Saffira (Σάπφειρα, Sàpfeira, “lapislazzuli”)

“Un uomo di nome Anania, con Saffira sua moglie, vendette una proprietà, e tenne per sé parte del prezzo, essendone consapevole anche la moglie; e, un’altra parte, la consegnò, deponendola ai piedi degli apostoli”. – At 5:1,2.

   Diamo prima qualche informazione etimologica del nome. Il nome proprio femminile Σάπφειρα (Sàpfeira) sembra collegato all’ebraico סַפִּיר (sapìr) “la cosa più bella”. Nei tempi antichi, il lapislazzuli era conosciuto come zaffiro, che è il nome che viene utilizzato oggi per lo zaffiro blu della varietà corindone. Quest’ultimo sembra essere stato lo zaffiro nominato dagli scrittori antichi, perché Plinio si riferisce al sapphirus come ad una pietra cosparsa di macchie d’oro. Un riferimento simile si trova anche nella Bibbia, in Gb 28:6: “Le sue rocce sono la sede dello zaffiro [סַפִּיר (sapìr)], e vi si trova la polvere d’oro”. Qui la LXX greca traduce l’ebraico סַפִּיר (sapìr) con il greco σάπφιρος (sàpfiros). Il nome zaffiro deriva probabilmente dal termine greco σάπφειρος (sàpfeiros), “azzurro”; oppure dall’ebraicoספיר  (sapìr), “la cosa più bella”.

   Da At 5:1,2 possiamo vedere che non tutte le donne della Bibbia sono modelli positivi. Saffira sembra aver avuto un rapporto di parità con il marito: lei condivise una grave decisione con lui.

   La coppia aveva deciso di unirsi al gruppo dei primi credenti. A quel tempo i credenti condividevano tutto. At 4:32 dice: “La moltitudine di quelli che avevano creduto era d’un sol cuore e di un’anima sola; non vi era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva ma tutto era in comune tra di loro”. Ciò era probabilmente dovuto alla loro convinzione (poi mostratasi errata) che la fine dei tempi era ormai prossima. “Ognuno era preso da timore; e molti prodigi e segni erano fatti dagli apostoli. Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. E ogni giorno andavano assidui e concordi al tempio, rompevano il pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme, con gioia e semplicità di cuore” (At 2:43-46). Paolo, al riguardo, raccomanderà: “Ora, fratelli, circa la venuta del Signore nostro Gesù Cristo e il nostro incontro con lui, vi preghiamo di non lasciarvi così presto sconvolgere la mente, né turbare”. – 2Ts 2:1,2.

   Cercando di partecipare a questo gruppo comune, Saffira ed Anania decidono di vendere tutto. Venduti tutti i loro averi, offrono il ricavato agli apostoli, ma decidono di trattenerne prima una parte per loro. Perché trattennero parte dei proventi? Alcuni hanno suggerito che la vendita fosse solo per impressionare gli altri, il che può essere vero. Potrebbe anche essere che la loro fede non si mostrò forte come inizialmente credevano, che ci fu un ripensamento. La decisione di trattenere qualcosa per sé sembra essere stata presa già prima di vendere tutto, comunque. Si notino, infatti, le azioni pressoché contemporanee: “Vendette una proprietà, e tenne per sé parte del prezzo, essendone consapevole anche la moglie”. Appare proprio come un piano prestabilito. Il testo greco è ancora più preciso, perché dice letteralmente: “Vendette possedimento e mise da parte il prezzo essendo a conoscenza anche la moglie e avendo portato parte una certa presso i piedi degli apostoli”. La sequenza appare chiara: vende e, prima di tutto, trattiene per sé il ricavato, lasciandone poi una parte da dare agli apostoli; il tutto in combutta con la moglie.

   In At 5:3-6 Pietro affronta Anania: “’Anania, perché Satana ha così riempito il tuo cuore da farti mentire allo Spirito Santo e trattenere parte del prezzo del podere? Se questo non si vendeva, non restava tuo? E una volta venduto, il ricavato non era a tua disposizione? Perché ti sei messo in cuore questa cosa? Tu non hai mentito agli uomini ma a Dio’. Anania, udendo queste parole, cadde e spirò. E un gran timore prese tutti quelli che udirono queste cose. I giovani, alzatisi, ne avvolsero il corpo e, portatolo fuori, lo seppellirono”.

   “Circa tre ore dopo, sua moglie, non sapendo ciò che era accaduto, entrò. E Pietro, rivolgendosi a lei: ‘Dimmi’, le disse, ‘avete venduto il podere per tanto?’ Ed ella rispose: ‘Sì, per tanto’. Allora Pietro le disse: ‘Perché vi siete accordati a tentare lo Spirito del Signore? Ecco, i piedi di quelli che hanno seppellito tuo marito sono alla porta e porteranno via anche te. Ed ella in quell’istante cadde ai suoi piedi e spirò. I giovani, entrati, la trovarono morta; e, portatala via, la seppellirono accanto a suo marito”. – At 5:7-10.

   Questo confronto fatto da Pietro sembra sottolineare due punti: in primo luogo, Pietro tiene conto anche di Saffira; poi, le azioni della coppia avevano sfidato Dio, non il gruppo.

   Il peccato contro Dio spiega la massima pena. Pietro dice: “Tu non hai mentito agli uomini ma a Dio”.

Salome: vedere Sorella di Maria madre di Gesù

Sara (שָׂרָה, Saràh, “principessa”)

Il nome originale di questa donna era Sarai (Gn 11:29). Consigliamo quindi di leggere prima alla voce Sarai. Il nome di Sara le fu dato da Dio al momento in cui fu annunciato ad Abramo che avrebbe dovuto essere la madre del bambino della promessa: “Dio disse ad Abraamo: ‘Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamare più Sarai; il suo nome sarà, invece, Sara. Io la benedirò e da lei ti darò anche un figlio; la benedirò e diventerà nazioni; re di popoli usciranno da lei”. – Gn 17:15,16.

   Poco prima – in Gn 17:5,6 – ci viene detto che Dio aveva cambiato il nome anche ad Abramo e gli aveva fatto una promessa simile: “Non sarai più chiamato Abramo [= “padre eminente”], ma il tuo nome sarà Abraamo [אַבְרָהָם (Avrahàm), “padre di popoli”; da אב (av), “padre”, e עם (am), “popolo”] poiché io ti costituisco padre di una moltitudine di nazioni. Ti farò moltiplicare grandemente, ti farò divenire nazioni e da te usciranno dei re”. È interessante notare che la benedizione di Dio riguarda Sara come Abraamo. Dio non ritiene Sara una figura secondaria all’ombra di Abraamo: “La benedirò e da lei ti darò anche un figlio; la benedirò e diventerà nazioni; re di popoli usciranno da lei”.

   Qualche tempo dopo, al rinnovo della promessa di Dio a Sara che avrebbe avuto un figlio suo, “Sara rise dentro di sé, dicendo: ‘Vecchia come sono, dovrei avere tali piaceri? Anche il mio signore è vecchio!’ Il Signore disse ad Abraamo: ‘Perché mai ha riso Sara, dicendo: Partorirei io per davvero, vecchia come sono? Vi è forse qualcosa che sia troppo difficile per il Signore? Al tempo fissato, l’anno prossimo, tornerò e Sara avrà un figlio’. Allora Sara negò, dicendo: ‘Non ho riso’; perché ebbe paura”. – Gn 18:1-15.

   La reazione di Sara fu del tutto umana, tuttavia in Eb 11:11 si legge: “Sara, benché fuori di età, ricevette forza di concepire, perché ritenne fedele colui che aveva fatto la promessa”. Ciò non su un bell’aggiustamento dello scrittore di Eb. Lo stesso Abraamo aveva riso in precedenza per lo stesso motivo: “Rise, e disse in cuor suo: ‘Nascerà un figlio a un uomo di cent’anni? E Sara partorirà ora che ha novant’anni?’” (Gn 17:17). Eppure, Abraamo rimane tra i massimi esempi di fede. C’è una bella differenza tra il deridere di Ismaele (Gn 21:9) e il ridere (ovvero sorridere ironicamente o forse anche nervosamente) di Abraamo e Sara. Tutti e due, data l’età, erano ormai un po’ fatalisti sull’avere figli: sarebbe andata come doveva andare, figli non ne avevano avuti e si erano rassegnati. In questa condizione, psicologicamente si potrebbe parlare di un riso vicino all’ironia nervosa. Dio non rimproverò a Sara la mancanza di fede, ma il suo incredulo sarcasmo; era come se avesse detto, in un riso amaro: Troppo bello per essere vero, mi si prende in giro. Da qui la domanda retorica di Dio: “Vi è forse qualcosa che sia troppo difficile per il Signore?”, seguita dalla conferma che poteva fidarsi: “Al tempo fissato, l’anno prossimo, tornerò e Sara avrà un figlio”. Si noti poi il suo timor di Dio: “Ebbe paura”. Forse fu proprio a quel punto che comprese che Dio le stava davvero facendo una promessa che, per quanto incredibile, avrebbe mantenuto. In questo contesto è del tutto giusta la valutazione di Eb: “Ritenne fedele colui che aveva fatto la promessa”. Forse, ancora oggi, perfino i lettori religiosi della Bibbia, leggendo quella storia miracolosa, dentro di sé sorridono pensando alla veneranda età dei due tardivi genitori. Anche a loro va ricordato: “Vi è forse qualcosa che sia troppo difficile per il Signore?”

   Che il riso di Sara fosse del tipo che la psicologia definirebbe d’un amaro aggressivo, è mostrato dal fatto che Sara, quando ebbe davvero il figlio, disse “Dio mi ha dato di che ridere; chiunque l’udrà riderà con me”. – Gn 21:6.

   Sara seguì poi suo marito Abraamo “andando verso la regione meridionale, si stabilì fra Cades e Sur; poi abitò come straniero in Gherar” (Gn 20:1). Abraamo la presenta come sorella (Gn 20:2). “Abraamo partì di là andando verso la regione meridionale, si stabilì fra Cades e Sur; poi abitò come straniero in Gherar. Abraamo diceva di sua moglie Sara: ‘È mia sorella’. E Abimelec, re di Gherar, mandò a prendere Sara. Ma Dio venne di notte, in un sogno, ad Abimelec e gli disse: ‘Ecco, tu sei morto, a causa della donna che ti sei presa; perché è sposata’. Or Abimelec, che non si era ancora accostato a lei, rispose: ‘Signore, faresti perire una nazione, anche se giusta? Egli non mi ha forse detto: È mia sorella? Anche lei ha detto: Egli è mio fratello. Io ho fatto questo nella integrità del mio cuore e con mani innocenti’. Dio gli disse nel sogno: ‘Anch’io so che tu hai fatto questo nella integrità del tuo cuore: ti ho quindi preservato dal peccare contro di me; perciò non ti ho permesso di toccarla. Ora, restituisci la moglie a quest’uomo, perché è profeta, ed egli pregherà per te, e tu vivrai. Ma, se non la restituisci, sappi che sicuramente morirai, tu e tutti i tuoi’” – Gn 20:1-7.

   “Sara concepì e partorì un figlio ad Abraamo, quando egli era vecchio, al tempo che Dio gli aveva fissato. Abraamo chiamò Isacco il figlio che gli era nato, che Sara gli aveva partorito”. – Gn 21:2,3.

   In occasione del divezzamento di Isacco, il suo fratellastro maggiore Ismaele, ormai quasi ventenne, lo derise insolentemente  (“si prendeva gioco”, TNM). Sara si mostrò una donna decisa, con la forza di una madre. “Disse ad Abraamo: ‘Caccia via questa serva e suo figlio; perché il figlio di questa serva non dev’essere erede con mio figlio, con Isacco’”. “La cosa dispiacque moltissimo ad Abraamo”, tuttavia questa presa di posizione di una donna non è vista dalla Bibbia come un reato di lesa mascolinità secondo gli attuali parametri religiosi; anzi, Dio dà a questa donna il suo appoggio: “Dio disse ad Abraamo: ‘Non addolorarti per il ragazzo, né per la tua serva; acconsenti a tutto quello che Sara ti dirà’”. – Gn 21:8-12.

   Più di trenta anni dopo Sara morì. “La vita di Sara fu di centoventisette anni. Tanti furono gli anni della sua vita” (Gn 23:1). Questo è l’unico caso nella Scrittura in cui l’età di una donna è registrato.

   Sara è tipo della “Gerusalemme di lassù”, “libera” e “nostra madre”. Il cap. 11 di Eb contiene un elenco delle persone di fede, e Sara vi appare al v. 11, tra i grandi nomi della storia di Israele.

Sarai (שָׂרָי, Sarày, “mia principessa”)

“Abramo e Naor si presero delle mogli; il nome della moglie d’Abramo era Sarai; e il nome della moglie di Naor, Milca, che era figlia di Aran, padre di Milca e padre di Isca. Sarai era sterile; non aveva figli. Tera prese Abramo, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, cioè figlio di suo figlio, e Sarai sua nuora, moglie d’Abramo suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nel paese di Canaan. Essi giunsero fino a Caran, e là soggiornarono”. – Gn 11:29-31.

   Così inizia una delle più grandi avventure e una grande storia di fede narrata nella Bibbia. Per orientare meglio il lettore diamo lo schema di questa importante famiglia. Il capostipite è Tera, discendente di Sem figlio di Noè (1Cron 1:24-27; Lc 3:34-36). Abramo, Naor e Aran erano tre fratelli, figli di Tera (Gn 11:26). Abramo era sposato con Sarai (Gn 11:29), Naor con Milca (Gn 11:29). La moglie di Aran non viene nominata, ma si sa che egli morì prima che partissero da Ur dei caldei (Gn 11:28). Sarai, moglie di Abramo, era anche sua sorellastra (Gn 20:12). Milca, moglie di Naor, essendo figlia di Aran fratello di Abramo, era in effetti moglie del proprio zio, Naor, pure fratello di Abramo (Gn 11:27,29). Lot, nipote di Tera (che gli era nonno) e figlio di Aran (che era fratello di Abramo), era nipote anche di Abramo che gli era zio (Gn 11:27); era anche fratello di Milca.

   Milca (il cui nome significa “regina”) sembrava avere un vantaggio su Sarai (il cui nome significa “mia principessa”): mentre Milca poteva avere figli, Sarai era sterile.

   Oggi l’infertilità è vista come una condizione privata. Nei tempi antichi, in particolare nelle culture tribali, la sterilità era un problema pubblico. Una donna che non poteva avere bambini non avrebbe fornito nuovi lavoratori per la tribù. Tutti i membri della comunità avrebbero saputo di quella condizione considerata una sciagura. In certi periodi della storia la donna sterile era considerata colpevole e respinta. Invece di essere considerata una questione medica, la sterilità creava un problema d’identità. Una donna che non poteva generare figli mancava di due presupposti per la sua identità nella società: il ruolo di moglie e il ruolo di madre. Le sarebbe mancata anche la copertura finanziaria di un figlio adulto. Le mancava perfino la sicurezza come moglie: una moglie sterile poteva essere ripudiata. La fertilità era vista come diretta conseguenza della benedizione divina; similmente, la sterilità era vista come una maledizione di Dio. Ciò valeva per la terra (Lv 26:3-5) e per la donna (Es 23:26; Dt 7:13,14;28:4,11; Sl 127:3-5;128:3). Tutto ciò spiega la disperazione delle donne ebree che non potevano avere figli e il loro ricorso accorato a Dio. “Rachele, vedendo che non partoriva figli a Giacobbe, invidiò sua sorella, e disse a Giacobbe: ‘Dammi dei figli, altrimenti muoio’” (Gn 30:1). Nei tempi biblici per una donna sposata non avere figli era un grande disonore, una calamità perfino considerata come punizione, di certo una delle più grandi disgrazie. La possibilità di avere figli era attribuita a Dio: si vedano i casi di Rachele (Gn 30:2, 22, 23), di Sara stessa (Gn 11:30;17:19;21:1,2), di Rebecca (Gn 25:21), della madre di Sansone (Gdc 13:2, 3), di Anna (1Sam 1:10,11;2:5), della sunamita (2Re 4:14-17), di Elisabetta (Lc 1:7, 36), di Rut (Rut 4:13). – Cfr. anche Gn 20:17,18 per la capacità di Dio di rendere sterili.

   Mentre la storia continua, Abramo riceve il comando di Dio: “Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò; io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra”. – Gn 12:1-3.

   Da lui, Abramo, e da Sarai sorgerà Israele. “Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran. Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan”. – Gn 12:4,5.

   Sarai aveva dieci anni meno di Abramo (Gn 17:17), che aveva sposato quando ancora erano in Ur dei caldei (Gn 11:28,29). Aveva quindi 65 anni quando suo marito Abramo “aveva settantacinque anni” e “quando partì da Caran” (Gn 12:4). Una carestia li costringesse poi a scendere in Egitto (Gn 12:6-10). “Sara non era più in grado di essere madre”. – Rm 4:19.

   Prima del loro ingresso in territorio egiziano, apprendiamo dalla Bibbia che Sarai era molto bella: “Come stava per entrare in Egitto, [Abramo] disse a Sarai sua moglie: ‘Ecco, io so che tu sei una donna di bell’aspetto; quando gli Egiziani ti vedranno, diranno: È sua moglie. Essi mi uccideranno, ma a te lasceranno la vita. Di’ dunque che sei mia sorella, perché io sia trattato bene a motivo di te e la vita mi sia conservata per amor tuo’. Quando Abramo giunse in Egitto, gli Egiziani osservarono che la donna era molto bella. I prìncipi del faraone la videro, ne fecero le lodi in presenza del faraone; e la donna fu condotta in casa del faraone. Questi fece del bene ad Abramo per amore di lei e Abramo ebbe pecore, buoi, asini, servi, serve, asine e cammelli. Ma il Signore colpì il faraone e la sua casa con grandi piaghe, a motivo di Sarai, moglie d’Abramo. Allora il faraone chiamò Abramo e disse: ‘Che cosa mi hai fatto? Perché non m’hai detto che era tua moglie? Perché hai detto: È mia sorella? Così io l’ho presa per moglie. Ora eccoti tua moglie, prendila e vattene!’ E il faraone diede alla sua gente ordini relativi ad Abramo, ed essi fecero partire lui, sua moglie e tutto quello che egli possedeva”. – Gn 12:11-20.

   Non è il caso di fare i moralisti e immaginare che Dio colpisse “il faraone e la sua casa con grandi piaghe” per impedire che il sovrano egizio violasse Sarai. Il faraone stesso dice: “Io l’ho presa per moglie”. Abramo l’aveva presentata come sorella. Non era una menzogna: Sarai era sua sorellastra (Gn 20:12); a quel tempo la Legge non era ancora stata data e un certo grado d’incesto avveniva. Abramo aveva taciuto che lei era anche sua moglie e il faraone si comportò di conseguenza, da sovrano pagano qual era.

   L’espressione che la Bibbia usa non lascia dubbi: אֶקַּח אֹתָהּ לִי לְאִשָּׁה (eqàkh otàh liy leishàh), “Presi lei per me per moglie”. TNM manipola il testo biblico e traduce: “Io stavo per prenderla in moglie”. Il verbo אֶקַּח (eqàkh), “presi”, non lascia dubbi: è proprio “presi”, non ‘stavo per prendere’. E ne diamo dimostrazione con la stessa TNM, che in Dt 1:15 traduce: “Presi [אֶקַּח (eqàkh)] dunque i capi delle vostre tribù, uomini saggi ed esperti, e li posi come capi su di voi”, e non ‘stavo per prendere’. Il verbo è esattamente lo stesso, nella identica forma. La stessa precisa forma verbale si riviene in Dt 1:23 “Presi [אֶקַּח (eqàkh)] dodici uomini dei vostri, uno per ciascuna tribù” (TNM). Stessa cosa in Gs 24:3: “A suo tempo io presi [אֶקַּח (eqàkh)] il vostro antenato Abraamo” (TNM). Se ancora non bastasse, c’è anche 2Sam 1:10: “Presi [אֶקַּח (eqàkh)] il diadema che aveva sulla testa” (TNM). E anche Ger 32:11: “Dopo ciò presi [אֶקַּח (eqàkh)] l’atto d’acquisto” (TNM). E ancora Ger 35:3: “Presi [אֶקַּח (eqàkh)] dunque Iaazania figlio di Geremia” (TNM). Dio non ha bisogno di difese morali attraverso la manipolazione della sua Sacra Scrittura. Qui Dio non c’entra, poi; c’entrano Abramo, un faraone egizio e le vicende umane.

   Inoltre, a comprova che il faraone violò Sara, c’è un episodio alquanto simile (esaminato alla voce Sara) in cui il re non fece in tempo di approfittare di Sara perché Dio glielo impedì. In questo caso, però – a differenza del primo -, la Bibbia dice chiaramente che l’uomo “non si era ancora accostato a lei” e Dio stesso dice a costui: “Non ti ho permesso di toccarla”. – Gn 20:1-7.

   La Bibbia è sempre onesta nel narrare i fatti nudi e crudi così come sono. Se s’insiste – contro le evidenze bibliche – su questo maldestro tentativo di difesa dell’onore di Sarai, si spalancano le porte ad altri problemi: perché Dio non impedì che fosse violata Tamar (2Sam 13:1-18)? E perché ancora oggi sante donne di Dio vengono violentate? Il mondo va come va. La colpa è dell’uomo, non di Dio.

   “Or Sarai, moglie di Abramo, non gli aveva dato figli. Aveva una serva egiziana di nome Agar. Sarai disse ad Abramo: ‘Ecco, il Signore mi ha fatta sterile; ti prego, va’ dalla mia serva; forse avrò figli da lei’. E Abramo diede ascolto alla voce di Sarai. Così, dopo dieci anni di residenza di Abramo nel paese di Canaan, Sarai, moglie di Abramo, prese la sua serva Agar, l’Egiziana, e la diede per moglie ad Abramo suo marito”. – Gn 16:1-3.

   Rimasta incinta di Abramo, Agar mi montò la testa e ne nacque una rivalità femminile con la sua padrona Sarai, che si lamentò con suo marito Abramo. Questi concesse carta bianca a Sarai che si prese la rivincita umiliando Agar al punto che quella scappò via. L’intervento divino in favore di Agar la fece tornare sui suoi passi, per cui ritornò e diede alla luce Ismaele. – Gn 16:4-16.

   L’attenzione dei lettori biblici è di solito concentrata su Sarai, cosicché perdono di vista la benedizione di Dio ad Agar: “Io moltiplicherò grandemente la tua discendenza [le popolazioni arabe] e non la si potrà contare, tanto sarà numerosa . . . partorirai un figlio a cui metterai il nome di Ismaele, perché il Signore ti ha udita nella tua afflizione; egli sarà tra gli uomini come un asino selvatico; la sua mano sarà contro tutti, e la mano di tutti contro di lui; e abiterà [gli arabi] di fronte a tutti i suoi fratelli [gli ebrei]” (Gn 16:10-12). Da Ismaele discesero gli ismaeliti, ovvero le popolazioni arabe. L’adempimento della profetica promessa divina ad Agar è sotto gli occhi di tutti ancora oggi.

   “Dio disse ad Abraamo: ‘Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamare più Sarai; il suo nome sarà, invece, Sara. Io la benedirò e da lei ti darò anche un figlio; la benedirò e diventerà nazioni; re di popoli usciranno da lei”. – Gn 17:15,16.

   Per il seguito della storia si veda alla voce Sara.

Schiava – definizione (ebraico: אָמָה, amàh, e שִׁפְחָה, shifkhàh; greco: δούλη, dùle, e παιδίσκη, paidìske; “schiava”)

La parola ebraica אָמָה (amàh) indica una schiava, come in Gn 30:3: “Ecco la mia serva Bila”, in cui “serva” è un eufemismo italiano per indicare una schiava. Amàh può anche indicare una concubina, proprio come nel caso di Bila. In senso metaforico può esprimere umiltà, come in Sl 86:16: “Salva il figlio della tua serva”, in cui si sta pregando Dio. Il maschile עֶבֶד  (èved) ha un senso più ampio, riferendosi anche ai sudditi (2Sam 11:21; 2Cron 10:7), ai popoli vinti che dovevano pagare dei tributi (2Sam 8:2,6), ai servitori del re, fra cui coppieri, panettieri, marinai, ufficiali dell’esercito, consiglieri (Gn 40:20; 1Sam 29:3; 1Re 9:27; 2Cron 8:18;9:10;32:9). In ebraico si riscontra anche l’uso della parola “schiavo” come formula di cortesia. molto simile al nostro desueto “servo vostro”, rimasto come traccia nella parola “ciao”, derivata dal veneziano s-ciào (o s’ciàvo) che aveva appunto il significato di “schiavo”, derivati a sua volta dal neolatino sclavus. – Gn 33:5,14;42:10,11,13; 1Sam 20:7,8.

   Anche la parola ebraica שִׁפְחָה (shifkhàh) indica una schiava, come in Gn 16:1 in cui si parla della schiava egiziana Agar. L’uso di questa parola come forma di cortesia è attestato in Rut 2:13.

   Il termine greco δούλη (dùle), “schiava”, corrisponde all’ebraico אָמָה (amàh), ed è impiegato nella Bibbia una sola volta. Miryàm, la madre di Yeshùa, dice: “Ecco, io sono la serva [δούλη (dùle), “schiava”] del Signore” (Lc 1:38). Negli altri casi le Scritture Greche utilizzano παιδίσκη (paidìske), come in Gal 4:22 in cui la schiava (שִׁפְחָה, shifkhàh) egiziana Agar è detta paidìske, come nella LXX.

   Perché una donna diventava schiava? La guerra era una causa: i prigionieri erano fatti schiavi o venivano venduti come tali (2Re 5:2; Gle 3:6). La povertà era un’altra causa: chi diventava povero poteva vendere se stesso o propri figli come schiavi (Es 21:7; Lv 25:39,47; 2Re 4:1). Si diventava schiavi anche per risarcire il danno di un furto. – Es 22:3.

   In Israele c’era comunque differenza di trattamento tra schiavi ebrei e stranieri. Gli schiavi stranieri rimanevano proprietà del padrone e passavano al figlio (Lv 25:44-46). Lo schiavo ebreo doveva essere rimesso in libertà nel settimo anno di schiavitù oppure nell’anno giubilare (Es 21:2; Lv 25:10; Dt 15:12). Lo schiavo ebreo che si era venduto poteva essere ricomprato in ogni momento, sia da se stesso che da altri che ne avevano diritto (Lv 25:47-52; Dt 15:12). In più, quando lo schiavo ebreo era liberato, il padrone doveva aiutarlo a intraprendere la sua nuova vita da libero. – Dt 15:13-15.

  Una schiava, proprio come gli schiavi uomini, potevano avere un orecchio forato ad indicare la loro perpetua proprietà da parte del padrone. Ciò si verificava quando, pur avendo diritto alla liberazione, la chiava (o lo schiavo) decideva di rimanere con il padrone: “Ma se il tuo schiavo ti dice: ‘Non voglio andarmene via da te’, egli dice questo perché ama te e la tua casa e sta bene da te. Allora prenderai una lesina, gli forerai l’orecchio contro la porta, ed egli sarà tuo schiavo per sempre. Lo stesso farai per la tua schiava”. – Dt 15:16,17.

   Per la schiava ebrea vigevano norme particolari: “Se uno vende la propria figlia come schiava, questa non se ne andrà come se ne vanno gli schiavi. Se lei non piace al suo padrone, che si era proposto di prenderla in moglie, deve permettere che sia riscattata; ma non avrà il diritto di venderla a gente straniera, dopo esserle stato infedele. Se la dà in sposa a suo figlio, dovrà trattarla secondo il diritto delle figlie. Se prende un’altra moglie, non toglierà alla prima né il vitto, né il vestire, né la coabitazione. Se non le fa queste tre cose, lei se ne andrà senza pagare nessun prezzo”. – Es 21:7-11.

   Sl 123:2 illustra i sentimenti di una schiava: “Gli occhi della serva guardano la mano della sua padrona”. Cosa curiosa, tra le quattro cose per cui “la terra trema” e che “non può sopportare” (Pr 30:21) c’è “una serva quando diventa erede della padrona”. –  Pr 30:23.

   Il fatto che la Legge prevedesse una serie di norme per la schiavitù non va preso come beneplacito divino. Piuttosto, proprio il fatto che la Legge contenesse queste norme, sta ad indicare che il pessimo costume dei tempi, che ammetteva la schiavitù, veniva arginato e regolato perché non se ne abusasse. Era insomma prevista una tutela. Era vietato far lavorare gli schiavi di sabato (Es 20:10; Dt 5:14) ed era consentito loro di partecipare alla celebrazione delle sante Festività di Dio (Dt 12:12;16:11,14). In caso di maltrattamenti disumani era prevista la liberazione dalla schiavitù con conseguente danno economico del padrone (Es 21:20,21,26,27,32; Lv 24:17; cfr. Nm 35:16-18). La disciplina, anche corporale, era consentita. Del resto, valeva anche per i figli (proprio come anche presso di noi fino ad alcuni decenni fa): “Non risparmiare la correzione al bambino; se lo batti con la verga, non ne morrà”. – Pr 23:13.

   Con la venuta di Yeshùa, nella sua congregazione le cose cambiarono. Ma i discepoli non erano rivoluzionari, per cui la schiavitù rimase. Lo schiavo Onesimo, che era scappato dal suo padrone Filemone che era discepolo di Yeshùa, una volta divenuto discepolo di Yeshùa lui stesso, fu rimandato da Paolo al suo padrone. Paolo scrisse una lettera a Filemone, conservata nella Bibbia (cfr. Flm). In essa, definendosi “prigioniero di Cristo Gesù” (Flm 9), prima gli dice: “Te lo rimando” (Flm 12), poi gli confessa: “Avrei voluto tenerlo con me, perché in vece tua mi servisse nelle catene che porto a motivo del vangelo” (Flm 13). Infine conclude: “Forse proprio per questo egli è stato lontano da te per un po’ di tempo, perché tu lo riavessi per sempre; non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello caro specialmente a me, ma ora molto più a te, sia sul piano umano sia nel Signore!”. – Flm 15,16.

   Sebbene la schiavitù non fosse abolita, nel 1° secolo il trattamento degli schiavi e delle schiave nelle congregazioni dei discepoli di Yeshùa divenne più umano: “Padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone nel cielo” (Col 4:1); “Quelli che hanno padroni credenti non li disprezzino perché sono fratelli, ma li servano con maggiore impegno, perché quelli che beneficiano del loro servizio sono fedeli e amati”. – 1Tm 6:2.

Seera (שֶׁאֱרָה, Sheeràh, “parente”)

“Efraim ebbe per figlia Seera, che costruì Bet-Oron, la inferiore e la superiore, e Uzzen-Seera”. – 1Cron 7:24.

   Questa donna era figlia di Efraim, il figlio che Giuseppe ebbe da Asenat, figlia di Potifera sacerdote di On (Gn 41:50). Lei fu la fondatrice di tre città: Bet-Oron di Sopra, Bet-Oron di Sotto e Uzzen-Seera, che da lei prese il nome. Una donna notevole, quindi. Era una donna affascinante, anche se la Bibbia fornisce scarse informazioni sulla sua vita.

   Bet-Oron Alta e Bet-Oron Bassa – con un dislivello di circa 240 m tra loro – si trovavano in cima a due colline, in una posizione strategica sull’antica via delle carovane che portava dalla pianura sul Mar Mediterraneo a Gerusalemme. Quelle due città esistono tuttora in due villaggi: quello superiore di Bet Horon `Elyon e quello inferiore di Bet Horon Tahton.

   Queste due città erano al confine meridionale della tribù di Efraim (Gs 16:3,5). Il confine della tribù di Beniamino passava su un monte a sud di Bet-Oron Bassa (Gs 18:13,14). Bet-Oron, tutte e due oppure solo una, venne poi data ai leviti (Gs 21:20,22; 1Cron 6:68). Per la loro posizione strategica, queste città videro il passaggio di eserciti in guerra, come al tempo della conquista israelita della Terra Promessa (Gs 10:6-12). Ai tempi del re Saul, la via delle carovane che passava da Bet-Oron era una delle tre vie carovaniere percorse dai predoni filistei (1Sam 13:16-18). Il re Salomone fortificò in seguito entrambe le città per fermare gli  invasori egizi e filistei (2Cron 8:5). Il faraone egizio che invase il Regno di Giuda si vantò di aver sottomesso Bet-Oron e altre città (1Re 14:25; 2Cron 12:2-9). Bet-Oron fu poi saccheggiata al tempo di Amazia re di Giuda. – 2Cron 25:5-13.

   In quanto a Uzzen-Seera, stando a diversi archeologi, pare sia da identificarsi con Beit Sira, a circa 4 km a ovest da Bet-Oron Bassa e circa 21 km a nord-ovest di Gerusalemme.

Sefora (צִפֹּרָה, Tsiporàh, “uccello”)

Per prima cosa occorre riferirsi a Es 2:21,22: “Mosè accettò di abitare da quell’uomo [Ietro, sacerdote di Madian – Es 3:1]. Egli diede a Mosè sua figlia Sefora. Ella partorì un figlio che Mosè chiamò Ghersom; perché disse: ‘Abito in terra straniera’”.

   Spesso si guarda a persone considerate più spirituali, persone che sanno discernere i problemi. Ci aspettiamo che Dio si riveli attraverso alcuni grandi uomini, “anziani” o uomini capaci. Eppure, il discernimento è un dono che Dio concede a sua discrezione. In Esodo troviamo la storia di una donna straniera che mostra un discernimento che al marito mancava. La Bibbia ci narra prima alcuni retroscena.

   “Mosè se ne andò, tornò da Ietro suo suocero e gli disse: ‘Lascia che io vada e ritorni dai miei fratelli che sono in Egitto, e veda se sono ancora vivi’. Ietro disse a Mosè: ‘Va’ in pace’. Il Signore disse a Mosè in Madian: ‘Va’, torna in Egitto, perché tutti quelli che cercavano di toglierti la vita sono morti’. Mosè dunque prese sua moglie e i suoi figli, li mise su un asino e tornò nel paese d’Egitto. Mosè prese nella sua mano anche il bastone di Dio”. – Es 4:18-20.

   Ai nostri occhi può sembrare strano che un uomo debba chiedere a suo suocero il permesso di servire Dio. Eppure, Mosè – consapevolmente o inconsapevolmente – aveva seguito il comando che Dio diede ad Adamo ed Eva. Un marito doveva lasciare la sua famiglia a unirsi a sua moglie (Gn 2:24). Mosè aveva lasciato la sua famiglia e si era unito a Sefora e alla famiglia di lei. Come parte della famiglia dei Ietro, giustamente chiese il permesso prima di lasciare la casa. Così, Sefora si ritrovò imbarcata con Mosè e con i suoi figli in una delle storie più avventurose.

   Nell’esaminare lo svolgimento di questa storia, ci s’imbatte in passaggi che confondono ancora oggi gli studiosi. Il racconto rivela il dono del discernimento e la rapidità di pensiero di Sefora. Il testo ebraico, in questi passaggi, è estremamente oscuro. Ci limiteremo quindi ad una panoramica generale degli aspetti della storia, per poi sottolineare alcuni dei passi oscuri.

   “Mentre si trovava in viaggio, il Signore [la LXXgreca ha ἄγγελος κυρίου (ànghelos kürìu), “un angelo di Signore”] gli venne incontro nel luogo dov’egli pernottava, e cercò di farlo morire. Allora Sefora prese una selce tagliente, recise il prepuzio di suo figlio e con quello gli toccò i piedi di Mosè, dicendo: ‘Tu sei per me uno sposo di sangue!’ Allora il Signore lo lasciò. Lei aveva detto: ‘Sposo di sangue!’, a causa della circoncisione”. – Es 4:24-26.

   Dio cercò di far morire Mosè. Mosè aveva fatto qualcosa? O forse non aveva fatto qualcosa? La Bibbia non specifica che cosa avesse fatto o non fatto per dispiacere a Dio. Comunque sia, Dio cerca Mosè con l’intento di ucciderlo. Mosè non sembra dare risposta e neppure di saperlo fare. Un’improbabile eroina diventa la protagonista. Sefora individua ciò che deve essere fatto per ripristinare il rapporto con Dio. Quando Mosè sembrava incapace di placare il Signore, Sefora agì per evitare il disastro.

   I biblisti discutono tuttora sull’interpretazione di questo evento, ma non ne vengono a capo. Si domandano ancora se fosse la vita di Mosè o quella del bambino a essere minacciata; se col prepuzio Sefora abbia toccato i piedi di Mosè, i piedi del bambino o i piedi dell’angelo; se la frase: “Tu sei per me uno sposo di sangue!”, Sefora l’abbia detta a Mosè o a Dio rappresentato dall’angelo.

   La legge della circoncisione, anteriore a Mosè di secoli, stabiliva che “il maschio che non sarà stato circonciso nella carne del suo prepuzio, sarà tolto via dalla sua gente”, ovvero giustiziato (Gn 17:14). Era quindi il bambino che Dio cercava di mettere a morte. D’altra parte, se fosse stato Mosè il bersaglio (per il fatto che non aveva circonciso suo figlio), non si comprende come l’azione di Sefora sul bambino potesse salvargli la vita, dato che Mosè rimase inerte. Inoltre, possiamo ragionevolmente concludere che non era Mosè ad essere minacciato, dato Dio gli aveva appena affidato l’incarico di condurre gli israeliti fuori dall’Egitto. – Es 3:10.

   In quanto al toccare i piedi, si noti la pessima traduzione che ne fa NR: “Recise il prepuzio di suo figlio e con quello gli toccò i piedi di Mosè”, sconclusionata anche sintatticamente: “Con quello gli toccò i piedi di Mosè” (sic); “gli” a chi? Inoltre, il “di Mosè” è aggiunto: nel testo biblico non compare. TNM aggiusta così: “Recise il prepuzio di suo figlio e fece in modo che esso gli toccasse i piedi”; i piedi di chi? Meglio stare al vero testo biblico e cercare di capire senza far voli di fantasia. L’ebraico ha וַתִּקַּח צִפֹּרָה צֹר וַתִּכְרֹת אֶת־עָרְלַת בְּנָהּ וַתַּגַּע לְרַגְלָיו וַתֹּאמֶר (vatiqàh tsiporàh tsor vatichròt et-arlàt bnah vatagà leraglàyn vatomèr), letteralmente: “E prese Zippora selce e tagliò prepuzio di figlio di lei e toccò piedi di lui”. Ora, occorre sapere che i piedi sono un eufemismo per indicare le parti genitali, come in Is 7:20: “In quel giorno, il Signore, con un rasoio preso a noleggio di là dal fiume, cioè con il re d’Assiria, raderà la testa, i peli dei piedi [= genitali] e porterà via anche la barba”. Quindi il passo significa: “Sefora prese una pietra tagliente e recise il prepuzio di suo figlio toccandogli i genitali”.

   “Tu sei per me uno sposo di sangue”: che significa? Che “si rivolgesse a Geova per mezzo del suo rappresentante angelico, per mostrare che accettava la posizione di moglie nel patto della circoncisione con Geova quale marito” (Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 2, pag. 1233) è pura fantasia. Dio nella Bibbia è detto sposo o marito del suo popolo (Is 54:5), mai di una singola donna. Il termine ebraico חֲתַן (khatàn), tradotto “sposo”, non significa sempre “marito”, ma anche “genero” (Gn 19:14; Gdc 15:6; 1Sam 18:18), e a volte significa semplicemente “parente”, come in 2Re 8:27: “Era parente [חֲתַן (khatàn)] della casa di Acab” (TNM). Inoltre, il termine חֲתַן (khatàn) è imparentato con una forma verbale araba che significa circoncidere e ancora oggi in arabo “marito” (زوج) e “circoncisione” sono parole che derivano dalla stessa radice. La parola tradotta “sangue” è nel testo ebraico דָּמִים (damìn), ma “sangue” in ebraico si dice דָּם (dam). La distinzione tra דָּם (dam) e  דָּמִים (damìn) richiede di essere notata. Il singolare דָּם (dam) è sempre utilizzato quando il sangue viene considerato come una unità organica, come quello mestruale e dei sacrifici (raccolto nel bacino e poi spruzzato), e in Nm 23:24 il sangue che sgorga dalle ferite. Il plurale דָּמִים (damìn) indica il sangue che è sparso, come le macchie di sangue (Is 1:15:9:4 – 9:5 in TNM); דָּמִים (damìn) denota anche il sangue che scorre alla nascita di un bambino o durante la sua circoncisione.

   In effetti, dopo averlo circonciso, Sefora dice al figlio: “Mi sei parente di sangue” o meglio, stando al testo ebraico, letteralmente: “Parente di sangue tu per me”, חֲתַנ־דָּמִים אַתָּה לִי, khatàn-damìn attà li.

   Ora la domanda è: quale dei due figli di Sefora e Mosè fu implicato? Quando Mosè fuggì dall’Egitto e si rifugiò in Madian, qui sposò Sefora, una donna non ebrea, ed ebbe due figli (Es 2:16-22;18:2-4): Gerson ed Eliezer. Si noti Es 18:3,4: “Uno si chiamava Ghersom; perché Mosè aveva detto: ‘Abito in terra straniera’. L’altro si chiamava Eliezer, perché aveva detto: ‘Il Dio di mio padre è stato il mio aiuto e mi ha liberato dalla spada del faraone’”. Solo uno dei due viene circonciso, quindi l’altro lo era già. Tutto depone per Ghersom quale incirconciso. Mosè era in fuga dall’Egitto perché tentavano di ucciderlo e si era rifugiato in Madian (Es 2:11-15; At 7:23-29). A quel tempo Mosè era un ebreo egiziano, “istruito in tutta la sapienza degli Egiziani” (Es 2:1-10; At 7:20-22); era un fuggiasco (Es 2:11-15; At 7:23-29.); Dio non gli si era ancora rivelato. Il nome che diede al suo primogenito rispecchia la sua condizione di allora: “Ghersom; perché Mosè aveva detto: ‘Abito in terra straniera’”. Solo più tardi Dio si rivelò a Mosè, incaricandolo di liberare il suo popolo (Es 3:1-15). Il nome che diede al suo secondo figlio rispecchia l’acquisita fedeltà a Dio: “Eliezer, perché aveva detto: ‘Il Dio di mio padre è stato il mio aiuto e mi ha liberato dalla spada del faraone’”.

   Tutto il fare e il dire di Sefora assume allora un senso compiuto. Appena prima di questo evento, il racconto ispirato dice che Dio aveva comandato a Mosè di dire al faraone egizio: “Così dice il Signore: Israele è mio figlio, il mio primogenito, e io ti dico: Lascia andare mio figlio, perché mi serva; se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io ucciderò tuo figlio, il tuo primogenito” (Es 4:22,23). Subito dopo viene detto che “mentre si trovava in viaggio, il Signore gli venne incontro nel luogo dov’egli pernottava, e cercò di farlo morire” (v. 24). Al rifiuto del faraone Dio avrebbe ucciso il suo primogenito, e ora Dio vuole uccidere il primogenito di Mosè perché è incirconciso.

   Sefora era una donna di coraggio e con precisa chiarezza affrontò un problema spirituale nella sua famiglia, un problema che riguardava specificamente il fallimento del marito nell’affrontare una questione spirituale. Ora, queste furono le circostanze della storia. Tuttavia, a causa della natura oscura del testo ebraico in questa sezione, non tutti riescono ad avere comprensione di questa storia e ciò crea ombre nelle loro interpretazioni.

   Dopo questo episodio pare che Sefora sia tornata a casa di suo padre. Alcuni commentatori dicono che lei abbandonò Mosè, ma la Bibbia non lo indica. Altri dicono che Mosè la mandò via, ma la Bibbia non indica neppure questo. In realtà, la Bibbia non fornisce alcuna motivazione per il rientro di Sefora, con i suoi due figli, alla casa paterna. Una segnalazione alla non fedele traduzione di NR del v. 26 va fatta. Questa versione ha qui: “Allora il Signore lo lasciò”, lasciando intendere che Dio lasciasse tranquillo Mosè dopo che suo figlio era stato circonciso da Sefora. TNM rende così: “Di conseguenza egli lo lasciò andare”, facendo intendere, anche qui, che Dio lasciasse andare Mosè. Il testo biblico ha questa frase: וַיִּרֶף מִמֶּנּוּ אָז אָמְרָה חֲתַן דָּמִים לַמּוּלֹת (vayrèf mimènu as amràh khatàn damìm lamulòt), “e si ritirò da lui quando disse parente di sangue”. Come si vede, il soggetto “il Signore” (inserito da NR) nel testo ebraico non c’è, e nulla giustifica quell’“egli” inserito da TNM. Il verbo יִּרֶף (yrèf), “si ritirò”, infatti, può indicare sia un soggetto maschile che femminile. Potrebbe riferirsi proprio a Sefora. In tal caso il testo affermerebbe che Sefora, dopo aver pronunciato la frase “mi sei parente di sangue”, “si ritirò da lui”. Da lui chi? Potrebbe trattarsi di Mosè, visto che poi Sefora sparisce dal seguito del racconto per ricomparire solo quando suo padre Ietro la conduce con i suoi due figli da Mosè accampato nel deserto dopo l’esodo dall’Egitto con tutti gli ebrei. – Es 18:1-6.

   Vediamo ora quando Sefora incontra di nuovo Mosè. “Ietro, sacerdote di Madian, suocero di Mosè, udì tutto quello che Dio aveva fatto in favore di Mosè e d’Israele suo popolo: come il Signore aveva fatto uscire Israele dall’Egitto. Ietro, suocero di Mosè, aveva preso Sefora, moglie di Mosè, dopo che era stata rimandata, e i due figli di Sefora . . . Ietro, suocero di Mosè, andò da Mosè, con i figli e la moglie di lui, nel deserto dove egli era accampato, al monte di Dio, e fece dire a Mosè: ‘Io, Ietro, tuo suocero, vengo da te con tua moglie e i suoi due figli con lei’” (Es 18:1-6).  Si noti: “Dopo che era stata rimandata”; “dopo che era stata mandata via”, per TNM. L’ebraico ha שִׁלּוּחֶיהָ (shilukhèyah). Dire che il verbo שלח (shalàkh) è quello usato per indicare il divorzio (Dt 21:14:22:19,29) lascia ogni supposizione alla mera speculazione. Lo stesso verbo è usato per indicare l’invio dei profeti (Ger 7:25) e per indicare l’invio di una persona per qualche motivo, come quando Isacco manda Giacobbe a prendersi moglie (Gn 28:6). Se ci fosse stata qualche colpa da parte di Sefora per cui Mosè la dovesse cacciare, la Bibbia lo direbbe. Dire che “Zippora tornò a far visita ai suoi genitori” (Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 2, pag. 1233) è banalizzare. Non è più semplice e più logico pensare che Mosè “l’aveva rimandata” (שִׁלּוּחֶיהָ, shilukhèyah) e che lei “si ritirò” (יִּרֶף, yrèf) data la situazione? Mosè stava per andare in Egitto ad affrontare il potente faraone, sfidandolo (Es 3:1-15); quanto era appena accaduto li scosse e fece loro comprendere che altre difficoltà le avrebbero incontrate in Egitto. Era più pratico per lei e per i ragazzi tornare a casa loro, al sicuro, e ricongiungersi con Mosè al momento giusto, quando le cose si fossero risolte per il meglio. Non c’è alcunché nella Bibbia che indichi una discordia all’interno della famiglia.

   Il riferimento finale a Sefora è Nm 12:1: “Maria e Aaronne parlarono contro Mosè a causa della moglie cusita che aveva presa; poiché aveva sposato una Cusita”. Generalmente i commentatori sostengono che qui sia stia parlando di un’altra moglie di Mosè. Non è il caso di fare questi voli di fantasia. I madianiti erano cusiti.

Selomit figlia di Zorobabele (שְׁלֹמִית, Shlomìt, “pacifica”)

“I figli di Pedaia furono: Zorobabele e Simei. I figli di Zorobabele furono: Mesullam e Anania, e Selomit, loro sorella”. – 1Cron 3:19.

Selomit moglie di un egiziano (שְׁלֹמִית, Shlomìt, “pacifica”)

“Il figlio di una donna israelita e di un Egiziano, trovandosi in mezzo a degli Israeliti, venne a diverbio con un figlio d’Israele. Il figlio della israelita bestemmiò il nome del Signore e lo maledisse; perciò fu condotto da Mosè. La madre di quel tale si chiamava Selomit ed era figlia di Dibri, della tribù di Dan. Lo misero in prigione, in attesa di sapere che cosa il Signore ordinasse di fare”. – Lv 24:10-12.

   Si noti che mentre dell’uomo si dice che era semplicemente “un egiziano”, della donna – in quanto “donna israelita” – si dà il nome. I matrimoni tra ebrei e stranieri che non adoravano Dio erano vietati (Es 34:14-16; Dt 7:1-4). Nonostante gli sforzi che questa donna avesse potuto fare per dare una formazione spirituale al figlio, dovette pagare lo scotto di avere un marito egiziano, da cui evidentemente il loro figlio prese, arrivando a bestemmiare il nome di Dio.

   Qui la Bibbia non dice “bestemmiò il nome del Signore”, come traduce NR. Il testo ebraico ha semplicemente “bestemmiò il Nome [הַשֵּׁם (hashèm)]”. Gli ebrei devoti di tutto il mondo ancora oggi si rivolgono a Dio chiamandolo HaShèm, “il Nome”.

Sera (שָׂרַח, Sàrakh; “abbondanza”)

“Il nome della figlia di Ascer era Sera”. – Nm 26:46.

   Due altri passi biblici menzionano Sera: “I figli di Ascer furono: Imna, Isva, Isvi, Beria, e Sera, loro sorella” (1Cron 7:30); “I figli di Ascer: Imna, Tisva, Tisvi, Beria e Serac loro sorella”. – Gn 46:17; in questo passo non si comprende perché il nome שָׂרַח, Sàrakh, tradotto altrove “Sera”, qui in questa traduzione diventi “Serac”.

   Nulla di Sera rimane nella Bibbia, se non queste menzioni. Ci domandiamo perché Sera abbia meritato una menzione nella Bibbia. Ci deve essere certo una ragione. Forse la ragione sta in Gn 46:8,27: “Questi sono i nomi dei figli d’Israele che vennero in Egitto . . . Il totale delle persone della famiglia di Giacobbe che vennero in Egitto, era di settanta [“settantacinque” per la LXX]”. Nei versetti da 8 a 25 queste persone sono elencate per nome, e Sera è tra queste, sebbene il v. 26 specifichi: “Senza contare le mogli dei figli di Giacobbe”.

   In Gn 46:17 è chiamata Sera, ebraico שֶׂרַח (Sèrakh).

Serac (שֶׂרַח, Sèrakh, “abbondanza”)

“I figli di Ascer: Imna, Tisva, Tisvi, Beria e Serac loro sorella”. – Gn 46:17.

   Costei era figlia di Ascer, ottavo figlio (Gn 35:26). Serac fu una delle persone che andarono in Egitto al seguito di Giacobbe. – Gn 46:7,17,27; Nn 26:46; 1Cron 7:30.

   In Nn 26:46 è chiamata anche “Sera”, ebraico שָׂרַח (Sàrakh).

Serua (צְרוּעָה, Tseruàh, “lebbrosa”)

“Anche Geroboamo, servo di Salomone, si ribellò contro il re. Egli era figlio di Nebat, Efrateo di Sereda, e aveva per madre una vedova che si chiamava Serua”. – 1Re 11:26.

Seruia (צְרוּיָה, Tseruyàh, “balsamo”)

Molto spesso si pensa agli uomini fondatori di famiglie dinastiche come a grandi guerrieri, ma la Bibbia ci offre anche l’esempio di una donna comune alla base di una dinastia. Seruia, sorella di Davide, è citata in tutti i libri di Samuele e Cronache. Ogni volta, un suo figlio guerriero è identificato dal suo rapporto con lei.

   Seruia ebbe tre figli: “I tre figli di Seruia, Ioab, Abisai e Asael” (2Sam 2:18). Seruia, sorella di Davide, è ritenuta da alcuni sua sorellastra. In 1Cron 2:13-16 sono menzionati i sette figli di Isai, tra cui “Davide il settimo” e viene detto che “le loro sorelle erano Seruia e Abigail”. Da questo passo appare chiaro che Seruia era sorella di Davide. Tuttavia, in 2Sam 17:25 si parla di “Abigal, figlia di Nacas e sorella di Seruia”. Come si nota, solo Abigail viene definita “figlia di Nacas”, mentre Seruia no. Abigail era evidentemente nata da un precedente matrimonio della moglie di Isai con Nacas, e perciò era solo sorellastra di Davide. Seruia però non è mai detta figlia di Nacas. Lei era quindi sorella di Davide. A quanto pare, sorella maggiore di Davide, dato che i suoi figli appaiono più o meno della stessa età di Davide.

   Mentre il nome di Seruia identifica i suoi tre figli, tutti valorosi guerrieri di Davide (2Sam 2:13,18;16:9), di suo marito non si fa accenno.

   “Davide disse ad Aimelec, l’Ittita, e ad Abisai, figlio di Seruia, fratello di Ioab: ‘Chi vuole scendere con me, verso Saul, nel campo?’ Abisai rispose: ‘Scenderò io con te’” – 1Sam 26:6.

   Per tutte le altre citazioni che riguardano Seruia si vedano 2Sam 2:13,18;3:39;8:16;14:1,2;17:25;18:2;19:21,22;23:18,37; 1Re 1:7;2:5,22; 1Cron 2:13-17;11:6,26-47;18:12,15;26:28;27:24.

Serva – definizione: vedere Schiava – definizione

Serva del sommo sacerdote (παιδίσκη, paidìske, “serva”)

“Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle serve del sommo sacerdote”. – Mr 14:66.

   Nell’immaginario questa serva potrebbe essere vista come una donna di una certa età, al servizio del sommo sacerdote. Il greco del testo la descrive come μία τῶν παιδισκῶν (mia ton paidiskòn), “una” (mia) dei pasdiskòn. Quest’ultimo termine, contenendo parola παῖς (pàis) che indica un bambino o ragazzo (si pensi ai derivati pediatria, pedologia), viene a significare una giovane ragazza, una giovane schiava. Tuttavia, data la sua condizione di serva, il nome potrebbe non necessariamente essere riferito a una persona giovane. Anche noi usiamo la parola “ragazzo” per indicare un garzone che potrebbe essere perfino in là con gli anni.

   Yeshùa si trova dal sommo sacerdote, dove gli ‘sputano addosso e gli danno dei pugni’ (v. 65). Quando avevano condotto Yeshùa “davanti al sommo sacerdote; e si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi” (v. 53), “Pietro, che lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del sommo sacerdote, stava lì seduto con le guardie e si scaldava al fuoco”. – Mr 14:54.

   “Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle serve del sommo sacerdote; e, veduto Pietro che si scaldava, lo guardò bene in viso e disse: ‘Anche tu eri con Gesù Nazareno’. Ma egli negò dicendo: ‘Non so, né capisco quello che tu dici’. Poi andò fuori nell’atrio e il gallo cantò. La serva, vedutolo, cominciò di nuovo a dire ai presenti: ‘Costui è uno di quelli’. Ma lui lo negò di nuovo. E ancora, poco dopo, coloro che erano lì dicevano a Pietro: ‘Certamente tu sei uno di quelli, anche perché sei Galileo’. Ma egli prese a imprecare e a giurare: ‘Non conosco quell’uomo di cui parlate’. E subito, per la seconda volta, il gallo cantò. Allora Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detta: ‘Prima che il gallo abbia cantato due volte, tu mi rinnegherai tre volte’ [cfr 14:30]. E si abbandonò al pianto”. – Mr 14:66-72.

   I passi paralleli si trovano Mt 26:69-75 e in Lc 22 :54-62

Serva informatrice (הִגִּידָה, highìydah, “schiava”)

“Gionatan e Aimaas stavano appostati presso En-Roghel; una serva andò a informarli, ed essi andarono a informare il re Davide. Essi infatti non potevano entrare in città in modo palese”. – 2Sam 17:17.

   Questa ragazza agì come informatrice indiretta del re Davide quando questi cercava di sfuggire a suo figlio Absalom che tentava di usurpare il trono. Poco chiara la traduzione di NR. Più chiara CEI: “Ora Giònata e Achimaaz stavano presso En-Roghèl, in attesa che una schiava andasse a portare le notizie che essi dovevano andare a riferire al re Davide; perché non potevano farsi vedere ad entrare in città”.

   Un’altra donna ebbe un ruolo importante nella salvezza di Davide: una semplice casalinga. – Si veda la voce Donna di casa.

Serva posseduta da uno spirito (παιδίσκη ἔχουσα πνεῦμα πύθωνα, paidìske èchusa pnèuma pǘthona, “giovane schiava avente uno spirito di Puto”; Puto era la regione dove si era trovava Delfi, la sede del famoso oracolo)

“Mentre andavamo al luogo di preghiera, incontrammo una serva posseduta da uno spirito di divinazione. Facendo l’indovina, essa procurava molto guadagno ai suoi padroni. Costei, messasi a seguire Paolo e noi, gridava: ‘Questi uomini sono servi del Dio altissimo, e vi annunciano la via della salvezza’. Così fece per molti giorni; ma Paolo, infastidito, si voltò e disse allo spirito: ‘Io ti ordino, nel nome di Gesù Cristo, che tu esca da costei’. Ed egli uscì in quell’istante. I suoi padroni, vedendo che la speranza del loro guadagno era svanita, presero Paolo e Sila e li trascinarono sulla piazza davanti alle autorità”. – At 16:16-19.

   Paolo e Sila incontrarono questa ragazza schiava sulla strada che portava a quello che loro pensavano fosse un “luogo di preghiera”. Con loro c’era Luca, come si deduce dal verbo “andavamo”, in cui s’include (Luca è il redattore di At). Questa schiava non era semplicemente una donna ai margini della società, al più basso livello sociale. Questa era una donna doppiamente schiava: fisicamente e spiritualmente.

   Lei era “posseduta da uno spirito di divinazione”. I suoi proprietari la sfruttavano per fare soldi. Mentre Paolo e il suo seguito vanno ad un presunto “luogo di preghiera”, lei si mette a seguirli, gridando che essi hanno “la via di salvezza”. Ovviamente, lo spirito demoniaco manipolava la situazione. Riconoscendo che loro recavano la salvezza, lei si rendeva autorevole, così da lasciar intendere che lei, l’autorità, era depositaria del bene. Paolo, irritato, ordina allo spirito di uscire da lei. Di conseguenza, i proprietari della schiava se la prendono con Paolo.

   Il contrasto tra questa ragazza e Lidia, di cui si parla appena prima in At 16:13-15, è lampante. Lidia “stava ad ascoltare”, mentre questa ragazza “gridava”. Lidia “fu battezzata con la sua famiglia”, la liberazione di questa ragazza fu contestata dai suoi proprietari.

Serve dell’Ecclesiaste (שְׁפָחֹות, shefachòt, “serve”)

“Comprai servi e serve, ed ebbi dei servi nati in casa”. – Ec 2:7.

Il qoèlet, il maestro, l’ecclesiaste, si vanta di aver avuto schiavi e schiave di sua proprietà, e che questi gli generarono altri schiavi.

Serve di Abimelec (אַמְהֹתָיו, amehotàv, “schiave di lui” )

“Abraamo pregò Dio e Dio guarì Abimelec, la moglie e le serve di lui, ed esse poterono partorire. Infatti, il Signore aveva reso sterile l’intera casa di Abimelec, a causa di Sara, moglie di Abraamo” (Gn 20:17,18). Abimelec aveva preso Sara come sua moglie, per cui Dio aveva punito l’intera famiglia di Abimelec. Le sue donne non furono in grado di avere figli fino a che Abimelec non restituì Sara. Abimelec aveva creduto che Sara fosse la sorella di Abraamo. Egli, comunque, non l’aveva toccata: fu avvertito da Dio. Il re Abimelec restituì allora Sara ad Abraamo, dandogli come compenso bestiame, schiavi e mille sicli d’argento quale garanzia della castità di Sara. Abimelec e Abraamo conclusero in seguito un patto di pace. – Gn 20:1-18;21:22-34.

Serve rientrate dall’esilio (אַמְהֹת, amòt, “”schiave”)

“La comunità nel suo insieme contava quarantaduemilatrecentosessanta persone, senza contare i loro servi e le loro serve, che ammontavano a settemilatrecentotrentasette. Avevano anche duecento cantanti, maschi e femmine”. – Esd 2:64,65; cfr Nee 7:66.

   Si tratta di 42.360 persone che tornarono dall’esilio con i figli d’Israele, compresi i funzionari.

A seguito del decreto del re persiano Ciro II, i prigionieri giudei – esuli in Babilonia – poterono tornare a Gerusalemme per riedificare il Tempio (2Cron 36:20,21; Esd 1:1-4). 42.360 persone (oltre a 7.337 schiavi e schiave, cantatori e cantatrici) partirono per il lungo viaggio del rientro. Un commento della Bibbia tradotta dal rabbino americano I. Leeser (6a edizione) calcola un totale di 200.000 persone, includendo donne e bambini.

   Le serve destinate al servizio nel Tempio erano esenti da imposte. – Esd 7:24.

Sette donne (שֶׁבַע נָשִׁים, shèva nashìm, “sette donne”)

“In quel giorno, sette donne afferreranno un uomo”. – Is 4:1.

   Prosegue qui il giudizio divino contro i gerosolimitani (v. Is 3; cfr. la voce Figlie di Sion). Per descrivere la desolazione di Gerusalemme, viene detto alle donne di Gerusalemme:

 

“In quel giorno, sette donne afferreranno un uomo e diranno:

‘Noi mangeremo il nostro pane,

ci vestiremo delle nostre vesti;

facci solo portare il tuo nome!

Togli via da noi il disonore!’”. – Is 4:1.

   Il numero sette è simbolico: denota qui la totalità della popolazione femminile. Il “disonore” che queste donne chiedono sia tolto loro è la vedovanza; per questo chiedono di poter portare un nuovo nome, quello del nuovo marito. Ciò indica che ci sarà lutto in Gerusalemme.

Sette figlie di Reuel: vedere Figlie di Reuel

Sibia (צִבְיָה, Tsivyàh, “gazzella”)

“Il settimo anno di Ieu, Ioas cominciò a regnare, e regnò quarant’anni a Gerusalemme. Sua madre si chiamava Sibia da Beer-Sceba”. – 2Re 12:1.

   “Ioas aveva sette anni quando cominciò a regnare, e regnò quarant’anni a Gerusalemme. Sua madre si chiamava Sibia da Beer-Sceba”. – 2Cron 24:1.

   La Bibbia ci dà solo queste informazioni su Sibia. Era la madre del re Ioas. Era sposata? E con chi? La Bibbia non ce lo dice e non identifica il padre Ioas.

   Definire Sibia “presumibilmente moglie del re Acazia e quindi nuora di Atalia”, come fa Perspicacia nello studio delle Scritture (Vol. 2, pag. 970) sulla base di 2Re 11:1,2, è un’ipotesi da respingere. Sebbene le traduzioni usino il nome “Ioas” in tutti e due i passi, la Bibbia ha nomi differenti. Ioas figlio di Sibia (2Re 12:1; 2Cron 24:1) è יְהֹואָשׁ (Yehoàsh). Ioas figlio di Acazia (2Re 11:1,2) è יֹואָשׁ (Yoàsh). Si tratta di due persone diverse.

Sidonie (צֵדְנִיֹּת, tsednyòt, “sidonie”)

“Il re Salomone, oltre alla figlia del faraone, amò molte donne straniere: delle Moabite, delle Ammonite, delle Idumee, delle Sidonie, delle Ittite, donne appartenenti ai popoli dei quali il Signore aveva detto ai figli d’Israele: ‘Non andate da loro e non vengano essi da voi, poiché essi certo pervertirebbero il vostro cuore per farvi seguire i loro dèi’. A tali donne si unì Salomone nei suoi amori”. – 1Re 11:1,2.

   “Canaan generò Sidon, suo primogenito” (Gn 10:15; 1Cron 11:13). Inizia così la storia della città portuale di Sidone. Canaan, il padre di Sidon, era il quarto figlio di Cam e nipote di Noè (Gn 9:18;10:6; 1Cron 1:8). Sidon fu il capostipite delle 11 tribù che si stabilirono nella zona mediterranea fra l’Egitto e la Siria, chiamata “paese di Canaan” (1Cron 16:18). — Gn 10:15-19.

   I sidoni erano quindi cananei (Gs 13:4-6; Gdc 10:12). La città di Sidon faceva quindi parte del confine dei cananei. Chiamata “Sidone la Grande” (Gs 11:8) al tempo della conquista ebraica della Terra Promessa, il suo nome in ebraico era צִידֹון (Tsydòn); esiste tuttora e oggigiorno appartiene al Libano; il suo nome arabo è ﺼﺎﻴﺪﺍ (Ṣāīdā) e nel 2008 contava circa 60.000 abitanti; si trova a 40 km circa a sud di Beirut. Furono i greci a chiamare i loro abitanti “sidoni” (σιδώνιοι, sidònoi); in seguito, sempre i greci, li chiamarono fenici. La parola greca φοίνικες (fòinikes) è attestata già in Omero come nome di questo popolo.

   I fenici furono agiati mercanti ed esperti marinai (Is 23:2; cfr. Ez 27:8, 9). I sidoni erano anche famosi per la produzione di vetro, profumi e tessuti, e per la tintura dei tessuti. Erano anche rinomati taglialegna (1Re 5:6; 1Cr 22:4; Esd 3:7). Non è però oro tutto quello che luccica, e i sidoni erano dei depravati: si abbandonavano a orge sessuali nel loro culto pagano alla dea Astoret.

   La tribù di Ascer, nella ripartizione della Terra Promessa, doveva scacciare i sidoni e prendere possesso della loro terra, ma si limitò a convivere con loro (Gdc 1:31,32;3:1,3). Ciò finì per trascinare gli israeliti nell’adorazione pagana dei falsi dèi fenici (Gdc 10:6,7,11-13). Lo stesso re Salomone, prendendosi delle mogli sidonie, fu indotto all’idolatria. – 1Re 11:1,4-6; 2Re 23:13.

   I sidoni, condannati da Dio, subirono l’annientamento per mano dei babilonesi e di altri popoli (Is 23:4,12; Ger 25:17,22;27:1-8;47:4; Ez 28:20-24;32:30; Gle 3:4-8; Zc 9:1-4). Dalla storia sappiamo che Sidone cadde in seguito sotto la dominazione della Babilonia, della Persia, della Grecia e di Roma.

   Al tempo di Yeshùa, “Erode [Agrippa I] era fortemente irritato contro” i sidoni, pur approvigionandoli di vettovaglie; da parte loro, i sidoni lo acclamarono gridando: “Voce di un dio e non di un uomo!” (At 12:20-22). A Sidone c’erano nel 1° secolo anche dei discepoli di Yeshùa, che Paolo incontrò. – At 27:3.

   Era fenicia la donna che vinse Yeshùa argomentando sullo stesso terreno in cui il messia si era addentrato. – Si veda alla voce Donna cananea; per un approfondimento si veda il nostro studio Yeshùa e la donna pagana che si accontentava delle briciole, nella sezione Yeshùa.

Sifra (שִׁפְרָה, Shifràh, “bellezza”)

“Sorse sopra l’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe. Egli disse al suo popolo: ‘Ecco, il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più potente di noi. Usiamo prudenza con esso, affinché non si moltiplichi e, in caso di guerra, non si unisca ai nostri nemici per combattere contro di noi e poi andarsene dal paese’. Stabilirono dunque sopra Israele dei sorveglianti ai lavori, per opprimerlo con le loro angherie. Israele costruì al faraone le città che servivano da magazzini, Pitom e Ramses. Ma quanto più lo opprimevano, tanto più il popolo si moltiplicava e si estendeva; e gli Egiziani nutrirono avversione per i figli d’Israele. Così essi obbligarono i figli d’Israele a lavorare duramente. Amareggiarono la loro vita con una rigida schiavitù, adoperandoli nei lavori d’argilla e di mattoni e in ogni sorta di lavori nei campi. Imponevano loro tutti questi lavori con asprezza. Il re d’Egitto parlò anche alle levatrici ebree, delle quali una si chiamava Sifra e l’altra Pua, e disse: ‘Quando assisterete le donne ebree al tempo del parto, quando sono sulla sedia, se è un maschio, fatelo morire; se è una femmina, lasciatela vivere’. Ma le levatrici temettero Dio, non fecero quello che il re d’Egitto aveva ordinato loro e lasciarono vivere anche i maschi. Allora il re d’Egitto chiamò le levatrici e disse loro: ‘Perché avete fatto questo e avete lasciato vivere i maschi?’ Le levatrici risposero al faraone: ‘Le donne ebree non sono come le egiziane; esse sono vigorose e, prima che la levatrice arrivi da loro, hanno partorito’. Dio fece del bene a quelle levatrici. Il popolo si moltiplicò e divenne molto potente. Poiché quelle levatrici avevano temuto Dio, egli fece prosperare le loro case. Allora il faraone diede quest’ordine al suo popolo: ‘Ogni maschio che nasce, gettatelo nel Fiume, ma lasciate vivere tutte le femmine’”. – Es 1:8-22.

   Questo inizio di Es riporta uno spaventoso pregiudizio razziale e un tentato genocidio.

   Sifra e Pua dovettero affrontare una difficile decisione: obbedire a un uomo molto potente e autorevole o temere il Dio di Israele? Sifra e Pua, due levatrici ebree, ebbero difficoltà ad applicare la decisione del faraone: “Le levatrici temettero Dio”. “Non fecero quello che il re d’Egitto aveva ordinato loro e lasciarono vivere anche i maschi”. Queste due donne sfidarono l’autorità, nonostante la possibilità di sanzioni per la loro disobbedienza.

   Spesso alle donne credenti viene fatto capire da ministri religiosi che loro avrebbero un discernimento spirituale inferiore a quello dei loro confratelli maschi; secondo i membri maschi che dirigono le comunità, le donne sarebbero inclini a ingannarsi. Tuttavia, queste due donne ebree mostrarono ottimo discernimento, anche quando ciò comportava la ribellione contro l’autorità. “Dio fece del bene a quelle levatrici”.

   In At 5:27-29 Pietro prese una decisione simile: “Li presentarono al sinedrio; e il sommo sacerdote li interrogò, dicendo: ‘Non vi abbiamo forse espressamente vietato di insegnare nel nome di costui? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina, e volete far ricadere su di noi il sangue di quell’uomo’. Ma Pietro e gli altri apostoli risposero: ‘Bisogna ubbidire a Dio anziché agli uomini’”. – Cfr. Dn 3:1-30;6:10-28.

Signora eletta (ἐκλεκτῆ κυρία, eklektè kürìa, “eletta signora”)

“L’anziano alla signora eletta e ai suoi figli che io amo nella verità”. – 2Gv 1:1.

   Ci sono due ipotesi sull’identificazione di questa “signora eletta”:

  1. Alcuni studiosi pensano si tratti della chiesa o congregazione cui lo scritto è inviato. In tal caso, i “suoi figli” sarebbero figli in senso spirituale e “i figli della tua eletta sorella” (v. 13) sarebbero sempre discepoli di Yeshùa, ma di un’altra congregazione.
  2. Altri studiosi ritengono trattarsi di una persona vera. In tal caso, κυρία (kürìa) sarebbe un nome proprio femminile di persona.

   Riguardo alla prima ipotesi, si è supposto che la chiesa in questione sia quella di Gerusalemme e la chiesa “sorella” sarebbe quella di Efeso, ma si tratta solo di congetture cui mancano le basi. La maggior parte degli esegeti pensa che la “signora eletta” sia una chiesa. Così si spiegherebbe meglio il fatto che l’autore usi sia la seconda persona singolare (“I tuoi figli”, v. 4; “Ti prego, signora”, v. 5; “I figli della tua eletta sorella”, v. 13) che la seconda plurale (“Questo è il comandamento in cui dovete camminare”, v. 6; “Badate a voi stessi affinché”, v. 8; “Se qualcuno viene a voi”, v. 10; “Avrei molte altre cose da scrivervi”, v. 12).

   Riguardo alla seconda ipotesi, questa è la più antica e si basa sul testo siriaco della Pescitta (la versione siriana classica, creata circa tra il 150-250 della nostra èra, di cui esistono più di 350 copie, la più antica databile al 5° secolo). Questa versione utilizza il nome “signora” come nome proprio. Si tratterebbe di una signora aristocratica, giacché l’aggettivo ἐκλεκτῆ (eklektè) può significare anche “insigne/preminente”.

   Riguardo alla parola κυρία (kürìa), questa non ci aiuta molto perché compare in tutte le Scritture Greche solo due volte e qui, ai vv. 1 e 5. Si tratta di una parola sostantivata, proveniente dall’aggettivo greco di prima classe κύριος, α, ον (kǘrios, a, on) con significato di “che ha potere/forza”. Il suo maschile sostantivato – κύριος (kǘrios), “signore” – la Scrittura lo applica sia a Dio che a Yeshùa (Mt 22:44), sia a persone comuni. – Mr 13:35.

   Riguardo alla parola ἐκλεκτῆ (eklektè), si tratta di un aggettivo che significa “scelta”, “prescelta”, “eletta”, “eccellente”, “insigne/preminente”. Questo aggettivo lo troviamo nella Bibbia più di dieci volte. In Mt 22:14 è impiegato per dire che “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”; ma non occorre pensare a persone “elette” solo dopo il giudizio finale, giacché gli “eletti” sono già presenti ora: “Se quei giorni non fossero stati abbreviati, nessuno scamperebbe; ma, a motivo degli eletti, quei giorni saranno abbreviati” (Mt 24:22). “Dio non renderà dunque giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano a lui?” (Lc 18:7). In Rm 16:13 Paolo chiama Rufo “l’eletto nel Signore”. In Col 3:12 Paolo chiama “eletti” i componenti di quella congregazione. Pietro si rivolge ai suoi confratelli in fede chiamandoli “eletti” (1Pt 1:1). Conformemente al significato che questo aggettivo assume nella Scrittura – ovvero quello di designare le persone che Dio ha scelto per far parte della “stirpe eletta [ἐκλεκτόν (eklektòn)]”, del “sacerdozio regale”, della “gente santa, del “popolo che Dio si è acquistato” – possiamo dire che la “signora” di 2Gv 1:1 fa parte di questa categoria. Lei è una “eletta”.

   Ora, considerato che la Terza lettera di Giovanni è indirizzata “al carissimo Gaio” (3Gv 1), ovvero a una persona vera, non deve stupire che la Seconda lettera possa pure essere indirizzata ad una persona reale. Inoltre, la 3Gv è evidentemente scritta ad una persona che non ha responsabilità nella congregazione locale; si noti che al v. 9 l’autore informa questo Gaio dicendogli: “Ho scritto qualcosa alla chiesa”, fatto che dimostra che lui non era il portavoce di quella chiesa. Ciò spiega il chiamarlo solo “carissimo” o, per essere più precisi, “l’amato” (τῷ ἀγαπητῷ, to agapetò). Altro, però, il tenore della 2Gv. Il fatto stesso che diversi critici possano supporre che la “signora” sia una chiesa dimostra che questa lettera (un biglietto, per la verità) era indirizzata ad una congregazione. Tuttavia, l’autore la indirizza alla “signora” quale portavoce della congregazione. D’altra parte, perché mai l’autore avrebbe dovuto usare un nome criptato per designare una congregazione? In 1Pt 5:13 non si fa riferimento ad una chiesa, come erroneamente traduce NR: “La chiesa che è in Babilonia, eletta come voi, vi saluta”; la Bibbia dice ἡ ἐν Βαβυλῶνι συνεκλεκτὴ (e en Babülòni süneklektè), “colei che [è] in Babilonia, con-eletta”; che si tratti di una donna vera è indicato nello stesso versetto: “Colei che è a Babilonia, eletta come voi, vi manda i suoi saluti, e anche Marco”. – TNM.

   Il fatto che la “signora” sia una donna vera e sia la portavoce della congregazione spiega bene l’uso della seconda persona a volte al singolare e a volte al plurale: si rivolge a volte a lei personalmente, a volte alla collettività. Si chiamava Kürìa (κυρία) questa donna? Sarebbe un caso strano, perché sarebbe l’unico caso della storia in cui si troverebbe questo nome. Pare piuttosto un titolo di riguardo.

   Questa donna era probabilmente una diaconessa e ospitava in casa sua una congregazione.

Simeat (שִׁמְעָת, Shimeàt, “relazione”)

“Iozacar, figlio di Simeat, e Iozabad, figlio di Somer, suoi servitori, lo colpirono, ed egli morì e fu sepolto con i suoi padri nella città di Davide; e Amasia, suo figlio, regnò al suo posto”. – 2Re 12:21; nel Testo Masoretico è al v. 22.

   Questa donna era un’ammonita e suo figlio fu  uno degli assassini di Ioas re di Giuda. – 2Re 12:20,21; 2Cron 24:25,26.

Simrit (שִׁמְרִית, Shimrìt, “protettrice”)

“Quelli che congiurarono contro di lui, furono Zabad, figlio di Simeat, un Ammonita, e Iozabad, figlio di Simrit, una Moabita”. – 2Cron 24:26.

   Questa donna moabita fu la madre di Iozabad, uno degli assassini di Ioas re di Giuda. In 2Re 12:21 (nel Testo Masoretico è al v. 22) si legge: “Iozabad, figlio di Somer”. In ebraico Somer (שֹׁמֵר, Shomèr) è un nome maschile, per cui alcuni ritengono che Somer fosse il padre e Simrit la madre di Iozabad. Data però la valenza ampia che il termine “padre” ha in ebraico, potrebbe essere che Somer fosse il padre di Simrit. In tal caso Iozabad sarebbe stato il nipote di Somer (il termine “figlio” può significare anche discendente). Il nome שִׁמְרִית (Shimrìt) è la forma femminile di שִׁמְרִי (Shimìr)

Sintiche (Συντύχη, Süntǜche, “con fato”)

“Esorto Evodia ed esorto Sintìche a essere concordi nel Signore. Sì, prego pure te, mio fedele collaboratore, vieni in aiuto a queste donne, che hanno lottato per il vangelo insieme a me, a Clemente e agli altri miei collaboratori i cui nomi sono nel libro della vita”. – Flp 4:2,3.  

   Evodia e Sintiche sono in disaccordo su qualcosa. Queste due donne avevano collaborato con Paolo. La frase paolina “insieme a me . . . e agli altri miei collaboratori” le inserisce nel gruppo di “collaboratori”. Il testo greco è più preciso, dicendo letteralmente: “Le quali nella buona notizia faticarono con me, con anche Clemente e i rimanenti collaboratori [συνεργῶν (sünergòn)] di me”. Il termine συνεργός (sünergòs), “compagno/collega”, Paolo lo usa per i suoi colleghi ministri.

  È interessante notare che Paolo non rimprovera le due donne per il loro dissenso, ma le esorta solo ad essere concordi; neppure le tratta come due donnette stupide che battibeccano su un argomento sciocco, come alcuni commentatori tentano di sostenere. Egli poi non risolvere la controversia, ma esorta le due donne a raggiungere un accordo. Spesso, nelle controversie, si cerca qualcuno o ci si aspetta che qualcuno che ha responsabilità nella congregazione risolva la faccenda. Paolo non adotta questo approccio, ma semplicemente si affida a loro per la soluzione, chiedendo a un compagno fedele (se anziano o sorvegliante oppure diacono non è detto) di assisterle.

Sirofenicia (συροφοινίκισσα, sürofoinìkissa, “sirofenicia”)

“Quella donna era pagana, sirofenicia di nascita”. – Mr 7:26.

   Si tratta della donna che in Mt 15:21,22 è detta “donna cananea”, quando Yeshùa “si ritirò nel territorio di Tiro e di Sidone” (si veda la voce Donna cananea). Dato che la Fenicia faceva parte della provincia romana della Siria, la donna è detta sirofenicia da Marco. Inoltre, gli antichi abitanti della Fenicia erano discendenti di Canaan, cioè cananei; con “Canaan” si intese in seguito soprattutto la Fenicia. La traduzione “pagana” fatta da NR in Mr 7:26 è libera, in quanto il testo originale ha ἑλληνίς (ellenìs), “greca”. Con questo non occorre supporre che la donna fosse di origine greca. Nella Scrittura “greco” sta anche per “pagano”. Dopo la morte di Yeshùa, quando la salvezza fu offerta a tutte le persone del mondo, Paolo dirà: “Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco” (Rm 10:12), ovvero tra ebrei e pagani.

   Per una trattazione più completa si veda il nostro studio Yeshùa e la donna pagana che si accontentava delle briciole, nella sezione Yeshùa.

Sorella – definizione (ebraico: אַחַת, akhòt; greco: ἀδελφή, adelfè; “sorella”)

Il termine, sia ebraico che greco, si riferisce sia ad una sorella germana che a una sorellastra. Per la paura di essere ucciso da qualcuno che avrebbe potuto prendergli la bella moglie Sara, “Abraamo diceva di sua moglie Sara: ‘È mia sorella’” (Gn 20:2); tuttavia, una menzogna non la disse, come poi spiegò: “È veramente mia sorella, figlia di mio padre, ma non figlia di mia madre, ed è diventata mia moglie” (v. 12). Alcuni secoli dopo, l’Insegnamento (Toràh) di Dio avrebbe considerato incestuosa una simile situazione. – Lv 18:9,11;20:17.

   I fratelli e le sorelle di Yeshùa erano fratelli veri e non fratellastri. Avendo in comune la madre, loro erano figli di Giuseppe, ma Yeshùa lo era di Dio; non avevano padri umani diversi così da poter essere definiti fratellastri. – Mt 13:55,56; Mr 6:3.

   Il termine “sorella” è usato nella Bibbia anche con significato più ampio. Parlando di “Cozbi, figlia di un principe di Madian”, il testo biblico di Nm 25:18 la definisce “loro sorella”, ovvero “sorella” dei madianiti di cui si parla al v. 17; ovvio che qui il termine “sorella” significa connazionale. Così è anche presso di noi oggi, chiamando ad esempio “fratelli” i connazionali italiani, come nell’Inno di Mameli che si rivolge ai “fratelli d’Italia”. Anche le nazioni o le città con cui si aveva una stretta relazione o i cui cittadini avevano somiglianze di vita sul piano morale e dei costumi erano chiamate “sorelle”: “Tua sorella maggiore, che ti sta a sinistra, è Samaria . . . tua sorella minore, che ti sta a destra, è Sodoma”, viene detto in Ez 16:48 a Gerusalemme. – Ger 3:7-10; Ez 16:46,49,55;23:32,33.

   Perfino gli oggetti corrispondenti tra loro vengono definiti fratelli o sorelle: “Cinque teli [femminile in ebraico: יְרִיעֹת, yeryòt] saranno uniti insieme [אֲחֹתָהּ (akhotàh), “a sua sorella”] e gli altri cinque teli saranno pure uniti insieme”. – Es 26:3; cfr. 26:5,6,17; Ez 1:9,23;3:13.

   Un altro uso figurativo di questa parola lo troviamo in Pr 7:4: “Di’ alla sapienza: ‘Tu sei mia sorella’”.

   Le discepole di Yeshùa sono chiamate “sorelle” dagli altri discepoli. Paolo scrive ai romani: “Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è diaconessa della chiesa di Cencrea” (Rm 16:1; si veda anche 1Cor 7:15;9:5; Gc 2:15). Paolo esorta a trattare “le giovani, come sorelle” (1Tm 5:2). Ciò è conforme alla dichiarazione di Yeshùa: “Chiunque avrà fatto la volontà del Padre mio, che è nei cieli, mi è fratello e sorella”. – Mt 12:50.

Sorella della regina Tacpenes (אֲחֹות, akhòt, “sorella”)

“Adad trovò grazia agli occhi del faraone, che gli diede in moglie la sorella della propria moglie, la sorella della regina Tacpenes. La sorella di Tacpenes gli partorì un figlio, Ghenubat, che Tacpenes divezzò nella casa del faraone; e Ghenubat rimase in casa del faraone tra i figli del faraone. Quando Adad ebbe sentito in Egitto che Davide si era addormentato con i suoi padri e che Ioab, capo dell’esercito, era morto, disse al faraone: ‘Permettimi di andare al mio paese’”. – 1Re 11:19-21.

   “Il Signore suscitò un nemico a Salomone: Adad, l’Idumeo, che era della stirpe reale di Edom” (1Re 11:14). Adad era un idumeo, ovvero edomita: la Bibbia dice qui אֲדֹמִי (edomì); “Adad l’edomita” (TNM). Davide aveva decimato la popolazione di Edom e Adad (che era di stirpe regale), ancora bambino, era fuggito in Egitto con alcuni servitori di suo padre. Lì lui e i suoi furono accolti con grande favore dal faraone. Saputo che il re Davide era morto, ritornò a Edom e si oppose al nuovo re, Salomone, figlio di Davide. – 1Re 11:14-22,25.

Sorella della signora eletta (τῆς ἀδελφῆς σου, tes adelfès su, “la sorella di te”)

“I figli della tua eletta sorella ti salutano”. – 2Gv 13.

   Si fa qui riferimento alla sorella della “signora eletta” del v. 1. Si veda la voce Signora eletta.

Sorella di Maria madre di Gesù (= Miryàm madre di Yeshùa e zia di Yeshùa) (ἀδελφὴ, adelfè, “sorella”)

“Presso la croce di Gesù stavano sua madre e la sorella di sua madre, Maria di Cleopa, e Maria Maddalena”. – Gv 19:25.

   Possiamo identificare questa donna, detta sorella della madre di Yeshùa, ovvero zia di Yeshùa? Incrociando il dato di Gv con Mr 15:40 abbiamo la sua identità: “Tra di loro vi erano anche Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo il minore e di Iose, e Salome”. Incrociando questi due dati con Mt 27:56 otteniamo su di lei altre informazioni: “Tra di loro erano Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo”. Da questi dati incrociati risulterebbe che la sorella di Miryàm madre di Yeshùa si chiamava Salome ed era la madre dei figli di Zebedeo, ovvero di Giacomo e di Giovanni (Mt 4:21). Da tutto ciò risulta che i due erano cugini di Yeshùa. Questa parentela spiega bene l’amore di Yeshùa per Giovanni, “il discepolo che egli amava”. – Gv 19:26.

   Data questa parentela, si comprende anche la richiesta dei due fratelli al loro cugino Yeshùa: “Concedici di sedere uno alla tua destra e l’altro alla tua sinistra nella tua gloria” (Mr 10:37). E si comprende anche l’intervento della zia di Yeshùa presso il nipote a favore dei suoi due figli e cugini di Yeshùa: “La madre dei figli di Zebedeo si avvicinò a Gesù con i suoi figli, prostrandosi per fargli una richiesta” (Mt 20:20). Si comprende pure la risposta confidenziale di Yeshùa alla zia: “Che vuoi?” (v. 21). E infine si comprende l’affidamento, da parte di Yeshùa, di sua madre a Giovanni: era suo cugino, e lei sua zia. – Gv 19:26,27.

Sorella di Mosè (אֲחֹתֹו, akhotò, “sorella di lui”)

Da Es 1:22 sappiamo che “il faraone diede quest’ordine al suo popolo: ‘Ogni maschio che nasce, gettatelo nel Fiume, ma lasciate vivere tutte le femmine’”. Qui i re egizio vuole impedire che gli ebrei crescano di numero (Es 1:12-21). In questo clima infanticida “un uomo della casa di Levi andò e prese in moglie una figlia di Levi. Questa donna concepì, partorì un figlio e, vedendo quanto era bello, lo tenne nascosto tre mesi”. – Es 2:1,2.

   “Quando non poté più tenerlo nascosto, prese un canestro fatto di giunchi, lo spalmò di bitume e di pece, vi pose dentro il bambino, e lo mise nel canneto sulla riva del Fiume. La sorella del bambino se ne stava a una certa distanza, per vedere quello che gli sarebbe successo. La figlia del faraone scese al Fiume per fare il bagno, e le sue ancelle passeggiavano lungo la riva del Fiume. Vide il canestro nel canneto e mandò la sua cameriera a prenderlo. Lo aprì e vide il bambino: ed ecco, il piccino piangeva; ne ebbe compassione e disse: ‘Questo è uno dei figli degli Ebrei’. Allora la sorella del bambino disse alla figlia del faraone: ‘Devo andare a chiamarti una balia tra le donne ebree che allatti questo bambino?’ La figlia del faraone le rispose: ‘Va’’. E la fanciulla andò a chiamare la madre del bambino”. – Es 2:3-8.

   Compare ora nella vicenda “la sorella del bambino”. Non sappiamo l’età di questa che sembra essere una ragazzina. Il termine “sorella” non ci aiuta: ovviamente era più grande del fratellino e più giovane della madre, ma la sua età non la ricaviamo dalla definizione di “sorella”. Un po’ ci aiuta il vocabolo che per lei usa l’agiografo. La chiama הָעַלְמָה (haalmàh): lei era dunque una almàh (עַלְמָה). Più che di una “fanciulla” si tratta di una giovane. Questo vocabolo ebraico non viene mai usato nella Bibbia per indicare una donna sposata; esso designa una ragazza adolescente giunta all’età delle nozze. Non si deve però pensare a una ventenne. Nella società di allora una ragazza era pronta per le nozze già a 12-13 anni. Nella versione greca della LXX l’espressione הָעַלְמָה (haalmàh), “la giovane”, è resa ἡ νεᾶνις (e neànis), parola che indica una “vergine”. Girolamo, nella sua Vulgata latina usò il vocabolo puella, “fanciulla”. Ci troviamo quindi di fronte ad una ragazzina di forse 11-12 anni. Il suo atteggiamento conferma la mente sveglia e pronta che le ragazze (a differenza dei loro coetanei ancora alquanto tontoloni) hanno già a quell’età, con una buona dose di disinvoltura. Prima rimane ferma a guardare cosa accade al fratellino, poi coglie prontamente l’occasione per intervenire e coraggiosamente affronta la principessa egizia, offrendo una soluzione.

   Qualche anticonformista ha proposto che questa ragazzina, indubbiamente sorella maggiore di Mosè, non sia la Maria o Miryàm menzionata in seguito e pure sorella di Mosè. Gli anticonformismi ci intrigano sempre. È grazie a questi che spesso si può andare più a fondo nelle cose e fare scoperte interessanti. L’anticonformismo scavalca i preconcetti e negli studi biblici i preconcetti sono davvero di grande ostacolo. Tuttavia, qui dobbiamo dire che l’ipotesi che questa ragazzina non sia Miryàm è infondata. Anche se non è menzionata per nome, questa giovane ragazza era senza dubbio la sorella di Mosè poi menzionata con nome di Miryàm. Della madre di lei Nm 26:59 dice: “Il nome della moglie di Amram era Iochebed, figlia di Levi che nacque a Levi in Egitto; ed essa partorì ad Amram Aaronne, Mosè e Maria loro sorella”. La Bibbia menziona solo tre figli, tra cui una sola femmina. Un’ulteriore conferma ci è data da 1Cron 6:3: “I figli di Amram furono: Aaronne, Mosè e Maria”.

   Per ciò che riguarda quindi la sorella di Mosè si veda in elenco la voce Maria, sorella d’Aaronne.

Sorella di Naam: vedere Moglie di Odiia

Sorella di Nereo (τὴν ἀδελφὴν αὐτοῦ, ten adelfèn autù, “la sorella di lui”)

“Salutate Filologo e Giulia, Nereo e sua sorella, Olimpa e tutti i santi che sono con loro”. – Rm 16:15.

   Nei suoi saluti ai credenti della congregazione romana, Paolo non dimentica Nereo, ma neppure la di lui sorella.

Sorellastra – definizione (ebraico: אַחַת, akhòt; greco: ἀδελφή, adelfè; “sorella”)

Il termine “sorella”, sia ebraico (אַחַת, akhòt) che greco (ἀδελφή, adelfè), si riferisce sia ad una sorella germana che a una sorellastra (si veda alla voce Sorella – definizione).

   C’era, comunque, nella Bibbia un modo per distinguere i fratelli germani dai fratellastri: questi ultimi erano chiamarli “figli di mia madre”, come in Gn 43:29: “Giuseppe alzò gli occhi, vide Beniamino suo fratello, figlio di sua madre”. – Cfr. Gdc 8:19.

Sorelle di Gesù (= Yeshùa) (ἀδελφαὶ, adelfài, “sorelle”)

“Sua madre [di Yeshùa] non si chiama Maria e i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte tra di noi?”. – Mt 13:55,56.

   Yeshùa aveva delle sorelle. Sorelle vere, non sorellastre. Si veda al riguardo il nostro studio I fratelli e le sorelle di Yeshùa nella sezione Yeshùa. La Bibbia non ci dice il loro nome, di loro sappiamo pochissimo, ma possiamo annoverarle nella frase: “Neppure i suoi fratelli credevano in lui”. – Gv 7:5.

Sposa – definizione (ebraico: כַּלָּה, kalàh; greco: νύμφη, nǜnfe; “sposa”)

In ebraico e in greco una parola distinta per “moglie” non c’è: si utilizza la parola “donna”, che in ebraico è אִשָּׁה (ishàh) e in greco è γυνή (günè). Tuttavia, esiste una parola per “sposa”: in ebraico è כַּלָּה (kalàh), in greco è νύμφη (nǜnfe).

   “Quanto sono dolci le tue carezze . . . o sposa mia! Come le tue carezze sono migliori del vino, come l’odore dei tuoi profumi è più soave di tutti gli aromi! Sposa mia, le tue labbra stillano miele, miele e latte sono sotto la tua lingua; l’odore delle tue vesti è come l’odore del Libano . . . o sposa mia, tu sei un giardino serrato, una sorgente chiusa, una fonte sigillata”. – Cant 4:10-12.

   Il libro biblico Cantico dei cantici è un inno alle nozze. Rimandiamo al sottotitolo Usi nuziali ebraici del nostro studio Il Cantico – L’interpretazione naturalistica, nella categoria Scritture Ebraiche della sezione Esegesi biblica.

   Per la sposa in Israele era prevista una dote, chiamata מֹהַר (mohàr). Non si pensi però ad una dote nel senso che noi diamo a questa parola. Si trattava di un vero e proprio prezzo della sposa (Gn 34:12; Es 22:16,17; 1Sam 18:25) che veniva pagato ai genitori o ai parenti di lei (Gn 24:53). Questo “prezzo” era una specie d’indennizzo per la sottrazione della figlia. Tale mohàr poteva anche essere corrisposto come lavoro prestato (Gn 29:15-30; Gs 15:16). In caso di matrimonio riparatore il מֹהַר (mohàr) doveva essere pagato al padre di lei, e se il padre rifiutava era ugualmente dovuto (Es 22:16,17). Ovviamente, la sposa riceveva regali dal padre o da altri. – 1Re 9:16; Gs 15:17-19; Gn 24:53.

   Sposarsi in Israele era una questione che riguardava tutta la tribù, oltre che la famiglia: era d’uso generale che l’ebreo cercasse moglie nel giro dei propri parenti o della propria tribù. Sposarsi con chi non riconosceva il Dio d’Israele era altamente biasimato (Gn 26:34,35) e la Legge vietava matrimoni con persone cananee (Dt 7:1-4). Il consenso della donna era richiesto (Gn 24:8) e ovviamente i due sposi avevano voce in capitolo. – Gn 29:20; 1Sam 18:20,27,28.

   La proposta di matrimonio in genere veniva fatta dai genitori del ragazzo, pur non essendo esclusi casi in cui era il padre della ragazza a farlo, specialmente se la ragazza era di gruppo sociale diverso. – Gs 15:16,17; 1Sam 18:20-27.

   La sposa era molto impegnata nel giorno delle nozze. Faceva un bagno e si profumava (vedi Rut 3:3; Ez 23:40). Indossava “vesti ricamate” (Sl 45:13,14), una cintura (Ger 2:32) e un velo (Is 3:19,23). Avendone la disponibilità, si adornava di abbellimenti e gioie. – Is 49:18;61:10; Ap 21:2.

   Durante la cerimonia nuziale la sposa era accompagnata dalla casa del padre a quella del marito: questo era l’atto con cui si ufficializzava il matrimonio (Mt 1:24). Il matrimonio era solo civile e non era richiesta una convalida sacerdotale. Lo sposo conduceva la sposa nella sua casa (o tenda), tutti vedevano e ciò bastava (Gn 24:67). Il matrimonio era comunque registrato in documenti ufficiali della comunità. – Mt 1:1-16; Lc 3:23-38, cfr. 2:1-5.

   Nel condurre la sposa dalla casa paterna a quella del marito si formava un corteo (Ger 7:34;16:9; Is 62:5; Mt 25:1). Dalla parabola di Yeshùa delle dieci vergini veniamo a conoscere diverse usanze relative allo sposalizio.

“Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini le quali, prese le loro lampade, uscirono a incontrare lo sposo. Cinque di loro erano stolte e cinque avvedute; le stolte, nel prendere le loro lampade, non avevano preso con sé dell’olio; mentre le avvedute, insieme con le loro lampade, avevano preso dell’olio nei vasi. Siccome lo sposo tardava, tutte divennero assonnate e si addormentarono. Verso mezzanotte si levò un grido: ‘Ecco lo sposo, uscitegli incontro!’ Allora tutte quelle vergini si svegliarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle avvedute: ‘Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono’. Ma le avvedute risposero: ‘No, perché non basterebbe per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene!’ Ma, mentre quelle andavano a comprarne, arrivò lo sposo; e quelle che erano pronte entrarono con lui nella sala delle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi vennero anche le altre vergini, dicendo: ‘Signore, Signore, aprici!’ Ma egli rispose: ‘Io vi dico in verità: Non vi conosco’. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”. – Mt 25:1-13.

   Da qui apprendiamo che diverse ragazze componevano un corteo per acclamare gli sposi. Allora come oggi, le cose da fare erano tante e potevano esserci imprevisti; allora come oggi, ai matrimoni si poteva far ritardo. Forse anche allora le spose ritardavano e lo sposo doveva attendere prima di lasciare la casa della sposa per condurla alla sua. Così, attendendo a lungo, ci si poteva lasciar prendere dal sonno e addirittura addormentarsi. L’esultanza del corteo si udiva a distanza e vi si faceva eco gridando: “Ecco lo sposo!” Poi gli invitati entravano in casa per il banchetto nuziale (Gn 29:22) e la porta veniva chiusa, cosicché gli ritardatari non potevano più entrare.

   Un momento particolarmente trepidante per la sposa era quando, dopo la festa, il marito portava la sposa nella “camera nuziale” (Sl 19:5; Gle 2:16). La notte delle nozze si usava un panno per conservare le macchie di sangue causate dalla deflorazione quale prova della verginità della sposa. Questo indumento aveva valore legale, nel caso il marito poi accusasse la moglie di non essere stata vergine (Dt 22:13-21). Questa consuetudine di conservare il panno macchiato è ancora in uso in alcuni paesi del Medio Oriente. Nel meridione d’Italia, addirittura veniva esposto ad una finestra.

   Il termine “sposa” assume nella Bibbia anche un significato metaforico. Israele era considerata la sposa di Dio (Is 54:1, 5,6;62:4). Nelle Scritture Greche, secondo la stessa metafora, spesso si paragona la congregazione dei discepoli di Yeshùa alla sua sposa. – Gv 3:28, 29; Ef 5:25-27; Riv 21.

Stefana (Στεφανᾶς, Stefanàs, “incoronata”)

“Ora, fratelli, voi conoscete la famiglia di Stefana, sapete che è la primizia dell’Acaia, e che si è dedicata al servizio dei fratelli”. – 1Cor 16:15.

   I lettori della Bibbia che leggono la Scrittura affidandosi solo ai commentatori e non facendosi mai domande, potrebbero essere sorpresi di trovare Stefàna in questo elenco di sole donne. Si noti, ad esempio, la definizione di Stefana in un dizionario biblico che – ironia della sorte – ha per titolo nientemeno che Perspicacia nello studio della Scrittura: “Fratello maturo della congregazione di Corinto” (Vol. 2, pag. 1047). Per quest’opera religiosa Stefana sarebbe un uomo. È proprio il caso di rivolgerci alla Bibbia.

   In nome che compare nel testo biblico originale è Στεφανᾶς (Stefanàs). Questo nome è ben diverso da Στέφανος (Stèfanos), Stefano, uno dei sette diaconi di Gerusalemme e primo martire (At 6:8–8:2). Stefana è la variante femminile del nome maschile Stefano; in italiano è Stefania, in greco Stefanàs.

   Ci sarebbe da domandarsi perché certi commentatori e traduttori non informano i lettori che questa persona era di sesso femminile. Nella Bibbia, altre donne sono individuate facendo riferimento alle loro famiglie (vedere, ad esempio, Febe). La risposta la troviamo nel versetto successivo, il 16: “Vi esorto a sottomettervi anche voi a tali persone, e a chiunque lavora e fatica nell’opera comune”.

   Chiaramente, Stefàna era una capofila della congregazione locale. Paolo esorta a sottomettersi “a tali persone”, ovvero alla “famiglia di Stefana”. Se si crede, come dice Paolo, che in Yeshùa “non c’è né maschio né femmina” (Gal 3:28), allora Stefàna è una donna interessante e non sconvolge la visione biblica della comunità dei discepoli di Yeshùa. Tuttavia, se si crede che le donne s’ingannino più facilmente nei giudizi e siano incapaci di assumere la direttiva, Stefàna pone una sfida alla convinzione maschilista di molte religioni.

   Alcune versioni si riferiscono ai membri della famiglia di Stefàna come a uomini. Lo si noti: “Voi sapete che la casa di Stefana è la primizia dell’Acaia e che essi si sono dedicati al servizio dei santi”. Tuttavia, ciò non trova riscontro nel testo greco, che invece dice solo che la famiglia si Stefàna “è primizia dell’Acaia”, ἐστὶν ἀπαρχὴ τῆς Ἀχαίας (estìn aparchè tes Achàias).

Strega (מְכַשֵּׁפָה, mechashfàh, “stregante”)

“Non lascerai vivere la strega”. – Es 22:18; nel Testo Masoretico è al v. 17.

   L’Insegnamento (Toràh) di Dio era chiaro: “Non si trovi in mezzo a te chi fa passare suo figlio o sua figlia per il fuoco, né chi esercita la divinazione, né astrologo, né chi predice il futuro, né mago, né incantatore, né chi consulta gli spiriti, né chi dice la fortuna, né negromante, perché il Signore detesta chiunque fa queste cose; a motivo di queste pratiche abominevoli, il Signore, il tuo Dio, sta per scacciare quelle nazioni dinanzi a te. Tu sarai integro verso il Signore Dio tuo; poiché quelle nazioni, che tu spodesterai, danno ascolto agli astrologi e agli indovini. A te, invece, il Signore, il tuo Dio, non lo permette”. – Dt 18:10-14.

   Come si nota dalla severa proibizione e dalla pena capitale per la sua trasgressione, ogni forma di divinazione e magia (Lv 19:26) sono molto pericolose. Tutte queste pratiche non vengono da Dio, ma sono legate allo spiritismo ovvero sono sataniche.

   Le pratiche spiritiche, chiamate eufemisticamente “scienze occulte” o perfino “parapsicologia”, furono accolte dagli antichi caldei della Babilonia. Al tempo del profeta Isaia la Babilonia brulicava di stregonerie di tutti i tipi (Is 47:12-15). I babilonesi rifuggivano dalle persone deformi, convinti che esercitassero la magia.

   Occorre stare molto attenti ed evitare queste pratiche diaboliche. Per proteggersi c’è la fiducia in Dio e la preghiera. – Ef 6:11-18; Mt 6:13.

Sua figlia di Eber (שׁוּעָא, Shuà, “salvezza”)

“Eber generò Iaflet, Somer, Otam e Sua, loro sorella”. – 1Cron 7:32.

Sua moglie di Giuda (שׁוּעַ, Shuà, nome abbreviato di בַת־שׁוּעַ, Bat-shùa, “figlia di salvezza”)

Si veda Bat-Sua moglie di Giuda.

Succot-Benot (סֻכֹּות בְּנֹות, sucòt benòt, “capanne [delle] figlie”)

“Quelli provenienti da Babilonia fecero Succot-Benot”. – 2Re 17:30.

   Qui si parla di idoli, di dèi pagani: “Ogni popolazione si fece i propri dèi nelle città dove abitava, e li mise nei templi degli alti luoghi che i Samaritani avevano costruiti” (2Re 17:29). Ogni popolazione faceva i suoi, i babilonesi “fecero Succot-Benot”.

   Questa era una divinità adorata dai babilonesi che il re d’Assiria trasferì nelle città della Samaria dopo aver portato in esilio gli israeliti del Regno del Nord. Secondo certi studiosi il nome “Succot-Benot” sarebbe una forma ebraizzata di Sarpanitu, la moglie del dio Marduk. Il nome pare derivare dalle tende o capanne delle “figlie”, nome generico con cui erano anche indicate le donne giovani e le prostitute.

Sulamita (שּׁוּלַמִּית, shulamìt, “?”)

La “sulamita” (anche “sulammita”) è la ragazza campagnola protagonista del Cantico dei cantici, il libro biblico annoverato tra le più belle pagine della poesia mondiale di tutti i tempi.

   Il significato del termine “sulamita” è sconosciuto. La parola “sulamita” appare in tutta la Bibbia solo due volte e nello stesso versetto, ovvero in Cant 7:1 (6:13 in TNM):

 

“Torna, torna, o Sulamita,

torna, torna, che ti ammiriamo.

Perché ammirate la Sulamita come una danza a due schiere?”

 

   Alcuni commentatori biblici hanno suggerito che possa trattarsi di un’abitante di un paese (tuttora sconosciuto) chiamato Sulam, ma tale ipotesi sposta solo il problema dalla identificazione della ragazza a quella di un luogo. Altri ipotizzano che si tratti di una forma alternativa di “sunamita”, ovvero di una originaria di Sunem, la città di cui parla Gs 19:17,18. Tuttavia, il termine “sunamita” nella Bibbia esiste, riferito ad “Abisag, la Sunamita [שּׁוּנַמִּית (shunamìt)]” (1Re 1:3); perché allora la Bibbia non lo usa anche in Cant?

   A sostegno dell’ipotesi sulamita=sunamita viene citata la LXX greca, ma va detto che il termine σουμανειτις (sumaneitis) compare solo nel manoscritto Vaticano 1209, ed è pure diverso da quello di 1Re 1:3 che ha σωμανῖτις (somanìtis); altrimenti, la LXX ha σουλαμῖτις (sulamìtis), conformemente all’ebraico. Eusebio, lo scrittore ecclesiastico, menziona Sunem come Sulem, ma scrive nel 4° secolo nella nostra èra. – Onomasticon 158, 11.

   In merito a questa ragazza sulamita sono state date diverse interpretazioni. Rimandiamo ai nostri quattro studi, tutti nella sezione Esegesi biclica, categoria Scritture Ebraiche:  Il Cantico dei cantici, Il Cantico – Le interpretazioni tradizionali, Il Cantico – L’interpretazione naturalistica, Il Cantico – Il suo significato spirituale.

Sunamita (אִשָּׁה, ishàh, “donna”)

“Un giorno Eliseo passava per Sunem; là c’era una donna ricca che lo trattenne con premura perché mangiasse da lei; così tutte le volte che passava di là, andava a mangiare da lei”. – 2Re 4:8.

   La parola tradotta da NR “ricca” è nell’ebraicoגְדֹולָה  (gdolàh), che significa “grande”. La parola ha diversi significati, tra cui “stimata/stimabile”, “di alto rango”; TNM la traduce “preminente”.

   Sunem fu terra straniera per gli israeliti. Qui erano accampati i filistei prima della battaglia in cui morì il re Saul (1Sam 28:4). Questa donna rispettò i doveri d’ospitalità e l’offrì a un estraneo, uno di un popolo diverso. Era una donna ricca, influente nella sua zona. Dalle sue azioni sappiamo che fu molto ospitale e che non si aspettava un danno di ritorno.

   “La donna disse a suo marito: ‘Ecco, io so che quest’uomo che passa sempre da noi, è un santo uomo di Dio. Ti prego, costruiamogli, di sopra, una piccola camera in muratura e mettiamoci per lui un letto, un tavolino, una sedia e un candeliere, affinché, quando verrà da noi, egli possa ritirarvisi’”. – 2Re 4:9,10.

   Questa donna estende ulteriormente la sua ospitalità. A differenza di suo marito, aveva capito che Eliseo era “un santo uomo di Dio”. Volle quindi offrirgli un luogo che potesse un punto d’appoggio durante i suoi viaggi frequenti nella zona. A questo scopo chiede un’aggiunta di costruzione sulla sua casa. A quei tempi le case erano spesso degli spazi aperti in cui intere famiglie condividevano una stanza. Questa donna, tuttavia, specifica che la stanza per Eliseo dev’essere privata e completamente arredata.

   “Così, un giorno che egli giunse a Sunem, si ritirò in quella camera, e vi dormì. E disse a Gheazi, suo servo: ‘Chiama questa Sunamita’. Egli la chiamò, e lei si presentò davanti a lui. Eliseo disse a Gheazi: ‘Dille così: Tu hai avuto per noi tutta questa premura; che si può fare per te? Hai bisogno che si parli per te al re o al capo dell’esercito?’”. – 2 Re 4:11-13.

   A volte è imbarazzante ricevere ospitalità. Essere nella posizione di dover ringraziare qualcuno può mettere in impaccio. Eliseo si trova in questa posizione. Questa donna gli aveva messo a disposizione una bella stanza da utilizzare in qualsiasi momento, e lui non aveva ancora dato nulla in cambio per il favore ricevuto. Nella sua stanza, nella casa di lei, decide di mandare il suo servo Gehazi dalla donna, che era in quella stessa casa. In più, egli non si riferisce alla sua padrona di casa per nome, ma si riferisce a lei come a una donna sunamita, sottolineando così la sua condizione di straniera per lui e ignorando la posizione preminente che lei godeva presso la sua comunità. La Bibbia non indica che Eliseo mostrasse qualche forma di rispetto per questa donna quando lei venne da lui in seguito alla sua richiesta. “Lei si presentò davanti a lui”, forse mentre Eliseo era ancora a letto. Lui poi parla a Ghehazi: “Dille così . . .”, e lei si trova davanti a lui. Eliseo le fa domandare che ricompensa desidera per tutta la sua premura. Le suggerisce perfino che potrebbe usare per lei i suoi contatti con le persone più importanti. La donna non è interessata, però. Lei ha la sua posizione nel suo proprio popolo, non è attirata dall’élite di Israele. La sua ospitalità era stata offerta a “un santo uomo di Dio”, non a qualche potenziale alleato.

   “Lei rispose: ‘Io vivo in mezzo al mio popolo’. Ed Eliseo disse: ‘Che si potrebbe fare per lei?’ Gheazi rispose: ‘Certo non ha figli, e suo marito è vecchio’. Eliseo gli disse: ‘Chiamala!’ Gheazi la chiamò, e lei si presentò alla porta. Ed Eliseo le disse: ‘L’anno prossimo, in questo stesso periodo, tu abbraccerai un figlio’. Lei rispose: ‘No, mio signore, tu che sei un uomo di Dio, non ingannare la tua serva!’”. – 2 Re 4:14-16.

   L’offerta di Eliseo era stata respinta. Eliseo però pensa ancora a come ricompensare la donna. Per scoprire ciò che poteva desiderare, domanda al suo servo Gheazi. Gheazi si rende conto che la donna non ha figli e precisa che suo marito è vecchio. Spesso si assume, leggendo la Bibbia, che solo alle donne capita di non essere fertili, ma qui la ragione per la mancanza di figli viene identificata nell’età del marito. Così pensa il servo Gheazi che dedusse che alla sua età avanzata, il marito della sunamita fosse impotente. Gheazi pensa però che lei desiderasse un figlio. Tuttavia, questa ipotesi del servo è probabilmente sbagliata. La donna decisamente dice di no all’offerta di Eliseo. Lei non vuole la maternità che le viene offerta. Se ci s’immedesima nella sua posizione, si può capire perché non vuole. Suo marito è vecchio, e se improvvisamente rimanesse incinta dopo tutto quel tempo, molti, compreso il marito, potrebbero domandarsi come sia rimasta incinta; se poi si fosse considerato tutto il suo impegno per far costruire una stanza privata a casa sua per un altro uomo …

   Si noti che alla promessa di Eliseo che lei avrebbe avuto un figlio, lei risponde con un no deciso: “No, mio signore”. Il seguito della sua dichiarazione crea alcuni problemi per come viene normalmente tradotto: “Tu che sei un uomo di Dio, non ingannare la tua serva!”. I commentatori intendono che lei dicesse pressappoco: Magari, fosse vero … ma non prenderti gioco di me, non dirmi bugie, non farmi promesse che poi non si possono mantenere. La chiave di tutto sta nell’espressione ebraica אַל־תְּכַזֵּב (al-techasèv), tradotta: “Non ingannare” (NR, ND), “Non mentire” (CEI), “Non dire menzogne” (TNM). Ora, come potrebbe lei sospettare che intendesse dire menzogne? Mentre gli diceאַל־תְּכַזֵּב  (al-techasèv), si rivolge a lui chiamandolo “un uomo di Dio”: lei sa che lui è un profeta. Ma se non dubita della sua parola, cosa intende dire? È proprio perché non dubita, che lei gli diceאַל־תְּכַזֵּב  (al-techasèv). La particella אַל (al) è una negazione che denota volontà. Il no di lei è quindi intenzionale, voluto, pensato. La lineetta orizzontale che unisce le due parole, detta maqqef (־), fa sì che le due parole vengano considerate come una parola sola. In quanto al verbo כזב (chasàv), questo significa “mentire/ingannare”. La forma qui usata è la forma piel, che dà un significato fattivo, esprimendo cioè l’idea di fare esistere una determinata azione; essendoci la negazione espressa da אַל (al), vi è quindi la volontà di non far esistere l’azione. La traduzione “Non dire menzogne riguardo alla tua serva” (TNM), tenuto conto della forma piel del verbo va quindi aggiustata così: “Non far dire menzogne riguardo alla tua serva” . La LXX greca dà la stessa versione: μὴ διαψεύσῃ τὴν δούλην σου (me diapsèuse ten dùlen), “non metterti a far inganni alla tua serva” (il verbo è al modo soggiuntivo, tempo aoristo). Questa interpretazione è confermata dal v. 28, come vedremo più avanti.

   “Questa donna concepì e, l’anno dopo, in quel medesimo periodo partorì un figlio, come Eliseo le aveva detto”. – 2 Re 4:17.

   La donna concepisce e partorisce. A differenza di altri episodi simili narrati nella Bibbia, la storia manca di notare che il marito sapesse della sua gravidanza già prima che lei concepisse.

   “Il bambino si fece grande; e un giorno, uscito per andare da suo padre che era con i mietitori, disse a suo padre: ‘La mia testa! la mia testa!’ Il padre disse al servo: ‘Portalo da sua madre!’ Il servo lo portò via e lo condusse da sua madre. Il bambino rimase sulle ginocchia di lei fino a mezzogiorno, poi morì”. – 2 Re 4:18-20.

   Quando il bambino si sentì male e si rivolse a suo padre, questi rispose in maniera distaccata. Invece di assisterlo, lo manda da sua madre tramite un servo. Purtroppo, il bambino muore tra le braccia di sua madre.

   “Allora la donna salì, lo adagiò sul letto dell’uomo di Dio, chiuse la porta, e uscì” (2Re 4:21). Perché lei mette il bimbo morto sul letto del profeta? A quanto pare, lei collega il bambino al profeta e non al marito. “Poi chiamò suo marito e gli disse: ‘Ti prego, mandami un servo e un’asina, perché voglio correre dall’uomo di Dio, e tornare. Il marito le chiese: ‘Perché vuoi andare da lui quest’oggi? Non è il novilunio, e non è sabato. Lei rispose: Lascia fare!’” (2Re 4:22,23). Non solo il marito non ha preso alcuna iniziativa nella faccenda, ma non vede alcuna urgenza. Non sembra una risposta strana? Non dovrebbe essere un po’ più interessato o almeno in lutto per la perdita di suo figlio? In realtà, sembra che lui pensi solo che la moglie voglia vedere il profeta, per qualche motivo oscuro, senza collegare sua richiesta alla morte del bambino.

   La moglie “poi fece sellare l’asina, e disse al suo servo: ‘Guidala, e tira via; non mi fermare per strada, a meno che io non te lo dica. Così partì, e giunse dall’uomo di Dio, sul monte Carmelo” (2Re 4:24,25). Anche qui, prima di esaminare, dobbiamo apportare una correzione alla traduzione non buona. La Bibbia non dice che lei “fece sellare l’asina”, ma che la sellò direttamente: תַּחֲבֹשׁ הָאָתֹון (takhavòsh haatòn), “si sellò l’asina”, ben traduce TNM: “Sellò dunque l’asina”. Invece di aspettare un servo, si sella l’asina da sola, poi ammonisce il servo di andare il più velocemente possibile; il servo non deve preoccuparsi della sua comodità, ma andare a destinazione nel più breve tempo possibile. Infine giunge al monte Carmelo, dal profeta.

   E qui abbiamo il ripetersi di una scena già vista: invece di andare a salutarla, Eliseo manda avanti ancora una volta il suo servitore dalla donna, riferendosi di nuovo a lei con il suo gruppo etnico invece che con il suo nome. “Appena l’uomo di Dio la vide da lontano, disse a Gheazi, suo servo: ‘Ecco la Sunamita che viene! Ti prego, corri a incontrarla, e dille: ‘Stai bene? Sta bene tuo marito? E il bambino sta bene?’. Lei rispose: ‘Stanno bene’”. – 2Re 4:25,26.

   “Come fu giunta dall’uomo di Dio, sul monte, gli abbracciò i piedi. Gheazi si avvicinò per respingerla; ma l’uomo di Dio disse: ‘Lasciala stare, poiché l’anima sua è amareggiata, e il Signore me l’ha nascosto; non me l’ha rivelato”. – 2Re 4:27.

   Nella sua sofferenza la donna cade ai piedi del profeta. Gehazi cerca di fare in modo il suo comportamento sia più adeguato, ma il profeta lo ferma: sa che c’è qualcosa che non va, ma Dio non gli ha rivelato cosa.

   “La donna disse: Avevo forse chiesto di poter avere un figlio? Non ti dissi dunque: Non m’ingannare?’” (2Re 4:28). Di nuovo la traduzione va corretta. Abbiamo già visto, al v. 16, che NR traduce: “Non ingannare la tua serva!”, e abbiamo ragionato sulla forma del verbo ebraico. Ora, qui al v. 28, NR traduce ancora: “Non m’ingannare”, eppure l’ebraico è completamente diverso nei due versetti. Qui si ha לֹא תַשְׁלֶה אֹתִי (lo tashlè otì). Il verbo è שָׁלָה (shalàh) significa “vivere tranquilli”. La forma ifil dà il significato di “far vivere tranquilli”. Tradotto bene, ecco il v. 28: “Ella poi disse: ‘Chiesi io un figlio dal mio signore? Non dissi: No! Fammi vivere tranquilla?’”. La donna non aveva chiesto un figlio, ma Eliseo aveva deciso che ne aveva bisogno. Anche quando lei tentò di protestare, lui le impose il suo “dono”. Ora il figlio che è morto, e lei si aspetta che il profeta si prenda le proprie responsabilità.

   “Allora Eliseo disse a Gheazi: ‘Cingiti i fianchi, prendi in mano il mio bastone, e parti. Se incontri qualcuno, non salutarlo; e se qualcuno ti saluta, non rispondergli; e poserai il mio bastone sulla faccia del bambino’” (2Re 4:29). Eliseo non vuole trattare con il bambino: comanda al suo servo di andare a svolgere la missione che gli affida.

  “La madre del bambino disse a Eliseo: ‘Com’è vero che il Signore vive e che tu vivi, io non ti lascerò’. Ed Eliseo si alzò e andò insieme con lei” (2Re 4:30). La donna non è disposta ad accettare le azioni di un servo. Eliseo deve vedere il bambino, e lei non accetterà un no come risposta.

   “Gheazi, che li aveva preceduti, pose il bastone sulla faccia del bambino, ma non ci fu voce né segno di vita. Allora andò incontro a Eliseo e gli riferì la cosa, dicendo: ‘Il bambino non si è svegliato’. Quando Eliseo arrivò in casa, il bambino, morto, era adagiato sul suo letto. Egli entrò, si chiuse dentro con il bambino, e pregò il Signore. Poi salì sul letto e si coricò sul bambino; pose la sua bocca sulla bocca di lui, i suoi occhi sugli occhi di lui, le sue mani sulle mani di lui; si distese sopra di lui, e il corpo del bambino si riscaldò. Poi Eliseo s’allontanò, andò qua e là per la casa; poi risalì, e si ridistese sopra il bambino; e il bambino starnutì sette volte, e aprì gli occhi. Allora Eliseo chiamò Gheazi e gli disse: ‘Chiama questa Sunamita’. Egli la chiamò; e, come giunse vicino a Eliseo, questi le disse: ‘Prendi tuo figlio’. La donna entrò, gli si gettò ai piedi, e si prostrò in terra; poi prese suo figlio, e uscì”. – 2 Re 4:31-37:

   La perseveranza della donna fu premiata. Lei fu determinata, a tratti ostinata. Ma alla fine ebbe la meglio.

Suocera – definizione (ebraico: חָמֹות, khamòt; greco: πενθερά, pentherà; “suocera”)

La Legge di Dio malediva chi aveva rapporti sessuali con la suocera: “Maledetto chi si corica con sua suocera!”. – Dt 27:23.

   La nota ambivalenza del rapporto nuora-suocera si verificava anche ai tempi biblici. Rut ebbe uno stupendo rapporto con sua suocera (Rut 1:6-17,22;4:14,15), mentre quello delle mogli di Esaù con la loro suocera Rebecca fu disastroso (Gn 26:34;27:46). In Mic 7:6 si lamenta che ci sia “la nuora contro la suocera”.

   Nelle Scritture Greche è ricordata la guarigione della suocera di Pietro: “Gesù, entrato nella casa di Pietro, vide che la suocera di lui era a letto con la febbre; ed egli le toccò la mano e la febbre la lasciò. Ella si alzò e si mise a servirlo”. – Mt 8:14,15.

Suocera di Pietro (πενθερά, pentherà, “suocera”)

“Gesù, entrato nella casa di Pietro, vide che la suocera di lui era a letto con la febbre; ed egli le toccò la mano e la febbre la lasciò. Ella si alzò e si mise a servirlo”. – Mt 8:14,15.

   La versione marciana è più dettagliata: “Appena usciti dalla sinagoga, andarono con Giacomo e Giovanni in casa di Simone e di Andrea. La suocera di Simone era a letto con la febbre; ed essi subito gliene parlarono; egli, avvicinatosi, la prese per la mano e la fece alzare; la febbre la lasciò ed ella si mise a servirli [διηκόνει (diekonèi)]”. – Mr 1:29-31.

   Yeshùa guarì molte persone, come si legge nei Vangeli. Una tra queste fu la suocera di Pietro. Con questa guarigione, però, si verifica qualcosa di unico. Molto spesso, dopo essere state guarite da Yeshùa, le persone se ne andavano per la loro strada. La suocera di Pietro, tuttavia, subito si alzò e “si mise a servirlo”. Il verbo greco per questo servizio è διακονέω (diakonèo), che ha il significato di servire ad una tavola ed offrire cibo e bevande agli ospiti, soccorrere cioè approvvigionare cibo e le necessità di vita. Ciò ci rammenta le parole di Yeshùa in Mt 20:26-28: “Chiunque vorrà essere grande tra di voi, sarà vostro servitore [διάκονος (diàkonos)]; e chiunque tra di voi vorrà essere primo, sarà vostro servo; appunto come il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire [διακονῆσαι (diakonèsai)] e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti”. Il verbo διακονέω (diakonèo), servire, verbo usato per descrivere il servizio reso dalla suocera di Pietro è lo stesso che la Bibbia usa per Yeshùa che servì dando la sua stessa vita. Per la suocera di Pietro fu un servire a tavola offrendo cibo e bevande ai suoi ospiti, per Yeshùa fu un soccorrere provvedendo alle vere necessità di vita.

Susanna (Σουσάννα, Süsànna, “giglio”)

“. . . Giovanna, moglie di Cuza, l’amministratore di Erode; Susanna e molte altre che assistevano Gesù e i dodici con i loro beni”. – Lc 8:3.