Dalila (דְּלִילָה, Delylàh, “delicata”)
“[Sansone] si innamorò di una donna della valle di Sorec, che si chiamava Dalila”. – Gdc 16:4.
La Bibbia fornisce pochissime informazioni introducendo Dalila. Ci viene detto solo il suo nome, che Sansone si innamorò di lei e che viveva in Sorec. Quando la Bibbia però introdusse la moglie di Sansone, una donna filistea di Timna (Gdc 14:1), ne fece un’ampia descrizione: segno che il rapporto con lei era nel disegno di Dio (avrebbe offerto a Sansone l’occasione per combattere contro i filistei – cfr. Gdc 13:25–14:4; si veda la voce Prima moglie di Sansone). La Bibbia dunque non provvide informazioni su Dalila.
“I prìncipi dei Filistei salirono da lei [Dalila] e le dissero: ‘Tentalo, e vedi da dove viene quella sua gran forza, e come potremmo prevalere contro di lui per giungere a legarlo e a domarlo; e ti daremo ciascuno millecento sicli d’argento’. Dalila dunque disse a Sansone: ‘Dimmi, ti prego, da dove viene la tua gran forza e in che modo ti si potrebbe legare per domarti’”. – Gdc 16:5,6.
A quanto pare, sembra che tutti credano che Dalila fosse una filistea. Ma dove è scritto nella Bibbia? La Bibbia non dice che lei era una filistea. In effetti, poteva essere un’israelita. Se fosse stata una filistea, i principi dei filistei non avrebbero avuto bisogno di corromperla perché tradisse Sansone. Sansone era innamorato di Dalila (Gdc 16:4), Dalila evidentemente non amava Sansone. Le tragiche vicende accadute alla moglie di Sansone (Gdc 14:20–15:8) erano certamente note, e ciò può aver influito sulla mancanza di attaccamento da parte di Dalila. Tuttavia, la paura per la propria sicurezza aveva motivato la moglie di Sansone, mentre l’avidità aveva motivato Dalila. Fatto sta che Sansone, grande e grosso ma poco perspicace, inizia un gioco pericoloso con Dalila.
“Sansone le rispose: ‘Se mi si legasse con sette corde d’arco fresche, non ancora secche, io diventerei debole e sarei come un uomo qualsiasi’. Allora i prìncipi dei Filistei le portarono sette corde d’arco fresche, non ancora secche e lei lo legò con esse. C’era gente che stava in agguato, da lei, in una camera interna. Lei gli disse: ‘Sansone, i Filistei ti sono addosso!’ Egli ruppe le corde, come un filo di stoppa si rompe quando sente il fuoco. Così il segreto della sua forza rimase sconosciuto”. – Gdc 16:7-9.
Dalila lo ha ingannato, usando astuzie femminili, per ottenere le informazioni che cercava e per cui sarebbe stata pagata. A questo punto, Sansone dovrebbe essere sospettoso. Ma, per amore (e anche, forse, per stupidità) Sansone rimane con Dalila. “Poi Dalila disse a Sansone: ‘Ecco, tu mi hai beffata e mi hai detto delle bugie; ora dimmi, ti prego, con che cosa ti si potrebbe legare’. Egli le rispose: ‘Se mi si legasse con funi nuove che non fossero ancora state adoperate, io diventerei debole e sarei come un uomo qualsiasi’. Dalila dunque prese delle funi nuove, lo legò e gli disse: ‘Sansone, i Filistei ti sono addosso!’ C’era gente in agguato nella camera interna. Egli ruppe, come un filo, le funi che aveva alle braccia”. – Gdc 16:10-12.
Ancora una volta Dalila svela il suo inganno. Ancora una volta, Sansone rimane con Dalila. Paragonato alla reazione che ebbe per il tradimento di sua moglie (Gdc 14:20–15:8), questo sembra particolarmente strano. Sansone e Dalila non erano sposati, lui non aveva vincoli di matrimonio, e – anche se non aveva tenuto con sé la moglie, quella vera – da Dalila non si separa. Qualcuno potrebbe pensare al detto che l’amore rende stupidi.
“Dalila disse a Sansone: ‘Fino ad ora tu mi hai beffata e mi hai detto delle bugie; dimmi con che ti si potrebbe legare’. Egli le rispose: ‘Se tesserai le sette trecce del mio capo con il tuo telaio’. Lei le fissò al subbio, poi gli disse: ‘Sansone, i Filistei ti sono addosso!’ Ma egli si svegliò dal sonno e strappò via il subbio del telaio con l’ordito”. – Gdc 16:13,14.
Dalila, ancora una volta, mostra la sua astuzia. E Sansone fa ancora la figura del fesso: anzi, qui più che mai, perché si addormenta pure. Tuttavia, Sansone decide comunque di rimanere con lei.
“Lei gli disse: ‘Come fai a dirmi: Ti amo, mentre il tuo cuore non è con me? Già tre volte mi hai beffata, e non mi hai detto da dove viene la tua gran forza’. La donna faceva ogni giorno pressione su di lui con le sue parole e lo tormentava. Egli ne fu rattristato a morte e le aperse tutto il suo cuore e le disse: ‘Non è mai passato rasoio sulla mia testa, perché sono un nazireo, consacrato a Dio, dal seno di mia madre; se mi tagliassero i capelli, la mia forza se ne andrebbe, diventerei debole e sarei come un uomo qualsiasi”. – Gdc 16:15-17.
“Dalila, visto che egli le aveva aperto tutto il suo cuore, mandò a chiamare i prìncipi dei Filistei e fece dire loro: ‘Venite su, questa volta, perché egli mi ha aperto tutto il suo cuore’. Allora i prìncipi dei Filistei salirono da lei, e portarono con sé il denaro. Lei lo fece addormentare sulle sue ginocchia, chiamò un uomo e gli fece tagliare le sette trecce della testa di Sansone; così giunse a domarlo; e la sua forza lo lasciò. Allora lei gli disse: ‘Sansone, i Filistei ti sono addosso!’ Egli, svegliatosi dal sonno, disse: ‘Io ne uscirò come le altre volte, e mi libererò’. Ma non sapeva che il Signore si era ritirato da lui”. – Gdc 16:18-20.
Damaris (Δάμαρις, Dàmaris, “giovenca”)
“Paolo uscì di mezzo a loro. Ma alcuni si unirono a lui e credettero; tra i quali anche Dionisio l’areopagita, una donna chiamata Damaris, e altri con loro”. – At 17:33,34.
Questa donna era un’ateniese convertitasi alla fede in Yeshùa. Dopo il discorso di Paolo nell’Areòpago di Atene (At 17:16-32), “alcuni si unirono a lui e credettero”. Damaride fu tra questi, unica donna menzionata. Questo fatto ci dice qualcosa di lei: doveva essere una persona di una certa importanza.
Alcuni fantasiosi, che non mancano mai, hanno supporto che lei fosse la moglie di Dionisio l’areopagita, e ciò solo sulla base che è menzionata dopo di lui. Davvero poco, molto poco. Meglio attenersi al testo e non aggiungere fantasie.
Debora balia di Rebecca (דְבֹורָה, Deboràh, “ape”)
“Debora, balia di Rebecca”. – Gn 35:8.
Quando il servo di Abraamo va a cercar moglie per Isacco, trova Rebecca (Gn 24:1-21; si veda la voce Rebecca). Quindi, i parenti di lei “lasciarono andare Rebecca, loro sorella, e la sua nutrice con il servo d’Abraamo e la sua gente” (Gn 24:59). Qui non viene detto il nome della “nutrice” di Rebecca, e non lo conosceremmo se Gn 35:8 non ce lo svelasse. La Bibbia non ci narra episodi della relazione tra le due donne. Possiamo però dedurre che Rebecca, portandola con sé nella sua nuova vita di moglie, le fosse molto affezionata. Possiamo anche immaginare come Debora stesse accanto a colei che aveva allevato durante la sua gravidanza. Chissà se Rebecca condivise con lei gli emozionanti momenti quando, finalmente incinta di due gemelli, “i bambini si urtavano nel suo grembo” (Gn 25:22). Pensando poi al ruolo di primo piano svolto la Rebecca nelle vicende dei suoi due figli Giacobbe e ed Esaù, ci rimane difficile pensare che Rebecca ne rimanesse all’oscuro. Tuttavia, le ipotesi rimangono ipotesi: la Bibbia tace al riguardo. L’unica informazione che la Scrittura di dà di lei concerne la sua morte: “Allora morì Debora, balia di Rebecca, e fu sepolta al di sotto di Betel, sotto la quercia che fu chiamata Allon-Bacut”. – Gn 35:8.
Debora profetessa (דְבֹורָה, Deboràh, “ape”)
“In quel tempo era giudice d’Israele una profetessa, Debora, moglie di Lappidot”. – Gdc 4:4.
Incontriamo Debora nel periodo dei Giudici, prima della monarchia, nel resoconto di una battaglia. Lei fu una vera eroina del popolo d’Israele. I soliti maschilisti dicono che Dio utilizzò una donna solo perché nessun altro era disponibile. È una fandonia. C’era il valoroso Barac. Ma la grandezza di Debora era tale che lui non si sentiva di far nulla senza di lei.
Debora era una profetessa. Nessuno degli altri giudici ebbe tale titolo. Non è proprio il caso di girarci attorno: questa donna era davvero grande. Donna sposata? Con un tale Lappidot? Qualche dubbio viene: la Bibbia non parla mai del marito. Ma, soprattutto, è l’espressione ebraica che ci fa riflettere: אֵשֶׁת לַפִּידֹות (èshet lapidòt), che potrebbe significare “donna di lampi”. Pare proprio che qui la Bibbia faccia un gioco di parole, dato che Barac in ebraico significa “fulmine” (בָרָק, baràq). Lei aveva i lampi di genio e lui colpiva. La mente e il braccio, diremmo noi. Se poi lapidòt era davvero il marito, dobbiamo dire che Dio lo mette del tutto da parte e dà direttamente a Debora l’autorità di agire. Coloro che insistono che le donne debbano lasciare ai mariti le azioni spirituali e mantenere la loro posizione relegata alla casa, potrebbero prendere in considerazione l’esempio di Debora.
Gdc 2:18 ci dice: “Quando il Signore suscitava loro dei giudici, il Signore era con il giudice e li liberava dalla mano dei loro nemici durante tutta la vita del giudice; poiché il Signore aveva compassione dei loro gemiti a causa di quelli che li opprimevano e angariavano”. “In quel tempo era giudice d’Israele una profetessa, Debora” (Gdc 4:4). “Lei sedeva sotto la palma di Debora . . . e i figli d’Israele salivano da lei per le controversie giudiziarie. Debora mandò a chiamare Barac . . . e gli disse: ‘Il Signore, Dio d’Israele, non ti ha forse dato quest’ordine: Va’, raduna sul monte Tabor e prendi con te diecimila uomini dei figli di Neftali e dei figli di Zabulon. Io attirerò verso di te, al torrente Chison, Sisera, capo dell’esercito di Iabin, con i suoi carri e la sua numerosa gente, e lo darò nelle tue mani?’ Barac le rispose: ‘Se vieni con me, andrò; ma se non vieni con me, non andrò’. Debora disse: ‘Certamente, verrò con te; però, la via per cui cammini non ti porterà onori; perché il Signore darà Sisera in mano a una donna’. E Debora si alzò e andò con Barac a Cades. Barac convocò Zabulon e Neftali a Cades; diecimila uomini si misero al suo seguito e Debora salì con lui”. – Gdc 4:5-10.
La narrazione biblica mette sottilmente in contrasto l’esitazione di Barac con lo zelo e la prontezza di Debora. La profezia fatta da Debora annuncia poi che Sisera, il nemico, sarà consegnato nelle mani di una donna e non di Barac. Questa è una modifica di una precedente profezia fatta da Dio stesso e che Debora aveva rammentato a Barac. – Cfr. Gdc 4:6,7.
Ci fu la vittoria, festeggiata con un cantico. Questo cantico occupa tutto il cap. 5 di Gdc. Il v. 1 dice: “In quel giorno, Debora cantò questo cantico con Barac”. Sebbene cantassero insieme, parte del cantico è in prima persona, segno che l’aveva composto Debora: “I capi mancavano in Israele; mancavano, finché non venni io, Debora, finché non venni io, come una madre in Israele” (Gdc 5:7). Il cantico di Debora attribuisce a Dio tutto il merito per la vittoria.
Diaconessa – definizione (ebraico: מְשָׁרַת, mesharàt; greco: διάκονος, diàkonos; “ministro”)
La definizione che il Vocabolario del Nuovo Testamento dà di questa parola greca è la seguente:
διάκονος (diakonos)
probabilmente da un diako obsoleto (correre su commissioni, vedi διώκω)
TDNT – 2: 88,152
Numero Strong: G1249
sostantivo maschile/femminile
1) uno che esegue i comandi di un altro, soprattutto un servitore di un padrone, compagno, ministro
1a) il servitore di un re
1b) un diacono, uno che, in virtù dell’ufficio assegnatogli dalla chiesa, ha cura dei poveri e ha l’incarico di distribuire i soldi
raccolti per loro con le offerte
1c) un cameriere, uno che serve cibo e bevande
Ci preme qui sottolineare che il vocabolo greco è un “sostantivo maschile/femminile”. Anche in italiano esistono vocaboli di questo genere: si pensi a ministro, presidente, avvocato, medico. Il sesso della persona è stabilito dal contesto. Stessa cosa per διάκονος (diàkonos). In Rm 16:1, leggendo “Febe, nostra sorella, che è ministro della congregazione di Cencrea” (TNM), tutti capiscono che si tratta di un ministro donna; il greco qui usa la parola διάκονος (diàkonos).
Già da questo passo biblico è evidente che anche le donne furono impiegate come ministri nella primitiva congregazione dei discepoli di Yeshùa. Quando, in 2Cor 3:6, Paolo dice che “[Dio] ci ha anche resi idonei a essere ministri”, si rivolge ovviamente sia a uomini che a donne. L’equivalente termine ebraico מְשָׁרַת (mesharàt) è anche usato sia per gli uomini che per le donne.
I requisiti biblici per essere ministri sono indicati in 1Tm 3:8-10: “I diaconi devono essere dignitosi, non doppi nel parlare, non propensi a troppo vino, non avidi di illeciti guadagni; uomini che custodiscano il mistero della fede in una coscienza pura. Anche questi siano prima provati; poi svolgano il loro servizio se sono irreprensibili”. Non ci si fermi alla parola “uomini”. Il passo prosegue dicendo: “Allo stesso modo siano le donne dignitose, non maldicenti, sobrie, fedeli in ogni cosa” (v. 11). Sostenere che qui Paolo stesse cambiando discorso o facesse una parentesi parlando delle donne svincolandole dal diaconato, sarebbe un arrampicarsi sui vetri scivolosi delle convinzioni maschiliste religiose.
Dato che la parola διάκονος (diàkonos) include il significato di “uno che serve cibo e bevande”, non è neppure pensabile che alle donne fosse relegato solo questo compito. Se una persona è diacono o ministro, lo è completamente. Si consideri 1Re 10:4,5: “La regina di Saba, quando ebbe ammirato tutta la saggezza di Salomone, il palazzo che egli aveva costruito, i cibi della sua tavola, gli alloggi dei suoi dignitari, l’attività dei suoi ministri . . .” (CEI). “L’attività dei suoi ministri” di CEI diventa “l’organizzazione dei suoi ufficiali” in NR e diventa “il servizio a tavola dei suoi camerieri” in TNM. Il testo biblico ha מַעֲמַד מְשָׁרְתֹו (maamàd meshartò), “il servizio dei suoi ministri”. E, dato che si parla di tavole imbandite, tale “servizio” non era altro che il servire a tavola. Yeshùa, il più grande di tutti gli uomini, “è diventato servitore [διάκονον (diàkonon)]” (Rm 15:8). “Il più grande tra di voi sia come il più piccolo, e chi governa come colui che serve [ὡς ὁ διακονῶν (os o diakonòn), “come uno dei diaconi”]”. – Lc 22:26.
È davvero un peccato che oggi moltissime chiese cosiddette cristiane escludano le donne dal diaconato. Tale atteggiamento maschilista è retrogrado al punto che i credenti di quasi duemila anni fa erano più avanti di quelli di oggi.
Diana (Ἄρτεμις, Àrtemis, “Artèmide”)
“Il tempio della grande dea Diana”. – At 19:27.
Diana era una dea romana. Era signora delle selve, protettrice degli animali selvatici, custode delle fonti e dei torrenti. Diana era considerata anche la protettrice delle donne: assicurava loro parti non dolorosi. In tempi successivi, Diana fu assimilata alla dea greca Artemide (Ἄρτεμις, Àrtemis) della mitologia greca. Di costei assunse il carattere di dea della caccia. Fu accostata anche alla Luna. Stando alla leggenda, Diana era una giovane vergine abile nella caccia, irascibile e vendicativa; amava la solitudine e le piaceva aggirarsi in luoghi isolati. In nome del dio Amore aveva fatto voto di castità.
Etimologicamente, la radice del nome di Diana si trova nel latino dius, che significa “della luce”. La luce cui si riferisce il nome sarebbe quella che filtra dalle fronde degli alberi nelle radure boschive.
Fin dal 15° secolo a. E. V. Diana era venerata a Creta come la dea protettrice dei boschi e delle montagne. Efeso, in Asia Minore (attuale Turchia) era una città votata all’adorazione di Artemide, la Diana degli Efesini, “colei che tutta l’Asia e il mondo adorano” (At 19:27). Il tempio dedicato a questa dea era una delle sette meraviglie del mondo.
Va detto che l’Artemide degli efesini era diversa dalla dea della mitologia classica greca, sebbene similare. L’Artemide adorata a Efeso era una dea della fertilità, tanto che veniva raffigurata con molte mammelle.
L’Artemide efesina era legata a divinità di altri popoli. A Efeso fu praticato a lungo il culto di una divinità le cui connotazioni conducono alla dea frigia Cibele. “Artemide presenta tali strette analogie con la Cibele frigia, e con altre personificazioni femminili del potere divino proprie di paesi asiatici, come Ma in Cappadocia, Astarte o Astarot in Fenicia, Atargatis e Militta in Siria, da suggerire che queste siano tutte semplici varianti di un unico concetto religioso fondamentale, che presenta certe diversità nei vari paesi, secondo il diverso sviluppo dovuto a circostanze locali e carattere nazionale” (J. Hastings, A Dictionary of the Bible Vol. 1, 1904, pag. 605). Vi è anche un collegamento alla dea che in tutto il bacino dell’Egeo rappresentava la Madre Terra, vale a dire la dea Rea. In effetti, secondo le diverse epoche e civiltà sono possibili diverse interpretazioni della medesima divinità. Si può vedere anche un’associazione della figura di Diana/Artemide con quella della divinità lunare Selene. In molti riti dei romani, in più, Diana era venerata come divinità trina, punto di riunione della Terra e della Luna per personificare il Cielo.
C’era, ai tempi, addirittura un mese chiamato col suo nome (artemisione), corrispondente al nostro marzo-aprile. In tale mese, centinaia di migliaia di persone arrivavano a Efeso da tutta l’Asia Minore (attuale Turchia). La statua di Artemide veniva trasportata in una processione religiosa per le vie cittadine. Questo rito pagano è riscontrabile ancora oggi nelle processioni religiose in cui una statua della Madonna passa per le vie durante il mese mariano. Proprio come accade oggi attorno a certi santuari cattolici, presso il tempio efesino di Artemide fioriva un commercio molto redditizio di statuine e statuette del tempio pagano.
“Demetrio, orefice, che faceva tempietti di Diana in argento, procurava non poco guadagno agli artigiani. Riuniti questi e gli altri che esercitavano il medesimo mestiere, disse: ‘Uomini, voi sapete che da questo lavoro proviene la nostra prosperità; e voi vedete e udite che questo Paolo ha persuaso e sviato molta gente non solo a Efeso, ma in quasi tutta l’Asia, dicendo che quelli costruiti con le mani, non sono dèi. Non solo vi è pericolo che questo ramo della nostra arte cada in discredito, ma che anche il tempio della grande dea Diana non conti più, e che sia perfino privata della sua maestà colei che tutta l’Asia e il mondo adorano’” (At 19:23-27). Paolo, con la predicazione del vangelo, aveva convinto diversi efesini e questi avevano abbandonato il culto pagano della dea. Demetrio riuscì ad aizzare gli altri artigiani, così che ne sorse un tumulto. – At 19:23-41.
La costruzione del tempio, in lucido marmo, era durata 220 anni; il tempio era lungo 342 metri, largo 164 e alto 56, supportato da molte colonne; conteneva capolavori di scultura e di pittura. Al centro di questo splendido santuario, nascosta da tende, c’era la statua della dea, modellata in un legno che si credeva caduto dal cielo. Nel tempio erano conservati i tesori di re e nazioni: era ritenuto la “banca” più sicura dell’Asia. Questo tempio, una delle sette meraviglie del mondo, fu distrutto nel 262 dai goti.
Dieci vergini (δέκα παρθένοι, dèka parthènoi, “dieci vergini)
“Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini le quali, prese le loro lampade, uscirono a incontrare lo sposo”. – Mt 21:5.
Anche in questa illustrazione Yeshùa prende a simbolo delle donne. Qui egli narra di un corteo di nozze secondo gli usi e costumi ebraici.
Durante la cerimonia nuziale la sposa era accompagnata dalla casa del padre a quella del marito: questo era l’atto con cui si ufficializzava il matrimonio (Mt 1:24). Lo sposo conduceva la sposa nella sua casa (o tenda), e tutti i vicini osservavano la scena (Gn 24:67). Nel condurre la sposa dalla casa paterna a quella del marito si formava un corteo (Ger 7:34;16:9; Is 62:5; Mt 25:1). Dalla parabola di Yeshùa delle dieci vergini veniamo a conoscere diverse usanze relative allo sposalizio.
“Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini le quali, prese le loro lampade, uscirono a incontrare lo sposo. Cinque di loro erano stolte e cinque avvedute; le stolte, nel prendere le loro lampade, non avevano preso con sé dell’olio; mentre le avvedute, insieme con le loro lampade, avevano preso dell’olio nei vasi. Siccome lo sposo tardava, tutte divennero assonnate e si addormentarono. Verso mezzanotte si levò un grido: ‘Ecco lo sposo, uscitegli incontro!’ Allora tutte quelle vergini si svegliarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle avvedute: ‘Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono’. Ma le avvedute risposero: ‘No, perché non basterebbe per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene!’ Ma, mentre quelle andavano a comprarne, arrivò lo sposo; e quelle che erano pronte entrarono con lui nella sala delle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi vennero anche le altre vergini, dicendo: ‘Signore, Signore, aprici!’ Ma egli rispose: ‘Io vi dico in verità: Non vi conosco’. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”. – Mt 25:1-13.
Da qui apprendiamo che diverse ragazze componevano un corteo per acclamare gli sposi. Allora come oggi, le cose da fare erano molte e potevano esserci dei contrattempi; allora come oggi, ai matrimoni si poteva far ritardo. Forse anche allora le spose ritardavano e lo sposo doveva attendere per condurla a casa sua. Così, attendendo a lungo, ci si poteva lasciar prendere dal sonno e addirittura addormentarsi. L’esultanza del corteo si udiva a distanza e vi faceva eco gridando: “Ecco lo sposo!” Poi gli invitati entravano in casa per il banchetto nuziale (Gn 29:22) e la porta veniva chiusa, cosicché i ritardatari non potevano più entrare.
Così, dice Yeshùa, accadrà con “il regno dei cieli”: è atteso, si sa che verrà di certo, si può intuire quando, ma se non si è desti e si rimane in attesa costante si rischia di esserne esclusi.
“Vegliate, dunque, perché non sapete in quale giorno il vostro Signore verrà . . . siate pronti; perché, nell’ora che non pensate, il Figlio dell’uomo verrà”. – Mt 24:42-44.
Dina (דִּינָה, Dinàh, “vendicata”)
“[Lea] partorì una figlia, e la chiamò Dina”. – Gn 30:21.
Dina era figlia di Giacobbe e di Lea (Gn 30:19,21;34:1). Quando Giacobbe, figlio di Isacco e nipote di Abraamo (Rm 9:7-13), tornò a Canaan con le sue mogli e i suoi figli (Gn 31:17,18), si comprò un pezzo di terra a Sichem (Gn 33:18-20; Gs 24:32), l’attuale Nablus palestinese. Incrociando alcuni dati biblici, risulta che allora Dina aveva circa sei anni. – Gn 30:21,22,25;31:41.
Dina prese l’abitudine di allontanarsi dal suo accampamento “per vedere le ragazze del paese” (Gn 34:1). “Sichem, figlio di Camor l’Ivveo, principe del paese, la vide, la rapì e si unì a lei violentandola. Poi egli rimase affezionato a Dina, figlia di Giacobbe; amò la giovane e parlò al cuore di lei. E disse a Camor suo padre: ‘Dammi questa ragazza in moglie’”. – Gn 34:2-4.
Non si deve pensare che Dina fosse ancora una bambina; tempo ne era passato: Giacobbe si era fermato a Succot prima di arrivare a Sichem (Gn 33:17), si noti inoltre che in Gn 34:12 Dina è chiamata “ragazza” e il vocabolo ebraico usato è נַּעֲרָ (naarà) che indica una “ragazza” in età di matrimonio. – Cfr. Dt 22:15.
“I figli di Giacobbe, com’ebbero udito il fatto, tornarono dai campi; questi uomini furono addolorati e fortemente adirati perché costui aveva commesso un’infamia in Israele, unendosi alla figlia di Giacobbe: cosa che non era da farsi” (Gn 34:7). Camor e Sichem cercarono di calmarli proponendo un matrimonio in piena regola, una dote enorme, e un trattato permanente che avrebbe beneficiato entrambi i popoli (Gn 34:8-12). I figli di Giacobbe, fratelli di Dina, parlarono allora “con astuzia” a Sichem e a suo padre Camor “perché quegli aveva disonorato Dina, loro sorella”. Avevano ideato una strategia per vendicarsi e così posero delle condizioni perché il principe stupratore potesse sposare Dina: “Acconsentiremo alla vostra richiesta soltanto a questa condizione: se sarete come siamo noi, circoncidendo ogni maschio tra di voi . . . Ma se non volete ascoltarci e non volete farvi circoncidere, noi prenderemo la nostra figlia e ce ne andremo’”. – Gn 34:13-17.
La gente di Sichem decide di farsi circoncidere in massa (Gn 34:24). Tre giorni dopo, approfittando dell’invalidità temporanea di quegli uomini, Simeone e Levi (fratelli germani di Dina – Gn 29:33,34) “presero ciascuno la propria spada, assalirono la città che si riteneva sicura, e uccisero tutti i maschi. Passarono a fil di spada anche Camor e suo figlio Sichem, presero Dina dalla casa di Sichem, e uscirono” (Gn 34:25,26). Gli uomini non furono in grado di combattere, perché erano indeboliti dal dolore della circoncisione, “erano sofferenti”. – Gn 34:25.
In seguito, l’accomodante Giacobbe criticò l’azione dei suoi due figli, sottolineando che il loro colpo di testa aveva messo lui e la sua famiglia in pericolo (Gn 34:30). I fratelli, però, si difendono dicendo: “Nostra sorella dovrebbe forse essere trattata come una prostituta?” – Gn 34:31.
Anni dopo, Dina, con tutta la famiglia di Giacobbe, scese in Egitto da Giuseppe, suo fratellastro (Gn 35:24). – Gn 46:7,15.
Quando la famiglia di Giacobbe si prepara a scendere in Egitto, la Bibbia elenca i 70 membri della famiglia che scendeva con lui (Gn 46:1-26). Al v. 10 si parla dei “figli di Simeone”, includendo “Saul, figlio di una Cananea”. Secondo Rashi (1040 – 1105), il noto commentatore medievale ebreo, questo sarebbe il figlio concepito da Dina quando Sichem la violentò. Dopo che i due fratelli ebbero ucciso tutti gli uomini della città, tra cui Sichem e suo padre, Dina avrebbe preteso di essere sposata da Simeone per rimuovere la sua vergogna. Secondo Nachmanide (1194-1270), rabbi ebreo, Dina visse sola nella sua casa e non ebbe rapporti coniugali con lui. Di conseguenza, il figlio di Dina sarebbe stato annoverato tra discendenti di Simeone e ricevette una porzione di terreno in Israele al tempo di Giosuè (Nm 34:16-20; Gs 19:1-9). Non ci sono prove bibliche per sostenere questa interpretazione.
Altri studiosi della Bibbia ritengono che la storia dello stupro di Dina sia stata solo un’invenzione per spiegare perché Simeone e Levi ebbero poco territorio nella Terra Promessa. In effetti, la tribù di Simeone non ricevette un territorio indipendente e non frazionato, ma solo città isolate all’interno del territorio della tribù di Giuda (Nm 34:16-20; Gs 19:1-9); Levi non divenne neppure una tribù vera e propria: i leviti furono divisi in 48 città levitiche disseminate nei territori assegnati alle tribù di Israele nel paese di Canaan (Gn 49:7; Gs 21:41). Però, tali critici ritengono che la Bibbia abbia inventato la storia di Dina al solo scopo di adattare la storia motivandola con il suo stupro, e Sichem non sarebbe stata una persona vera e propria ma un eponimo. Questi critici fanno voli di fantasia. Perché mai non dovremmo accettare la storia pura e semplice, così com’è narrata nella Scrittura?
Altri fanno notare che nella lista delle persone che si recò in Egitto con Giacobbe, Dina sarebbe menzionata (Gn 46:15) quasi come un ripensamento dell’agiografo. La questione si basa sull’incrocio di due passi biblici. In Gn 46:27 si afferma che “Il totale delle persone della famiglia di Giacobbe che vennero in Egitto, era di settanta”, ma in Es 1:5 si precisa che “Giuseppe era già in Egitto”. In effetti, quindi, sarebbero quindi 69. Secondo alcuni, uno scriba avrebbe semplicemente inserito in seguito le parole “oltre a Dina [וְאֵת דִּינָה (veèt dinàh), “e Dina”]” (Gn 46:15) nel margine del testo. Dobbiamo dire che è estenuante lottare contro la pochezza di improvvisati studiosi della domenica o del tipo fai da te; la cosa migliore forse sarebbe semplicemente ignorarli. Ora, il fatto che il testo di Es 1:5 precisi che “Giuseppe era già in Egitto” non deve far detrarre Giuseppe dal totale di 70. Infatti, Gn 46:27 parla “delle persone della famiglia di Giacobbe che vennero in Egitto”, e Giuseppe vi era venuto per primo (Gn 37:28). Dt 10:22 conferma: “Scesero in Egitto; erano settanta persone”.
Divorziata (ὁ ἀπολύων τὴν γυναῖκα, o apollo ten günàika, “il lasciante la donna”)
“Io vi dico che chiunque divorzia da sua moglie, se non a causa di fornicazione, la rende soggetta all’adulterio, e chiunque sposa una donna divorziata commette adulterio” . – Mt 5:32, TNM.
“Io vi dico: chiunque manda via sua moglie, salvo che per motivo di fornicazione, la fa diventare adultera e chiunque sposa colei che è mandata via commette adulterio”. – Mt 5:32, VR.
La parola “divorzio”, e di conseguenza la parola “divorziata”, è parola moderna. La Bibbia usa un’altra espressione. In Dt 22:13-19 è regolato un caso di divorzio: “Quando un uomo sposa una donna, entra da lei, e poi la prende in odio, le attribuisce azioni cattive e disonora il suo nome, dicendo: ‘Ho preso questa donna e, quando mi sono accostato a lei, non l’ho trovata vergine’, allora il padre e la madre della giovane prenderanno le prove della verginità della giovane e le presenteranno davanti agli anziani della città, alla porta. Il padre della giovane dirà agli anziani: ‘Io ho dato mia figlia in moglie a quest’uomo; egli l’ha presa in odio, ed ecco che le attribuisce azioni cattive, dicendo: Non ho trovato vergine tua figlia. Ora ecco le prove della verginità di mia figlia’, e mostreranno il lenzuolo davanti agli anziani della città. Allora gli anziani di quella città prenderanno il marito e lo castigheranno; e, per aver diffamato una vergine d’Israele, lo condanneranno a un’ammenda di cento sicli d’argento, che daranno al padre della giovane. Lei rimarrà sua moglie ed egli non potrà mandarla via [“divorziare da lei”, TNM] per tutto il tempo della sua vita”. Come si nota qui, l’espressione usata per divorziare è “mandare via”. Il verbo ebraico è שָׁלַח (shalàkh); quello greco è ἀπολύω (apolǜo) e significa “lasciare / congedare” e “ripudiare” nel caso di divorzio.
Lo scioglimento del vincolo coniugale era regolato dalla legge divina (Dt 24:1-4). Non si faccia però l’errore di dedurne che Dio ammettesse il divorzio. “’Io odio il ripudio [“divorzio”, TNM]’, dice il Signore, Dio d’Israele” (Mal 2:16). Unendo in matrimonio Adamo ed Eva, Dio non contemplò il divorzio. Yeshùa lo rammenta in Mt 19:8: “Fu per la durezza dei vostri cuori che Mosè vi permise di mandare via le vostre mogli; ma da principio non era così”. Yeshùa limitò il permesso di divorzio al singolo caso di adulterio: “Io vi dico che chiunque manda via sua moglie, quando non sia per motivo di fornicazione, e ne sposa un’altra, commette adulterio”. – Mt 19:9.
La Legge di Dio si limitò a regolare il divorzio impedendone gli abusi, non a promuoverlo.
Drusilla (Δρούσιλλα, Drusìlla, “bagnata dalla rugiada”)
“Felice, venuto con sua moglie Drusilla, che era ebrea, mandò a chiamare Paolo, e lo ascoltò circa la fede in Cristo Gesù”. – At 24:24.
Questa donna, nata nel 38 e morta nel 79, era la terza figlia di Erode Agrippa I di Giudea e della principessa Cipro; era anche sorella di Agrippa II, di Berenice e di Mariamne III. A sei anni, poco prima che suo padre morisse, fu promessa in sposa ad Antioco Epifane con la garanzia che lui divenisse ebreo. Quando però poi costui rifiutò, la promessa di matrimonio venne sciolta e Drusilla venne fatta sposare con Aziz, un siro re di Emessa, che accettò la circoncisione e la conversione all’ebraismo. Circa un anno dopo il matrimonio, Drusilla, irritata dalla durezza del marito e dall’invidia della propria sorella Berenice, scappò e andò presso il procuratore della Giudea, Marco Antonio Felice, che sposò in dispregio alla Legge ebraica (Es 20:14; Dt 5:18;22:22). – Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche XX, 7.1.
Intorno al 58, quando l’apostolo Paolo fu portato in giudizio davanti a Felice; Drusilla era presente al colloquio fra Paolo e suo marito (At 24:24). Felice, due anni dopo, passò il potere a Festo e “volendo guadagnare il favore dei Giudei, lasciò Paolo in prigione” (At 24:27). Alcuni studiosi ritengono che lo fece per compiacere sua moglie Drusilla “che era ebrea” (At 24:24). Ciò non stupirebbe, vista l’indole scaltra del procuratore Festo, che sperava “che Paolo gli avrebbe dato del denaro”. – At 24:26.
Con tutta probabilità, nel 60 Drusilla tornò a Roma col marito, quando terminò il governatorato di lui in Giudea. Drusilla, a quanto pare, morì durante l’eruzione del Vesuvio nell’agosto del 79 assieme al figlio Agrippa, nato dal matrimonio col procuratore Antonio Felice (Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche XX, 7.2). Tuttavia, questo fatto non è certo, perché la lezione del passo di XX 7.2 (Ibidem) è ambigua e potrebbe anche significare che Agrippa fosse morto assieme a sua moglie; infatti, il termine greco γυνή (günè), “donna”, è riferito sia alla moglie di Felice, Drusilla, sia a quella di Agrippa.
Due prostitute (שְׁתַּיִם נָשִׁים זֹנֹות, shtàym nashìm sonòt, “due donne prostitute”)
“Due prostitute vennero a presentarsi davanti al re [Salomone]”. – 1Re 3:16.
1Re 3:16.
La famosa storia delle due donne con un bambino solo e la conseguente sentenza salomonica si trova in 1Re. Chi conosce la storia solo per sentito dire, potrebbe sorprendersi nello scoprire che la Bibbia parla di due prostitute.
Il nuovo e giovane re Salomone si trova di fronte a un problema apparentemente irrisolvibile. “Una delle due disse: ‘Permetti, mio signore! Io e questa donna abitavamo nella medesima casa, e io partorii mentre lei stava in casa. Il terzo giorno dopo il mio parto, partorì anche questa donna. Noi stavamo insieme, e non c’erano estranei; non c’eravamo che noi due in casa. Poi, durante la notte, il figlio di questa donna morì, perché lei gli si era coricata sopra. Lei, alzatasi nel cuore della notte, prese mio figlio dal mio fianco, mentre la tua serva dormiva, e lo adagiò sul suo seno, e sul mio seno mise il figlio suo morto. Quando mi sono alzata al mattino per allattare mio figlio, egli era morto; ma, guardandolo meglio a giorno chiaro, mi accorsi che non era il figlio che io avevo partorito’. L’altra donna disse: ‘No, il figlio vivo è il mio, e il morto è il tuo’. Ma la prima replicò: ‘No, invece, il morto è il figlio tuo, e il vivo è il mio’. Così litigavano in presenza del re”. – 1Re 3:17-22.
A quale donna credere? Al posto del re, qualcuno avrebbe forse domandato alla prima donna come facesse a sapere che l’altra aveva messo il figlio morto sul suo seno, dato che per sua stessa ammissione stava dormendo. Salomone prese invece una strada diversa. “Allora il re disse: ‘Una dice: Questo che è vivo è mio figlio, e quello che è morto è il tuo; e l’altra dice: No, invece, il morto è il figlio tuo, e il vivo è il mio’. Il re ordinò: ‘Portatemi una spada!’ E portarono una spada davanti al re. Il re disse: ‘Dividete il bambino vivo in due parti, e datene la metà all’una, e la metà all’altra’. Allora la donna, a cui apparteneva il bambino vivo, sentendosi commuovere le viscere per suo figlio, disse al re: ‘Mio signore, date a lei il bambino vivo, e non uccidetelo, no!’ Ma l’altra diceva: ‘Non sia mio né tuo; si divida!’ Allora il re rispose: ‘Date a quella il bambino vivo, e non uccidetelo; lei è sua madre!’”. – 1Re 3:23-27.
Ora si noti che al lettore non viene detto a quale delle due donne che contendevano davanti Salomone, il bambino apparteneva. Era quella che aveva affermato di aver dormito mentre l’altra scambiava i bambini? Oppure era quella che aveva sostenuto che il bambino era suo? Decidere quale di queste due donne fosse la vera madre del bimbo vivo non risolve tutti i problemi sollevati, però.
Che cosa fece Salomone per le condizioni in cui queste donne vivevano? Loro avevano dato alla luce i loro figli da sole, senza alcun sostegno. Dato che erano prostitute, non avevano alcun uomo di casa che potesse aiutarle in una società di uomini. Il loro unico mezzo di sostegno finanziario era vendere i propri corpi. Come credenti, abbiamo un obbligo in più di Salomone. Lui era stato chiamato ad essere il re d’Israele e a dispensare saggezza: “Tutto Israele udì parlare del giudizio che il re aveva pronunciato, ed ebbero rispetto per il re perché vedevano che la sapienza di Dio era in lui per amministrare la giustizia” (1Re 3:28). Noi siamo chiamati a dispensare amore e compassione. Siamo obbligati a guardare al di là dei problemi immediati dei deboli. Occorre prendersi cura di tutti i loro bisogni. “A che serve, fratelli miei, se uno dice di aver fede ma non ha opere? Può la fede salvarlo? Se un fratello o una sorella non hanno vestiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: ‘Andate in pace, scaldatevi e saziatevi’, ma non date loro le cose necessarie al corpo, a che cosa serve?”. – Gc 2:14-16.