandamento è espresso così: “Né devi desiderare la moglie del tuo prossimo. Né devi egoisticamente bramare la casa del tuo prossimo, né il suo campo né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo toro né il suo asino né alcuna cosa che appartiene al tuo prossimo” (Dt 5:21, TNM). L’ebraico ha, nel caso della donna, לֹא תַחְמֹד (lo takhmòd) e nel caso della proprietà privata לֹא תִתְאַוֶּה (lo titavèh). Intanto, notiamo che la redazione deuteronomica, quella finale, pone la donna prima della proprietà privata. Notiamo poi che la donna viene tenuta separata dal resto. In Es si comandava, da una parte, di non desiderare la casa altrui e poi, in un secondo troncone, la moglie altrui, elencata insieme agli schiavi e agli animali domestici. In Dt si ha una suddivisione diversa del decimo Comandamento: prima di tutto si vieta di desiderare la moglie altrui, poi la proprietà privata (casa, campo, schiavi, animali domestici e tutto quanto è privato). Comunque, ciò che vogliamo sottolineare è l’uso di due verbi diversi tra loro. Ci sembra che PdS renda bene la differenza: “Non desiderare [תַחְמֹד (takhmòd)] la moglie di un altro . . . Non volere per te [תִתְאַוֶּה (titavèh)] quel che gli appartiene”.

   La Scrittura vuol quindi dare una diversa importanza alla donna. Dio afferma così il valore della donna come persona. (Agostino, tra parentesi, approfittò della presenza di questi due verbi diversi per giustificare lo sdoppiamento del decimo Comandamento in nono e decimo per compensare l’unione dei primi due Comandamenti e far sparire arbitrariamente il divieto di farsi statue e immagini, cosa di cui la Chiesa Cattolica continua a essere colpevole da secoli. Il decimo Comandamento è unico e unico rimane; lo sdoppiamento non ha giustificazioni, se non quelle cattoliche e non bibliche).

   La considerazione per la donna si nota anche nelle redazioni finali della Toràh. La prescrizione di Es 21:2-4 diceva: “Se compri uno schiavo ebreo . . .”. La versione finale, quella deuteronomica, è così corretta: “Se un tuo fratello ebreo o una sorella ebrea si vende a te . . .” (Dt 15:12-15). Non solo lo “schiavo”, essendo ebreo, viene chiamato fratello, ma si noti che prima si trattava di “uno schiavo”, ora di “un tuo fratello ebreo”, in modo più personalizzato. Accanto a lui viene messa “una sorella ebrea”, dandole lo stesso statuto giuridico maschile. Lei è come l’uomo, tanto che lei pure può decidere personalmente, una volta maturato il tempo del riscatto, se andarsene o rimanere col padrone. – Vv. 16-18.

   Tale riconoscimento della dignità della donna come persona si riscontra in altri testi definitivi della Toràh. Dt 21:10-14 tratta delle donne belle catturate in guerra. Se un israelita, cui le è toccata come bottino, la vuole sposare, prima lei “piangerà suo padre e sua madre per un mese intero; poi entrerai da lei e tu sarai suo marito e lei tua moglie. Se poi non ti piace più, la lascerai andare dove vorrà, ma non la potrai in alcun modo vendere per denaro né trattare da schiava, perché l’hai umiliata”. I sentimenti di lei vanno quindi rispettati. Ricompare qui il rispetto per la donna come persona. Nel contesto di allora, in cui era consentita la schiavitù, questo testo legale è notevole. I popoli pagani vicini di Israele non avevano tutti questi riguardi.

   Dt 22:13-21 prevede tutta una serie di accorgimenti per non permettere che una “vergine d’Israele” sia disonorata:

“Quando un uomo sposa una donna, entra da lei, e poi la prende in odio, le attribuisce azioni cattive e disonora il suo nome, dicendo: ‘Ho preso questa donna e, quando mi sono accostato a lei, non l’ho trovata vergine’, allora il padre e la madre della giovane prenderanno le prove della verginità della giovane e le presenteranno davanti agli anziani della città, alla porta. Il padre della giovane dirà agli anziani: ‘Io ho dato mia figlia in moglie a quest’uomo; egli l’ha presa in odio, ed ecco che le attribuisce azioni cattive, dicendo: Non ho trovato vergine tua figlia. Ora ecco le prove della verginità di mia figlia’, e mostreranno il lenzuolo davanti agli anziani della città. Allora gli anziani di quella città prenderanno il marito e lo castigheranno; e, per aver diffamato una vergine d’Israele, lo condanneranno a un’ammenda di cento sicli d’argento, che daranno al padre della giovane. Lei rimarrà sua moglie ed egli non potrà mandarla via per tutto il tempo della sua vita. Ma se la cosa è vera, se la giovane non è stata trovata vergine, allora si farà uscire quella giovane all’ingresso della casa di suo padre, e la gente della sua città la lapiderà a morte, perché ha commesso un atto infame in Israele, prostituendosi in casa di suo padre. Così toglierai via il male di mezzo a te”.

   In Dt 22:28,29 si parla dello stupratore che non solo dovrà pagare una consistente ammenda, ma dovrà sposare la donna che ha violentato e non potrà mai più separasi da lei: “Quando un uomo trova una fanciulla vergine che non sia fidanzata, e l’afferra e si corica con lei e sono sorpresi, l’uomo che si è coricato con lei darà al padre della fanciulla cinquanta sicli d’argento e lei sarà sua moglie, perché l’ha disonorata; e non potrà mandarla via per tutto il tempo della sua vita”. Anche qui si afferma che la donna ha un onore e che questo deve essere riconosciuto.

   In Dt 24:5 contiene una articolo di legge che tutte le legislazioni del mondo possono solo sognarsi di avere: “Un uomo sposato da poco non andrà alla guerra e non gli sarà imposto alcun incarico; sarà libero per un anno di starsene a casa e farà lieta la moglie che ha sposata”. Secondo questa norma così avanzata, i diritti dello sposo novello e della sposa novella vengono prima di quelli della comunità e perfino dello stato.

   Certo va detto che quell’antica società rimaneva maschilista. D’altra parte questa era conseguenza del peccato umano delle origini (Gn 3:16). Nonostante ciò, dentro quest’orizzonte maschilista la personalità della donna mantiene la sua consistenza.