A completamento del precedente studio sulla Lectio divina, diamo un esempio pratico, basandoci sul testo di Mt 5:3, che dice: “Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli.” Trattandosi di un esempio, per brevità, abbiamo scelto un solo versetto. Applicheremo però tutte le “tappe” previste dalla Lectio divina, in modo che l’esempio sia completo. Con il carattere blu vengono indicate le linee-guida della Lectio divina contenute nel precedente studio I vari momenti della lettura pregata della Scrittura.

   Lettura. È il punto di partenza. Nella lettura si cerca di capire il brano nel suo contesto originale storico, geografico, culturale. Qual era lo scopo spirituale che l’autore aveva in mente? Quando lo scrisse? Dove? In quali circostanze? Come è stato ricevuto quel messaggio dai destinatari originali?

   Il contesto originale storico colloca la dichiarazione di Yeshùa all’inizio del suo ministero pubblico. Al cap. 4 di Mt si narra che Yeshùa, subito dopo il battesimo (Mt 3), si ritira nel deserto, dove subisce le tentazioni sataniche (vv. 1-11). Al v. 13 è detto che “lasciata Nazaret, venne ad abitare in Capernaum”, sul lago di Tiberiade. “Da quel tempo Gesù cominciò a predicare” (v. 17); “Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando il vangelo del regno” (v. 23); “Grandi folle lo seguirono dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano” (v. 25). Ed eccoci al punto che ci interessa: “Gesù, vedendo le folle, salì sul monte e si mise a sedere. I suoi discepoli si accostarono a lui, ed egli, aperta la bocca, insegnava loro” (Mt 5:1,2). Se leggiamo bene il testo, scopriamo che l’idea religiosa di una grande folla che ascoltava Yeshùa in tale occasione è falsa. Un’opera religiosa, ad esempio, afferma: “In varie occasioni, grandi folle si radunarono davanti a Gesù, traendone molto beneficio, come quando egli pronunciò il Sermone del Monte. (Mt 5:1–7:29)” (Perspicacia nello studio delle Scritture, Vol. 1, pag. 228). La Bibbia ci dice che “vedendo le folle, salì sul monte”: vi salì proprio per sottrarsi alle folle. Le folle non lo seguirono sul monte, ma lo fecero i suoi discepoli: “I suoi discepoli si accostarono a lui”. Il cosiddetto “sermone del Monte”, cui il brano che stiamo considerando si colloca, non fu perciò diretto alla folla ma ai soli discepoli. Il passo parallelo di Lc 6:20,21 ce lo conferma. “Egli, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: ‘Beati voi che siete poveri, perché il regno di Dio è vostro’”.

   Il contesto geografico è menzionato in Mt 5:1: “Salì sul monte”. Si trattava di una località montagnosa della Galilea  (Mt 4:23) nelle vicinanze di Capernaum. – Lc 6:12-49;7:1.

   Il contesto culturale è facilmente desumibile. Yeshùa parla ai suoi discepoli (Mt 5:1,2), che erano tutti galilei (Mt 4:18; Mr 14:70; At 2:7). Opere di consultazione come i commentari biblici ci informano che i galilei generalmente non erano ligi alla tradizione come i giudei. Nel Talmùd sono accusati di trascurare la tradizione (Meghillah 75a). Non erano però ignoranti: Lc 5:17 menziona farisei e dottori della legge presenti in Galilea, anche se i giudei si ritenevano superiori (Gv 7:45-52). I dodici apostoli erano tutti galilei. In Is 61 c’è un’intera profezia che riguarda la predicazione di Yeshùa in Galilea. L’espressione isaiana “Galilea delle nazioni” (Is 9:1) è dovuta al fatto che decine di città della Galilea (che il re Salomone aveva concesso a Hiram re di Tiro) erano abitate da pagani (1Re 9:10-13). Tiglat-Pileser III re d’Assiria conquistò la Galilea durante il regno di Peca re d’Israele (nel 8° secolo a. E. V.). – 2Re 15:29.

   Qual era lo scopo spirituale che l’autore aveva in mente? Matteo, lo scrittore ispirato del brano, aveva in mente i giudei quando scrisse il suo Vangelo. Avvalendoci di commentari biblici scopriamo che Origène (3° secolo della nostra èra) scrisse (citato da Eusebio di Cesarea) che Matteo “pubblicò [il suo Vangelo] per i fedeli provenienti dal Giudaismo” (Storia ecclesiastica, VI, XXV, 3-6, trad. di F. Maspero e M. Ceva, Milano, 1979). Ciò risulta confermato dalla genealogia che mostra la discendenza legale di Yeshùa a partire da Abraamo e dai numerosi riferimenti che egli fa alle Scritture Ebraiche per dimostrare la messianicità di Yeshùa.

   Quando lo scrisse? La datazione di Mt non è così semplice: l’anno esatto della sua redazione non si conosce. Alcuni ritengono che sia il 41 della nostra èra, basando questa supposizione su annotazioni alla fine di alcuni manoscritti. Occorre però dire che tali manoscritti sono tutti successivi al 10° secolo. Questa datazione ci pare del tutto errata: è troppo vicina al tempo dei fatti narrati (sarebbero passati solo circa dieci anni dalla morte di Yeshùa). Il fatto è che Mr è molto più antico, tanto che Matteo lo seguì come modello. Il Vangelo di Marco è costantemente seguito come trafila da Matteo; vi si scosta solo per introdurvi il suo materiale (una parte propria al Vangelo scritto di Matteo, non comune né a Marco né a Luca, e che presenta probabilmente delle esperienze personali dell’autore). La teoria di Agostino che Marco abbia abbreviato il Vangelo mattaico è insostenibile: lo stile di Matteo è quasi sempre superiore a quello marciano. È ragionevole pensare che Matteo abbia migliorato lo stile di Marco, ma non che Marco abbia peggiorato quello di Matteo. Anche la vivacità di Marco eliminata da Matteo depone per la priorità di Marco su Matteo. Sembra quindi doveroso ammettere una composizione graduale del Vangelo scritto di Matteo. Verso l’anno 50 della nostra èra una serie di discorsi (i lòghia), poi – tra il 70 e l’80 – la composizione attuale. Questa data, posteriore alla distruzione di Gerusalemme (70 E. V.) sembra suggerita dalle parole della parabola contenuta in Mt 22:6,7 che fanno riferimento proprio alla distruzione di Gerusalemme (queste parole mancano nel passo parallelo della stessa parabola in Lc 14:15-24 e questo particolare suppone la distruzione di Gerusalemme come un evento già avveratosi).

   Dove? In quali circostanze? Non c’è motivo di dubitare che Matteo scrisse il suo libro in Palestina. Le circostanze dovettero essere quelle del bisogno di testimoniare l’opera di Yeshùa, mettendo in risalto che l’insegnamento di Yeshùa era relativo “il regno dei cieli” (4:17). Matteo usa il termine “regno” più di 50 volte. Voleva davvero convincere i giudei che Yeshùa era il messia tanto atteso.

   Come è stato ricevuto quel messaggio dai destinatari originali? Non fu accolto: i giudei continuarono a non accettare Yeshùa come messia, e ciò fino ai nostri giorni.

   La “rilettura” può aiutarci a collocare questo elemento nel contesto di tutta la Bibbia. Rileggiamo il nostro passo: “Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli” (Mt 5:3). Che significa “poveri in spirito”? L’aggiunta di “in spirito” ci fa capire che non si tratta di semplici indigenti. Ma che significa? Un paragone con altre traduzioni potrebbe aiutarci? Proviamo:

 

NR

“Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli”

Did

“Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli”

CEI

“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”

TNM

“Felici quelli che si rendono conto del loro bisogno spirituale, poiché a loro appartiene il regno dei cieli”

PdS

“Beati quelli che sono poveri di fronte a Dio”

 

   Cattolici (CEI) e protestanti (Did, NR) convergono su “poveri in spirito”; i Testimoni di Geova (TNM) correggono in “quelli che si rendono conto del loro bisogno spirituale”; l’interconfessionale PdS sembra metterci sulla strada giusta. Non ci resta che interpellare la Scrittura stessa:

μακάριοι οἱ πτωχοὶ τῷ πνεύματι

makàrioi òi ptochòi to pnèumati

felici i bisognosi riguardo allo spirito

  Avvalendoci di dizionari biblici apprendiamo che la parola greca πτωχός (ptochòs) significa “ridotto all’indigenza / implorante / mendico / senza ricchezza o influenza o posizione o onore / modesto / afflitto / senz’aiuto / povero / bisognoso / che manca in qualcosa”. L’espressione τῷ πνεύματι (to pnèumati) significa “in quanto allo spirito”, espressione che manca nel parallelo di Lc 6:20. La traduzione “beati” è dovuta al latino beati della Vulgata (da qui il nome di “beatitudini” riferito a questa serie di dichiarazioni di Yeshùa). Si tratta quindi di miseri o indigenti per ciò che riguarda le cose dello spirito; la connotazione di “modesti” della parola greca indica che sono bisognosi, ma senza superbia. La promessa di felicità e del Regno mostra quanto siano cari a Dio.

   Meditazione. In questo secondo momento, che non può essere distinto nettamente dal primo, si passa dalla lettura all’approfondimento. Consiste in una riflessione sullo scopo ultimo del testo. La meditazione cerca di conoscere ciò che il testo dice a noi oggi. “Felici . . . perché di loro è il regno dei cieli”: è una promessa che ci affascina. Siamo “poveri”, impoveriti dal peccato che già fece perdere la gloria di Dio ad Adamo ed Eva, creati a immagine di Dio (Gn 1:27). Questa attuale povertà, questa nostra miseria, diventa ricchezza in quanto oggetto dell’attenzione di Dio. Se Luca parla solo di “poveri”, Matteo li connota in modo determinato: “in spirito”. Si tratta di persone svuotate del superfluo e desiderose di realtà eterne, persone protese verso Dio. Oggi come allora, conta l’atteggiamento interiore di abbandono nella fede. La volontà personale non può molto: è dono di Dio (“felici coloro che”). Il povero è umile e sottomesso, a differenza del ricco che è superbo. Eppure, anche un benestante può essere povero, perché si tratta qui di “poveri in spirito”. Il povero per eccellenza è Yeshùa: non perché costretto, ma per libera scelta: “Rinunciò a tutto: diventò come un servo . . . abbassò se stesso” (Flp 2:7,8, PdS). “Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome” (Flp 2:9). Yeshùa ci chiama a condividere la sua povertà volontaria per essere tra gli umili, i disprezzati, tra quelli che il mondo non considera. Questa condizione misera siamo invitati ad accettarla con santa letizia: saremo, così, “felici”. Yeshùa “essendo ricco, si è fatto povero”. “Per voi,” – dice Paolo – “affinché, mediante la sua povertà, voi poteste diventare ricchi” (2Cor 8:9). In questa prima beatitudine sono comprese le seguenti, perché questa prima ne è la condizione. Il povero in spirito è contento di sé, pieno di letizia e di pace, non rivendica diritti; non desidera altro se non essere ricolmato da Dio. Solo chi è così sa trattare ogni cosa con delicatezza, senza pretese né prepotenze. Nel nostro cammino spirituale è dunque indispensabile partire dalla povertà in spirito, dallo svuotamento di sé, dal distacco da sé, rinunciando all’orgoglio e alla superbia. (Le citazioni sono state individuate attraverso i riferimenti ai passi paralleli presenti a margine o in calce a diverse Bibbie).

   Preghiera. Questo aspetto consiste nella preghiera che scaturisce dalla meditazione. È una spontanea reazione del cuore in risposta al testo. Lasciamo a ciascuno personalmente questa tappa della Lectio divina, perché la preghiera è personale. Come base di preghiera diamo solo alcuni suggerimenti, tra i quali si potrà scegliere:

 

Sl 1

Beata la persona il cui diletto è in Dio

Sl 13

Preghiera durante l’afflizione

Sl 3

Fiducia durante la disdetta

Sl 25

Ricerca di Dio e del suo perdono

Sl 4

Sicurezza nel momento del pericolo

Sl 28

Certezza dell’esaudimento

Sl 6

La misericordia di Dio

Sl 31

Preghiera fiduciosa durante la prova

Sl 31

Felicità del peccatore perdonato

Sl 33

Lode di gioia

Sl 38

Implorazione di misericordia per i peccati

Sl 42

Speranza in Dio

Sl 46

Dio, nostro rifugio e nostra forza

Sl 51

Preghiera di pentimento

Sl 57

Fiducia nel momento della difficoltà

Sl 62

Dio, unico rifugio

Sl 63

Sete di Dio

Sl 65

Lode a Dio per la sua bontà

Sl 69

Preghiera dell’oppresso

Sl 81

Esortazione ad ascoltare Dio

Sl 86

Invocazione della misericordia di Dio

Sl 91

Il Signore, rifugio sicuro

Sl 96

Inno alla grandezza di Dio

Sl 113

Bontà di Dio verso i bisognosi

Sl 124

Il Signore protegge i suoi fedeli

Sl 130

Attesa dell’intervento di Dio

Sl 131

Pace in Dio

Sl 150

Lode suprema a Dio

   Contemplazione. La contemplazione diventa adorazione nella lode e nel silenzio davanti a Dio. Si tratta di un tentativo di stare davanti a Dio Onnipotente tenendo esposto il nostro cuore. Questo è il momento del silenzio. Non occorrono parole, ma se la lode si fa parola, lasciamola sgorgare. Nella calma e nel silenzio, diveniamo consapevoli della presenza di Dio.

   Gioia. La gioia è molto importante per il nostro cammino di preghiera. Senza questa componente la preghiera perde di sale, di gusto. Questo sentimento scaturisce già dalla preghiera e dalla contemplazione. In effetti, non si tratta di momenti separati: preghiera, contemplazione e gioia possono essere un tutt’uno. È qualcosa che non può esserne descritto: occorre farne esperienza.

   Discernimento. Questo aspetto consiste nell’abilità di discernere il pensiero di Dio come viene espresso nella sua parola. Venendo in contatto con la parola di Dio noi riceviamo una sensibilizzazione, una specie d’istinto per le scelte che sono proprie del credente. Ciascuno, in un autoesame in preghiera, può domandarsi come può applicare le intuizioni che ha avuto. In quali campi e come mettere in pratica ciò che è emerso dalla parola di Dio?

   Decisione. Quest’aspetto consiste nella scelta concreta di un’azione da compiere. È qui che si collocano le scelte che mutano la nostra vita per adeguarla sempre più alla volontà dell’Onnipotente. Questa tappa è connessa alla precedente: si tratta di decidere concretamente i cambiamenti da apportare alla propria vita.

   Azione. Non resta che vivere alla luce di quanto appreso e deciso, mantenendo in sé il clima creatosi con la Lectio divina. La preghiera dovrebbe accompagnarci sempre.

   “Una volta che si comincia a camminare con Dio, si continua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata”. – Esther Hillesum, Diario