Dilemma insolubile?

   Rimane insoluta, almeno finora, la tensione tra due affermazioni bibliche fatte dal medesimo autore ispirato e addirittura nello stesso scritto. La presenza contemporanea della sicura approvazione della profezia femminile (1Cor 11) e della sicura imposizione del silenzio alle donne (1Cor 14) sembrerebbe presentare un dilemma destinato a restare insolubile. Tutte le ipotesi esaminate nel precedente studio si sono rivelate molto deboli e difettose nel vano tentativo di conciliare l’apparente incongruenza tra le due prese di posizione contrastanti che troviamo nel testo biblico.

Il comando che le donne stiano in silenzio è attribuibile agli scribi?

 

   A completamento della nostra accurata analisi va detto che ci sono anche i tentativi di spiegare la contrapposizione dei due passi paolini ricorrendo all’ipotesi che il testo genuino di Paolo sia stato corrotto dagli scribi che lo ricopiarono.

   Questa ipotesi appare un po’ complessa, per cui va spiegata bene. Gli studiosi che la sostengono fanno notare che il pensiero attribuito a Paolo nella sua prima lettera a Timoteo, in 2:11,12 (“La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d’insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio”), non è conforme al suo comportamento sempre favorevole alle donne. Così, essi dicono, la 1Tm è un documento tardo, scritto quando Paolo era già morto e in un tempo in cui le donne sarebbero state insubordinate causando disordini. In base a questa – che è già un’ipotesi – viene poi formulata un’altra ipotesi: per accordare la 1Cor con la nuova situazione dopo la morte di Paolo, alcuni scribi vi avrebbero inserito l’obbligo del silenzio per le donne. Forse – concedono alcuni di questi cosiddetti studiosi – si trattava all’inizio solo una nota, posta a margine da qualche scriba, che poi finì nel testo della lettera. Altri studiosi parlano invece di una manipolazione del testo paolino da parte di qualche responsabile della comunità di Corinto preoccupato di mantenere l’ordine nelle adunanze. Altri ancora parlano di manipolazione del testo nel secondo secolo e a cura di gnostici.

   Siamo insomma alle ipotesi basate sulle ipotesi. Eppure questa spiegazione è quella che ultimamente sta raccogliendo maggiore consenso.

   Senza dover accogliere questa ipotetica ipotesi, va detto che questi studiosi hanno il merito di riconoscere che Paolo non era maschilista, anzi tutt’altro. Degna di nota è la loro attenzione su 1Cor 14:31: “Tutti potete profetare a uno a uno, perché tutti imparino e tutti siano incoraggiati”. L’aggettivo πάντες (pàntes), “tutti”, espresso al maschile plurale, non comprova in sé che possa includere le donne; potrebbe riferirsi solo ai maschi oppure a uomini e donne, esattamente come il nostro “tutti”. Ma esattamente come nel caso del nostro “tutti”, anche per il greco pàntes è il contesto che indica se esso si riferisca ai soli maschi o ad ambedue i sessi. Il contesto di 1Cor 14:31 mostra che il “tutti” è senza alcun dubbio riferito a uomini e donne, perché sono gli stessi “tutti” che devono imparare ed essere incoraggiati: “Perché tutti imparino e tutti siano incoraggiati”. Sarebbe insostenibile pensare che a Corinto o altrove solo i maschi dovessero imparare ed essere incoraggiati. Ciascuna delle tre volte che Paolo menziona “tutti” – “Tutti potete profetare a uno a uno, perché tutti imparino e tutti siano incoraggiati” – ha davvero in mente proprio tutti, uomini e donne.

   La stessa considerazione, a maggior ragione, vale per 1Cor 14:26: “Quando vi radunate, uno ha un salmo, un altro ha un insegnamento, un altro ha una rivelazione, un altro ha una lingua, un altro ha un’interpretazione. Ogni cosa abbia luogo per l’edificazione” (TNM). Qui Paolo non dice “uno ha … un altro ha” (TNM), ma dice: ἕκαστος ἔχει (èkastos èchei), “ciascuno ha”. “Ciascuno” (èkastos) include ciascun credente di Corinto, uomo o donna che sia. Si noti poi che Paolo afferma che “ciascuno” di loro ha “un salmo, o un insegnamento, o una rivelazione, o un parlare in altra lingua, o un’interpretazione”, il che dimostra che anche una donna può insegnare.

   A questo punto occorre dire che il comando che impone il silenzio alle donne appare ancora di più in contrasto con il pensiero di Paolo espresso in 1Cor 11:5 in cui la profetessa è posta alla pari del profeta (v. 5). Non si dimentichi poi l’inconciliabilità dell’imposizione del silenzio alle donne con Gal 3:28 in cui Paolo afferma: “Non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù”. Per la precisione Paolo specifica che “non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina”; anche se qualche schiavista potesse sostenere insensatamente che gli schiavi dovessero stare in silenzio nelle adunanze, nessuno può sostenere che i greci dovessero stare zitti e potessero parlare solo i giudei; allo stesso modo, quindi uomini e donne avevano la stessa libertà di parola.

   Tornando alla sezione di 1Cor 14:26-38, va notato che i versetti 34 e 35, quelli che si riferiscono al silenzio delle donne, effettivamente stridono nel contesto e vi fanno irruzione turbandone l’armonia. Se proviamo a toglierli, tutto fila via liscio e in modo logico. L’analisi critica del testo rivela poi che i vv. 34 e 35 non sono espressi con il linguaggio paolino. Quando Paolo esprime dei divieti lo fa usando imperativi diretti, mentre qui si ha la formula impersonale propria dei codici legali. Anche l’espressione “le chiese dei santi” (v. 34) non è paolina. Ciò che più sorprende in questi due versetti è il riferimento alla Legge: “Stiano sottomesse, come dice anche la legge” (v. 34). Dove mai nella Legge è detto qualcosa di simile? In TNM l’unico riferimento che gli editori riescono a fare è il rimando a Gn 3:16 che c’entra come i cavoli a merenda e che nulla ha a che fare con gli ordinamenti della Legge. Il modo stesso di richiamarsi alla Legge non è quello tipico di Paolo.

   Tutti questi fattori fanno propendere diversi studiosi per l’interpolazione del testo paolino. C’è poi un altro argomento che pare decisivo, e questo riguarda i manoscritti. Ben quattro codici hanno i vv. 34 e 35 alla fine del cap 14 di 1Cor, il che confermerebbe la teoria della nota apposta successivamente da uno scriba. Di questi quattro codici, che sono il lettere maiuscole, il più antico è del 6° secolo. Essi sono:

  • Codice Dp (Codex Claromontamus), del 6° secolo, conservato a Parigi;
  • Codice E, dell’8° secolo, conservato a Basilea;
  • Codice F (Codex Boreelianus), del 9° secolo, conservato a Utrecht;
  • Codice G (Codex Wolfii), del 9° secolo, conservato a Dresda.

   Oltre a questi codici, ben cinque manoscritti della Vetus Latina pospongono pure i vv. 34 e 35 alla fine di 1Cor 14. E così anche:

  • Il Reginensis della Vulgata, dell’8° secolo, conservato in Vaticano;
  • L’Ambrosiaster, del 4° secolo, conservato a Roma;
  • Il Sedulio Scopo, del 9° secolo.

    Lo studioso tedesco G. Fitzer non ha dubbi: quei due versetti non solo di Paolo.

Paolo si opporrebbe a dei maschilisti di Corinto?

   Nel secolo scorso prese forma una nuova spiegazione ad opera della traduttrice biblica Helen Barrett Montgomery, che nel 1924 tradusse il controverso passo paolino anteponendovi la frase “voi scrivete”, così da riferire ai corinti il divieto di parlare. A ben vedere, in 1Cor 7:1 Paolo fa proprio riferimento a uno scritto dei corinti: “Or quanto alle cose di cui mi avete scritto …”. In più, in 1Cor 1:11 Paolo accenna a ciò che gli è stato “riferito”, e ciò riguarda le contese che avevano. – Cfr. anche 5:1.

   Circa mezzo secolo dopo, riprendendo la tesi di Helen Montgomery, il gesuita N. M. Flanagan e Edwina Hunter Snyder corressero il “voi scrivete” in “voi dite” sulla base delle dicerie che giunsero agli orecchi di Paolo. – Biblical Theology Bullettin, 1981.

   Da allora una decina di autori hanno accolto questa ipotesi. Questa spiegazione, che attribuisce le frasi maschiliste ai corinti, spiegherebbe anche il linguaggio delle frasi che non è quello tipico paolino. E non solo, perché salvaguarderebbe anche il pensiero di Paolo che dà per scontato che le donne possano profetizzare in pubblico, risolvendo così una contraddizione che alla fine non sussiste.

   Che Paolo stia citando parole non sue viene comprovato dalle espressioni non paoline. A questo punto il contrasto con le espressioni paoline in favore delle donne non sono più un problema di contraddizione ma una prova che quelle parole maschiliste non erano sue.

   C’è di più. Dopo i famigerati vv. 34 e 35 di 1Cor 14, Paolo sbotta: Ἢ [È]… . Questa particella greca è pressoché trascurata nelle traduzioni, come fa NR che neppure la traduce: “La parola di Dio è forse proceduta da voi?”. La particella greca è però resa in modo corretto da TNM: “Che cosa? [Ἢ (È)] È uscita forse da voi la parola di Dio, o è pervenuta solo fino a voi?”. Potremmo addirittura mantenere il suono greco e rendere in italiano: “Eh?!”, in cui c’è tutto lo stupore scandalizzato di Paolo.

   Dopo aver riportato le parole dei corinti, Paolo erompe in un’esclamazione indignata. Pieno di sdegno, accusa quei corinti di arrogarsi l’esclusività della parola di Dio, che appartiene invece a tutti, alle donne come agli uomini.

   La particella greca ἤ (é) può esprimere stupore indignato e nel contempo avere un forte valore avversativo. Paolo la usa sovente con i corinti:

  • Che cosa! [ἤ (é)] Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio?”. – 1Cor 6:9, TNM.
  • Che cosa! [ἤ (é)] Non sapete voi che chi si unisce ad una meretrice è un solo corpo?”. – 1Cor 6:16, TNM.
  • Che cosa! [ἤ (é)] Non sapete che il corpo di voi è il tempio dello spirito santo che è in voi, il quale avete da Dio?”. – 1Cor 6:19, TNM.

   L’uso sdegnato della particella ἤ (é) è anche conforme al carattere di Paolo, come il porre domande retoriche la cui risposta è scontata al punto di mettere i dissidenti con le spalle al muro.

 

“Che cosa? È uscita forse da voi la parola di Dio, o è pervenuta solo fino a voi?”. – 1Cor 14:36, TNM.

 

   Il fatto che Paolo intervenga con sdegno, sbottando con quell’ἤ (é), avvalora l’idea che le parole precedenti non siano sue.

   Questa spiegazione risolve tutte le questioni. Ad essa può essere opposto solo il fatto che nei manoscritti non si trova una frase del tipo “voi scrivete” oppure “voi dite” che sia anteposta ai due versetti incriminati. Questa obiezione può valere solo se si ha in mente una pagina stampata delle nostre Bibbie. Nei manoscritti antichi le parole erano scritte tutte attaccate, senza segni diacritici e senza punteggiatura. Ad esempio, in 1Cor 6:9, TNM inserisce un punto di domanda, e fa bene, ma tale segno si cercherebbe invano nel testo greco. Lo si deve desumere dal contesto. Nello stesso versetto TMN mette un punto esclamativo nel tradurre ἤ (é); anche questo è appropriato, ma non solo quel segno non c’è nel testo greco, il punto esclamativo non esiste proprio nella lingua greca. Se i due versetti fossero una citazione del pensiero espresso da alcuni corinti, non troveremmo mai nel testo greco le virgolette tipiche delle citazioni come potremmo trovarle oggi nelle Bibbie moderne.

   Come già evidenziato, da 1Cor 7:1 sappiamo che Paolo sta rispondendo a una lettera dei corinti. Egli potrebbe quindi ripetere una loro dichiarazione e subito dopo replicare con sdegno, e senza per questo dover per forma premettere “voi scrivete” oppure “voi dite”; se la dichiarazione era la loro, sarebbe stato inutile ricordare che era la loro.

   C’è, comunque, nel testo greco un’evidenza che le parole di quei due versetti erano di alcuni corinti maschilisti. Si notino le parole della reazione risentita di Paolo: “Che cosa? È uscita forse da voi la parola di Dio, o è pervenuta solo fino a voi?” (1Cor 14:36, TNM). Si dirà che quel “voi” può essere riferito a tutti i corinti, uomini e donne. Letto così, nel testo italiano tradotto, potrebbe essere. Il testo greco rivela però altro:

εἰς ὑμᾶς μόνους κατήντησεν;

eis ymàs mònus katèntesen?

a voi soli giunse?

   Ciò è alquanto diverso dalla traduzione di TNM “è pervenuta solo fino a voi?”. Il testo biblico non ha un avverbio ma un aggettivo declinato concordemente a “voi”. Si tratta dell’aggettivo μόνος (mònos) che ha il senso di “unico”. Paolo sta quindi domandando retoricamente e con tono seccato: “Che cosa?! È forse uscita da voi la parola di Dio, siete voi gli unici (mònus) a cui è giunta?”.  Si dirà che non cambia molto perché anche “unici” può includere tutti i corinti. Così non è. Per il semplice fatto che quel rimprovero non si adatta alle donne. Dal contesto, infatti, non risulta che le donne volessero impedire agli uomini di parlare in pubblico. Piuttosto il rimprovero è rivolto a “qualcuno [che] pensa di essere profeta o dotato dello spirito” (v. 37, TNM). Evidentemente costoro, pensando di essere profeti, volevano decidere chi poteva profetizzare, così escludevano le donne.

   Le donne corinzie non dovevano essere docili e zuccherine. Il fatto che si acconciassero “alla maschietto” (cfr. lo studio Il velo svelato) la dice lunga sulla loro indole. La presa di posizione di alcuni corinti maschilisti è quindi spiegabile. Quei presuntosi maschi di Corinto sono poi rimproverati da Paolo.

   Si può sapere qualcosa in più di questi maschi arroganti contro cui Paolo si scaglia? Sì. Un indizio ci è dato dall’espressione “le chiese dei santi” (v. 33), che non è paolina. A quanto pare questa espressione si applica bene alla chiesa-madre di Gerusalemme e alle chiese della Giudea. In tal modo trova spiegazione anche il richiamo alla legge del v. 36. In più, dato che la Legge intesa come Toràh non presenta proprio alcun comando sulla sottomissione della donna, il riferimento è evidentemente alla famosa legge orale dei rabbini. La formula “non è permesso loro di” è tipica rabbinica. Di fatto, nelle sinagoghe le donne assistevano al culto stando in un luogo separato rispetto agli uomini e non era loro consentito di prendere la parola.

   Abbiamo così, qui a Corinto, che si ripresenta a Paolo quello che fu per lui il problema maggiore: quello dei giudaizzanti. Non sono Paolo dovette combattere aspramente contro chi pretendeva di imporre la circoncisione ai convertiti dal paganesimo, ma qui ora c’era chi voleva imporre gli usi sinagogali che concedevano la parola solo ai maschi.

   È sorprendente, meravigliosamente sorprendente, come da una semplice parolina greca – ἤ (é) nel nostro caso – si possa trovare la chiave interpretativa che tutto spiega in modo logico mettendo ogni cosa al suo posto e risolvendo tutte le apparenti contraddizioni. Va comunque dato merito di ciò a chi ha saputo avere l’intuizione giusta che ha poi permesso di analizzare a fondo il testo biblico. E, guarda caso, tale merito va tutto proprio a una donna: Helen Barrett Montgomery.

   Così, giustizia è stata fatta ancora una volta nei confronti di Paolo, confermandolo a favore delle donne, come lo era il suo maestro Yeshùa.

   Nello studio Il velo svelato abbiamo risolto il passo controverso di 1Cor 11:4-16. Qui quello problematico di 1Cor 14:33b-40. Rimangono altri due passi che creano difficoltà, e precisamente questi:

  • Ef 5:22,23: “Le mogli siano sottomesse ai loro mariti come al Signore, perché il marito è capo della moglie come anche il Cristo è capo della congregazione, essendo egli il salvatore di [questo] corpo”. – TNM.
  • 1Tm 2:11-15: “La donna impari in silenzio con piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di esercitare autorità sull’uomo, ma stia in silenzio. Poiché Adamo fu formato per primo, poi Eva. E Adamo non fu ingannato, ma la donna fu completamente ingannata e si trovò in trasgressione. Comunque, essa sarà tenuta in salvo per mezzo del parto, purché rimangano in fede e amore e santificazione insieme a sanità di mente”. – TNM.

    Di questi passi ci occuperemo nella prossima serie di studi, intitolata La donna nella consuetudine apostolica di Paolo.