È difficile scorgere nelle traduzioni i giochi di parole che la Bibbia fa, poiché essi valgono solo per l’ebraico e, a volte, per il greco. Se non sono evidenziati da una nota, non si possono cogliere. In ebraico i giochi di parole sono più facili perché in questa lingua non si scrivono le vocali. Queste sono ovviamente sempre presenti nella lettura (e furono aggiunte esplicitamente nel Testo Masoretico), ma ciò non toglie la possibilità del gioco di parole. Le parole equivocate (che hanno le stesse consonanti ma mancano delle vocali) suonano simili (a volte identiche), anche con le diverse vocali.

   “Ebbe trenta figli che cavalcavano [רֹכְבִים (rochvìym)] trenta asini [עֲיָרִים (ayarìym)]” (Gdc 10:4, TNM) > ‘Ebbe sui veicoli [rechevìym] trenta ragazzi in trenta quartieri [ayarim]’. Questo è solo un esempio di ciò che si può ottenere.

   I giochi di parole che la Bibbia usa sono un interessante tipo di umorismo che denota l’intelligenza e l’arguzia dell’agiografo. Il lettore che legge in ebraico si rende conto che l’autore sacro si fa malizioso e con questo sistema insegna qualcosa. Per esempio, in Gn 2:25 si legge: “Entrambi continuarono a essere nudi [עֲרוּמִּים (arumìym)], l’uomo e sua moglie [Adamo ed Eva], eppure non si vergognavano” (TNM). Nel verso successivo è detto che “il serpente era il più astuto [עָרוּם (arùm), singolare di arumìym] di tutti gli animali” (Gn 3:1). C’è una connessione tra questi due versi? Se c’è, il lettore è sfidato con il gioco di parole a trovarla. Ciò che fece accorgere i nostri primogenitori d’essere nudi (arumìym) fu il peccato, e questo fu causato dall’astuto (arùm) serpente.

   Un altro collegamento fatto con un gioco di parole è ottenuto con le lettere ebraiche שחת (sh-kh-t) che danno origine a due parole diverse. In Gn 6:11 è detto che “la terra si rovinò [תִּשָּׁחֵת (tishakhèt), “fu corrotta”]” (TNM), descrivendo così la decadenza totale del genere umano prima del Diluvio. Poi, in Gn 6:17, è detto che Dio sta “per portare il diluvio di acque sulla terra per ridurre in rovina [לְשַׁחֵת (leshakhèt), “distruggere”] ogni carne” (TNM). La medesima radice ebraica indica prima la rovina e poi la distruzione. Con questo gioco di parole la Bibbia pone l’accento sul legame tra corruzione e distruzione.

   Il gioco di parole a volte è una sottile scaltrezza con cui il testo biblico mostra la sua disapprovazione per le azioni di qualcuno. In Gn 9:20 è detto che “Noè cominciò come agricoltore” (TNM), anzi, attendendosi al testo biblico, è detto che “cominciò come uomo della terra”. Ebbene, quel “cominciò” traduce l’ebraico יָּחֶל (yàkhel). Questa parola può anche significare svilire se stessi o agire in modo sacrilego. Utilizzando un gioco di parole, la Bibbia mostra il suo disappunto per Noè che per prima cosa (“cominciò”) piantò una vite e si ubriacò (Gn 9:20,21). Egli “cominciò” (yàkhel) male: ‘svilì se stesso’ (yàkhel), ‘agì in modo sacrilego’ (yàkhel). Chiamarlo poi “uomo della terra” è un affronto rivolto a lui che era stato definito uomo di Dio perché “uomo giusto” (Gn 6:9, TNM). In più, il termine ebraicoאִישׁ הָאֲדָמָה  (ysh haadamàh), “uomo della terra”, lo collega molto bene ad Adamo, alludendo alla sua caducità.

   Un altro esempio lo traiamo da Gn 25:28: “Isacco amava Esaù, perché cacciagione [era] in sua bocca [צַיִד בְּפִיו (tzàyd befìyv)]” (traduzione letterale dall’ebraico). Ora, la parola צַיִד (tzàid), oltre che “cacciagione”, più indicare il prendere in trappola; il che porterebbe a intendere che nella bocca di Esaù c’era una trappola. Nel doppio senso che qui appare, si vuol dire che la bocca e quindi il parlare di Esaù era una trappola. Esaù era un falso e fece credere a suo padre d’essere una persona fine, così che il padre lo amava più di Giacobbe, mentre era solo un rozzo.

   È scritto in Lv 19:4: “Non vi rivolgete agli idoli [אֱלִילִים (eliylìym)]”. Il termine per le divinità di solito è עֲצַבֵּי (atzabè) (cfr. Sl 106:38). La parola eliylìym è collegata invece con la parola אל (al) che significa “nulla”. Infatti, in Gb 13:4 i “medici da nulla” sono detti אֱלִל (elìl), “da nulla”, appunto. Gli idoli sono allora “nullità”.

   La Bibbia ebraica usa spesso parole con significati diversi per descrivere gli idoli. Per esempio, come abbiamo appena visto più sopra, è usata la parola ètzeb che al plurale costrutto fa עֲצַבֵּי (atzabè). Questa parola (ètzeb) significa anche “dolore” e “angoscia” (come in Gn 45:5). Le persone che adorano idoli e immagini religiose sono destinate a provare dolore perché i loro idoli non li ascoltano mai, né potrebbero. Le “cose detestabili [תֹּועֵבֹת (toevòt)]” (TNM) di Lv 18:27 sono i rapporti incestuosi, omosessuali e con animali, ma la stessa parola è usata per gli idoli, come in Dt 7:26: “Non introdurrai cosa abominevole [“le immagini scolpite dei loro dèi . . . sono abominevoli per il Signore”, v. 25] in casa tua”.

   La Bibbia ebraica usa giochi di parole in modo così esteso che questo sistema potrebbe giustificare una trattazione a sé stante. Qui diamo solo una selezione di questi intriganti giochi di parole.

   “Vi prego, ecco, ho due figlie che non hanno mai avuto rapporti con un uomo. Vi prego, lasciate che ve le porti fuori. Quindi fate loro ciò che è bene ai vostri occhi. Solo non fate nulla a questi uomini [אֲנָשִׁים הָאֵל (anashìym haèl)], perché per questo sono venuti all’ombra del mio tetto” (Gn 19:8 TNM). Così dice Lot ai sodomiti che vogliono abusare sessualmente degli angeli che si sono recati a casa sua per salvare la sua famiglia dalla prossima distruzione di quella città perversa. L’espressione אֲנָשִׁים הָאֵל (anashìym haèl) significa “uomini questi” e così è tradotta, ma già leggendo haèl s’intuisce che il suono el richiama Dio. Potrebbe essere tradotto anche “uomini di Dio”. Gioco di parole: quegli “uomini” erano angeli.

   Esaù, che abbiamo già notato essere un grezzo, una volta era particolarmente affamato e mostrò in tale occasione tutta la sua rozzezza dicendo in malo modo a suo fratello Giacobbe: “Sono sfinito! Dammi da mangiare un po’ di quella roba rossastra” (Gn 25:30, TILC), che era poi il famoso piatto di lenticchie. Ora, l’espressione tradotta “dammi da mangiare un po’” non rende l’idea che vuol dare il testo biblico che ha הַלְעִיטֵנִי נָא (haleiytèny na): “Fammi ingoiare, dai!”. Non coglie neppure TNM che traduce addirittura: “Ti prego, dammi”, scambiando נָא (na), “dai!” (= muoviti!), per “ti prego”. Questa è l’unica volta in tutta la Bibbia che viene utilizzata l’espressione הַלְעִיטֵנִי (haleiytèny). Il che ci dice quanto grossolano e sgarbato fosse Esaù.

   Labano dice a Giacobbe: “Fissami [נָקְבָה (naqevàh)] il tuo salario e io lo darò” (Gn 30:28, TNM). La parola נָקְבָה (naqevàh) significa indicare o specificare (qui, il salario); tuttavia, questa stessa parola, se letta neqevàh, significa anche “femminile”. È gustosissimo qui il gioco di parole che la Bibbia fa. Labano aveva due figlie e Giacobbe fu costretto a lavorare ben 14 anni sotto Labano per sposare Rachele di cui era innamorato (Gn 29:1-29). Con il gioco di parole, la frase diventa: “Femminile [è] il tuo salario e io lo darò”.

   Giacobbe derubò con astuzia (ma secondo il disegno divino) la benedizione della primogenitura al suo gemello Esaù (Gn 25:29-34;27:1-29; Eb 12:16; Rm 9:13). “Benedizione” in ebraico si dice בְרָכָה (vrachàh). Anni dopo, Esaù andò incontro a Giacobbe con 400 uomini (Gn 33:1), quando Israele rientrava dopo la sua permanenza da Labano. Temendo la vendetta di Esaù, Giacobbe gli aveva inviato un dono prima che lo raggiungesse (Gn 32:3-21), facendogli dire: “È un dono [מִנְחָה (minkhàh)] inviato al mio signore Esaù” (Gn 32:18; nel Testo Masoretico è al v. 19). Esaù però non intende vendicarsi e non accetta il dono. Al che Giacobbe gli dice: “Ti prego, accetta il mio dono [בְרָכָה (vrachàh)] che ti è stato presentato” (Gn 33:11). Qui si hanno due giochi di parole. La parola מִנְחָה (minkhàh), oltre a indicare un dono, indica anche un’offerta fatta nel culto (nell’ebraico moderno designa la preghiera di metà giornata). Nel secondo gioco di parole, quando Giacobbe dice a Esaù di accettare il suo dono, non usa più la parola מִנְחָה (minkhàh) ma usa la parola בְרָכָה (vrachàh) che letteralmente significa “benedizione” ovvero quella che aveva carpito a Esaù. Uno psicanalista troverebbe forse qui un lapsus freudiano.

   Giuseppe, interpretandogli un sogno, dice al capo dei coppieri suo compagno di prigionia: “Fra tre giorni Faraone ti alzerà la testa” (Gn 40:13, TNM). Stessa cosa dice poi al capo dei panettieri: “Fra tre giorni Faraone ti alzerà la testa” (Gn 40:19, TNM). “Il terzo giorno, che era il compleanno del faraone, egli fece un banchetto per tutti i suoi servitori e alzò la testa al capo dei coppieri e la testa al capo dei panettieri in mezzo ai suoi servitori” (Gn 40:20). Ora, il lettore crede di comprendere questo linguaggio (alzare la testa): potrebbe riferirsi al ripristino dei due nei loro precedenti incarichi. Così è, ma solo per il capo dei coppieri. “[Il faraone] ristabilì il capo dei coppieri nel suo ufficio di coppiere, perché mettesse la coppa in mano al faraone, ma fece impiccare il capo dei panettieri” (Gn 40:21,22). Anche noi, in italiano, diciamo “rialzare la testa” per intendere la ripresa dopo un periodo infausto. Ma qui la Bibbia usa un gioco di parole, alquanto ironico, per intendere nel secondo caso che la testa del capo dei panettieri fu sì alzata, ma per mettergli il cappio al collo e impiccarlo.

   Dopo la ricongiunzione familiare che ci fu, Giacobbe, sul letto di morte, “chiamò i suoi figli” (Gn 49:1) per benedirli. La benedizione che diede a suo figlio Giuda contiene un gioco di parole che punta sulle assonanze terèftaròftoràf: “Giuda è un giovane leone; tu risali dalla preda [טֶּרֶף (terèf)], figlio mio [בְּנִי (benì)]” (Gn 49:9). Il senso evidente è che Giuda è paragonato a un cucciolo di leonessa che sa prendersi la sua preda non temendo nessuno; “figlio mio” è un’affettuosità rivolta ovviamente a Giuda. Ora, se assumiamo le due espressioni senza punteggiatura, com’è effettivamente nel testo (“preda figlio mio”), si può intendere: ‘Tu (Giuda) risali dalla preda figlio mio’, in cui la preda è identificata con “figlio mio” e alluderebbe a un altro figlio che fu “preda” ovvero Giuseppe. Infatti, quando Giuda aveva ordito di vendere Giuseppe come schiavo (Gn 37:26,27), Giacobbe, cui era stata presentata una veste insanguinata perché credesse che Giuseppe era stato sbranato, disse: “È la veste di mio figlio. Una bestia feroce l’ha divorato; certamente Giuseppe è stato sbranato [טָרֹף טֹרַף (taròf toràf)]”. – Gn 37:33.

   Mentre si preparava l’Esodo, “il Signore fece in modo che il popolo ottenesse il favore degli Egiziani, i quali gli diedero quanto domandava. Così spogliarono [יְנַצְּלוּ (ynàtzlu)] gli Egiziani” (Es 12:36). La parola יְנַצְּלוּ (ynàtzlu) appartiene al verbo נָצַל (natzàl) che, oltre a significare “saccheggiare”, significa “salvare”. Ironicamente, con un gioco di parole, si può leggere che gli ebrei “salvarono gli egiziani”, suggerendo l’idea che quegli egiziani si salvarono rifornendo gli israeliti di regali, a differenza di quelli morti annegati al Mar Rosso.

   “Non contaminate le vostre persone per mezzo di uno qualsiasi di questi animali che strisciano sulla terra” (Lv 11:44). Si ha qui il divieto divino di cibarsi di animali impuri. Si noti ora la motivazione: “Poiché io sono il Signore che vi ho fatti salire [הַמַּעֲלֶה (hamaalèh)] dal paese d’Egitto, per essere il vostro Dio. Siate dunque santi, perché io sono santo” (v. 45). Ora, normalmente, la Bibbia usa un’espressione diversa, presente nello stesso Lv: “Io sono il Signore vostro Dio; io vi ho fatto uscire [הֹוצֵאתִי (hotztìy)] dal paese d’Egitto” (19:36). L’inusuale forma הַמַּעֲלֶה (hamaalèh) – “Vi ho fatto salire” – fa riferimento al verbo עָלָה (alàh) che ha un significato molto vasto. Significa “salire” (che pur si adatta all’Esodo), ma significa anche “crescere”. Si avrebbe così che Dio dice agli ebrei: “Vi ho fatto crescere”, nel senso di averli educati. Con questo gioco di parole si allude all’educazione che Dio dava con la sua Toràh (= insegnamento), aiutandoli a crescere e a maturare spiritualmente.

   Quando Core e i suoi seguaci “insorsero contro Mosè” nel deserto, “radunatisi contro Mosè e contro Aaronne, dissero loro: «Basta! [רַב (rav)]»” (Nm 16:2,3). Essi stavano reclamando perché Mosè e Aaronne avevano troppo potere. La parola רַב (rav) significa sia “abbondante” sia “sufficiente”. Si può quindi intendere: “È troppo!” oppure “è sufficiente” (“Vi basti”, TNM). Mosè risponde: “Vi sembra poco [הַמְעַט (hameàt)] che il Dio d’Israele vi abbia scelti in mezzo alla comunità d’Israele e vi abbia fatto avvicinare a sé per fare il servizio del tabernacolo”? (Nm 16:9). Al che, con un gioco di parole, ribattono: “Ti sembra poco [הַמְעַט (hameàt)] l’averci fatto uscire da un paese dove scorre il latte e il miele, per farci morire nel deserto?” (Nm 16:13). Il gioco di parole serve qui a loro per deridere Mosè usando non solo le sue stesse parole ma anche usando una frase simile alla sua. All’iniziale accusa che non era poco il potere che Mosè aveva, questi replica retoricamente che non era poco neppure ciò che avevano i suoi accusatori, tuttavia tale retorica viene impiegata contro di lui affermando che non era poco neppure ciò che stavano patendo nel deserto.

   Il notissimo passo di Dt 8:3 (“Per insegnarti che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca [פִי (fy)] del Signore”), ricordato anche da Yeshùa in Mt 4:4, contiene un doppio gioco di parole. Il pane ovviamente si mette in bocca per cibarsene, quindi va in bocca. L’insegnamento è però che si vive anche di ciò che viene dalla bocca di Dio. Inoltre, la parola פֶּה (peh), “bocca”, è assonante a “comandamento”: “Secondo l’ordine [פִי (fy)] che il Signore” (Es 17:1, CEI). Potrebbe quindi leggersi: “Vive di tutto quello che procede dal comandamento [פִי (fy)] del Signore”.

   “Sansone disse: «Con una mascella d’asino [חֲמֹור (khamòr)], un mucchio! due mucchi! [חֲמֹור חֲמֹרָתָיִם (khamòr khamortàym)] Con una mascella d’asino [חֲמֹור (khamòr)] ho ucciso mille uomini»” (Gdc 15:16). La parola ebraica חֲמֹור (khamòr) significa sia “asino” sia “cumulo/mucchio”. Che cosa vuol dire “un mucchio, due mucchi”? L’ebraico biblico è senza vocali, quindi, modificando la puntazione vocalica aggiunta secoli dopo dai masoreti, Sansone usa un gioco di parole e dice: “Con una mascella d’asino li ho ammucchiati ben bene, con una mascella d’asino ho ucciso mille uomini”. – Cfr. LXX: “Li ho completamente sbaragliati”.

   Saul aveva avuto l’ordine da Dio di non risparmiare nulla, neppure gli animali, distruggendo gli amalechiti (1Sam 15:3). Dopo l’intervento, lui fa rapporto al profeta Samuele e dice: “Ho eseguito l’ordine del Signore” (1Sam 15:13). Al che, con molta ironia, “Samuele disse: «Che cosa [מֶה (meh)] è dunque questo belar di pecore che mi giunge agli orecchi e questo muggire di buoi che sento?»” (1Sam 15:14). L’ironia è resa ancor più toccante dal gioco di parole: מֶה (meh) significa “che cosa” ma evoca anche il belato delle pecore. L’osservazione di Samuele appariva in tal modo inquietante: la domanda stringente “che cosa?” era ineludibile per il belato stesso che si sentiva e che il meh (מֶה) faceva ridondare. Saul pare un bambino che nega di aver rubato la marmellata mentre l’ha ancora sulle labbra. Tenta poi malamente una giustificazione: “Il popolo ha risparmiato il meglio delle pecore e dei buoi per farne dei sacrifici al Signore, al tuo Dio” (1Sam 15:15). Colpa del popolo; e tenta anche di ingraziarsi il profeta: “Al tuo Dio”.

   La giudea Acsa fa una richiesta a suo padre: “Fammi un dono [בְרָכָה (vrachàh)]; poiché tu m’hai stabilita in una terra arida, dammi anche delle sorgenti d’acqua” (Gs 15:19). Splendido gioco di parole. Il vocabolo בְרָכָה (vrachàh) significa “dono”, ma anche “benedizione” e “piscina”. Gustosissima la scena in cui Acsa dice al padre: “Fammi una piscina. La terra che mi hai dato si trova in un luogo arido”.

   Dio rimprovera al regno separatista d’Israele di averlo dimenticato e dice che è in attesa di distruggerli: “Sono diventato per loro come un leone; li spierò [אָשׁוּר (ashùr)] sulla strada come un leopardo” (Os 13:7). Si notino ora queste due parole:

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   Sono in sostanza identiche, con l’unica differenza che la seconda (אַשּׁוּר) presenta nella seconda lettera da destra (שּׁ) un punto dentro la lettera (che si chiama daghèsh) per indicare che la sua pronuncia (sh o sc come nella parola scena) è raddoppiata. La prima parola (אָשׁוּר), ashùr, significa “spierò”; la seconda (אַשּׁוּר), Asshùr, significa “Assiria”. Con il gioco di parole si ha: לָהֶם (lahèm), “per loro”, עַל־דֶּרֶךְ אָשׁוּר (al-dèrech Asshùr), “sulla strada [c’è] l’Assiria [אַשּׁוּר (Asshùr)]”. Era stato detto: “Efraim [= Regno di Israele] . . . fa alleanza con l’Assiria”, “L’Assiria non ci salverà”. – Os 12:2;14:3.

   Boaz dice alla brava Rut: “Il Signore ti dia il contraccambio di quel che hai fatto, e la tua ricompensa sia piena [שְׁלֵמָה (shlemàh)] da parte del Signore” (Rut 2:12). È sorprendente qui il gioco di parole. Si tenga presente che l’ebraico (che già di per sé si scrive senza vocali) nel testo biblico non aveva i segni diacritici che i masoreti aggiunsero in seguito per indicare le vocali. La parola “piena” è dunque scritta così nella Bibbia: שלמה (shlmh). Ora, questa parola può essere letta anche Shlomòh (שְׁלֹמֹה), “Salomone”. Stupendo il gioco di parole che suona profetico: “Il Signore ti dia il contraccambio di quel che hai fatto, e la tua ricompensa sia Salomone”. “Boaz generò Obed da Rut; Obed generò Iesse; Iesse generò Davide, il re. Davide generò Salomone”. – Mt 1:5,6, TNM.