Nota: tutte le citazioni bibliche di questo studio – se non altrimenti specificate – sono tratte dalla versione TILC.


 

Il disagio interiore, la perenne insoddisfazione, il senso della mancanza di qualcosa sorge quando non si sa trovare la propria via. La persona che si dichiara sempre insoddisfatta, lo fa per evitare di decidere. Scegliere significa rinunciare alle altre possibilità e assumersi la responsabilità della riuscita della propria vita. Per chi rimane ancorato all’illusione infantile, immaginando di essere onnipotente, infallibile e invincibile, la continua scontentezza è il segnale che giunge da dentro che c’è un’incapacità a decidere. “Se aspetti il vento favorevole, non semini più; se stai a guardare quando pioverà, non ti deciderai a mietere”. – Ec 11:4.

   Il segnale che giunge dalla scontentezza e dall’insoddisfazione ha due facce. Se da una parte dice che c’è incapacità a decidere, dall’altra sta suggerendo che è ora di migliorarsi e progredire. Il proprio disagio va accolto, facendolo per così dire sedere accanto a noi per ascoltarlo. “Perché sei così triste, così abbattuta, anima mia?”. – Sl 42:12.

   All’origine del costante malcontento potrebbe esserci una ferita risalente all’infanzia. È nell’infanzia che prende forma e si determina la parte fondamentale del nostro destino. Se i genitori o chi per loro non hanno tenuto conto del bambino o della bambina per ciò che è, e hanno avuto troppe attese, oppure sono stati costantemente critici, può essersi creata una frattura tra la persona ideale e quella reale. Crescendo, la persona si porrà un modello di sé troppo perfetto, e ciò la porterà a non essere mai completamente soddisfatta.

Paolo, caso esemplare

   Chissà com’era stata l’infanzia dell’apostolo Paolo. Lui stesso, tracciando alcuni tratti autobiografici, dice di sé: “Sono cresciuto a Gerusalemme. Gamalièle è stato il mio maestro e mi ha insegnato a osservare scrupolosamente [ἀκρίβειαν (akrìbeian), “cura esatta”; “rigida osservanza” (NR), “rigore” (TNM)] la Legge” (At 22:3). Gamaliele era un fariseo, “maestro della Legge, molto stimato dal popolo” (At 5:34). Dalla Mishnàh sappiamo che l’età per iniziare lo studio del Talmùd era stabilita a 15 anni. Paolo doveva quindi aver avuto già nell’infanzia la propensione per questi studi così rigorosi. Lui stesso dice di sé: “Io sono fariseo, figlio di farisei” (At 23:6). Paolo era un perfezionista.

   In un passo di una sua lettera, Paolo fa un accenno alla sua infanzia che sembra emergere dal suo subconscio: “Quando ero bambino parlavo da bambino, come un bambino pensavo e ragionavo” (1Cor 13:11). Nel contesto sta parlando dell’amore e sta dicendo che l’amore non viene mai meno, a differenza dei doni miracoli della glossolalia, della profezia e della conoscenza (vv. 4-8). Poi, dopo aver detto che la conoscenza sarà eliminata, dice che “la scienza è imperfetta, la profezia è limitata,ma quando verrà ciò che è perfetto, esse svaniranno” (vv. 9,10). È a questo punto che sceglie di fare il paragone con il bambino, per poi concludere: “Ora la nostra visione è confusa, come in un antico specchio; ma un giorno saremo a faccia a faccia dinanzi a Dio” (v. 12). Come mai si richiama al bambino, giacché il paragone più appropriato è quello dello specchio vecchio in cui si vede confusamente? Guarda caso, il richiamo al bambino scatta appena ha menzionato la perfezione che eliminerà l’imperfezione.

   L’educazione rigida cui Paolo era stato sottoposto l’aveva reso un perfezionista. Ciò doveva avergli causato disagio interiore e frustrazione (cfr. Rm 7:21-24). Quando ci si trova in situazioni di profonda crisi che sembrano far crollare l’intera impalcatura della nostra vita, tutto s’incupisce e si oscura. Dio deve aver chiamato Paolo, tramite Yeshùa, proprio nel momento più buio del futuro apostolo. Paolo “continuava a minacciare i discepoli del Signore e faceva di tutto per farli morire” (At 9:1). Perché tanto accanimento contro i discepoli di Yeshùa? Perché li riteneva colpevoli. Quando s’incolpano gli altri, spesso si sta cercando di incolparli della propria insoddisfazione. Spostando il problema interiore all’esterno, da sé agli altri, si sta fuggendo da se stessi. Ciò denota scarsa autostima. Per non affrontare il proprio insuccesso, ci si sente vittima. Lui, tanto rigoroso nei più alti studi e nella vita, messo in discussione da gente comune che riusciva a vivere la propria fede con semplicità, provandone gioia. Era il momento probabilmente più buio della sua vita. Dopo la chiamata da parte di Yeshùa, “si alzò da terra. Aprì gli occhi ma non ci vedeva” (At 9:8), certamente per il trauma dell’incontro e della luce sfolgorante che lo aveva accecato (vv. 3,4), ma è comunque curioso quel non vederci.

   Offuscato nella sua visione di fede, ottenebrato dal buio della sua frustrazione nei vani tentativi di auto-affermazione, gli si rivelò il mistero di Dio. Nel massimo momento di crisi, sperimenta in modo liberante il mistero della grazia di Dio. Riceve gratuitamente, godendo l’amore incondizionato di Dio. Lui che viveva la propria fede in modo legalistico, con l’ansia d’essere perfetto, per affermarsi di fronte al mondo e per confermare se stesso, in un solo momento viene annientato e trasformato. La sua accanita persecuzione contro quel modo nuovo di vivere la fede, dice inconsciamente quanto quella fede lo attraeva. Forse era già stato, inconsciamente, affascinato e sedotto dalla libertà di Stefano quando fu martirizzato (At 7:58-8:3) e non poteva ammetterlo: quella libertà demoliva l’immagine di Dio che si era costruito da solo. Quando non si vuol riconoscere ciò che ci agita, si cerca con ogni mezzo di scacciarlo. Paolo “continuava a minacciare i discepoli del Signore e faceva di tutto per farli morire”. – At 9:1.

   Completamente trasformato dalla chiamata di Dio tramite Yeshùa, il suo passato continuerà ad accompagnarlo, anche se in termini positivi: ora egli fa tutto per Yeshùa e per la diffusione del vangelo. La struttura psichica precedente non lo condiziona più negativamente ma diventa un bene per tutti. Prima pensava di poter acquistare l’amore di Dio con le severe opere della Legge e cercava di sopprimere tutto ciò che non si adattava a quella visione. Ora conosce l’amore incondizionato di Dio e ha una visione vera delle realtà divine. Paolo, chiamato da Dio, seppe ricominciare da se stesso attraverso un processo onesto e sincero di auto-riconoscimento, raggiungendo il fondo della mia psiche, dove comprese l’amore di Dio.

   Le persone davvero appagate sono quelle che si prefiggono degli scopi, se ne assumono le responsabilità, riflettono sugli errori e imparano dalle sconfitte. Stare bene con se stessi e con gli altri è un aspetto dell’esperienza di fede. Tuttavia, se si riduce tutto lì, ruotiamo solo intorno a noi stessi. La fede ci chiama anche ad accedere al senso profondo della nostra esistenza. Non si tratta solo di spogliarci dei vecchi abiti sporchi e condizionanti della precedente personalità. Se ci si spoglia semplicemente e si mettono via i vestiti, si rimane nudi. Occorrono abiti nuovi e puliti. “Allora sapete cosa dovete fare: la vostra vecchia vita, rovinata e ingannata dalle passioni, dovete abbandonarla, così come si mette via un vestito vecchio; e invece dovete lasciarvi rinnovare cuore e spirito, diventare uomini nuovi creati simili a Dio, per vivere nella giustizia, nella santità e nella verità”. – Ef 4:22-24.

    Separarsi dalle proprie illusioni è doloroso. “Nessuno può distruggere l’inganno dei propri sogni” (Henrik Ibsen, scrittore e drammaturgo norvegese). La verità può essere dolorosa. Eppure ci rende liberi, perché ‘la verità ci farà liberi’ (Gv 8:32). In realtà si tratta di non far prevalere il nostro io, permettendo a Dio di regnare.  In termini psicologici, non è più l’Io ma il Sé a essere il centro di noi stessi.

   Paolo seppe riconciliarsi con se stesso. Di più. “Noi eravamo suoi nemici, eppure Dio ci ha riconciliati a sé” (Rm 5:10). Avendone ineffabilmente gustata l’esperienza, è con sentita commozione e convinzione che prega: “Vi supplichiamo da parte di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”. – 2Cor 5:20.

   Il paradosso della vicenda di Paolo è che proprio quando non vedeva più nulla, vide la grazia divina. Nella sua nuova visione, Dio non corrispondeva alle severe immagini che Paolo si era fatto di lui. Appena reso cieco dalla sfolgorante apparizione di Yeshùa, tutt’a un tratto vede chiaro. E riconosce il mistero della grazia e della libertà, il mistero dell’amore incondizionato di Dio. Questa esperienza la fa chiunque sa aprirsi a nuova visione quando il proprio mondo interiore si fa buio.

   Paolo conobbe (e riconobbe) i propri limiti in modo molto doloroso. Era colpito da un male che lo imbarazzava e che doveva creare disgusto e repulsione (Gal 4:13,14), per il quale supplicò diverse volte il Signore, senza esserne guarito (2Cor 12:8,9). Non era un grande oratore, anzi era “inesperto nel parlare” (2Cor 11:6); di lui dicevano: “Le lettere di Paolo sono dure e severe, ma quando egli è tra noi, allora è umile e il suo modo di parlare è debole” (2Cor 10:10). Eppure, non contando sulle sue forze, riuscì in imprese incredibili.

   Dai suoi tratti psicologici che la Bibbia riporta, apprendiamo che Paolo non aveva un carattere facile, cortese e attraente; At 13:13;15:37,38 riporta i suoi dissidi con Marco, At 15:39,40 quelli con Barnaba, Gal 2:11-16 quelli con Pietro e Giacomo. Chissà se c’è dell’ironia, certo involontaria, quando si annota che dopo che i fratelli “condussero Saulo [= Paolo] a Cesarèa e di là lo fecero partire per Tarso”, “la chiesa allora viveva in pace [“entrò in un periodo di pace” (TNM)] in tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria”. – At 9:30,31.

   La sua forte caparbietà, se da un lato lo rendeva poco malleabile, dall’altro gli consentiva di resistere alle avversità (2Cor 11:23-28). Il suo cipiglio doveva anche conferirgli un certo magnetismo personale e un certo carisma, tanto che i nemici lo identificarono con il capo dei discepoli di Yeshùa: “Quest’uomo, secondo noi, è estremamente pericoloso. Egli è capo del gruppo dei nazirei, e provoca disordini dappertutto tra gli Ebrei sparsi nel mondo”. – At 24:5.

   Il suo essere tutto d’un pezzo lo rendeva anche capace di – come si direbbe oggi – gestire le risorse umane; sapeva aver cura delle nuove comunità di discepoli, inviando loro lettere e suoi collaboratori, analizzando bene i loro problemi e dando direttive efficaci (scelta di responsabili cui delegare).

   Sebbene efficientemente energico fino a essere aspro e pungente, era mosso da un amore sincero: “Potevo far valere la mia autorità di apostolo di Cristo. Invece mi sono comportato tra voi con dolcezza, come una madre che ha cura dei suoi bambini. Mi sono affezionato a voi, e vi ho voluto bene fino al punto che vi avrei dato non solo il messaggio di salvezza che viene da Dio, ma anche la mia vita . . . Voi siete, con Dio, testimoni del mio comportamento. Potete dire quanto è stato giusto, santo e corretto il mio modo di agire verso tutti i credenti. Sapete che ho agito verso ciascuno di voi, come fa un padre con i suoi figli. Vi ho esortati e incoraggiati, vi ho scongiurati di comportarvi in maniera degna di Dio”. – 1Ts 2:7-12.

   Possiamo trarre davvero molto dalla vicenda di Paolo. Succede spesso che una seria crisi ci faccia toccare il fondo. Nulla accade per caso. Le crisi, i disagi, le inquietudini, tentano di dirci che qualcosa nella nostra esistenza non va. Ci dicono che è ora di ripensare la nostra vita. La crisi ci rivela quanto giace ben celato in noi, quanto avevamo fino a quel momento tenuto nascosto a noi stessi, agli altri e a Dio. Questa scoperta ha un effetto liberatorio, anche se è un’esperienza dolorosa. Ci può guarire. “Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi”. – Gv 8:32.