Lo scopo fondamentale della Scrittura è certamente d’insegnare a vivere una vita spirituale nell’ubbidienza a Dio. Ciò non toglie che molte delle storie contenute nella Bibbia siano alquanto divertenti.
Alcune situazioni narrate sono di per sé spiritose e possono includere anche immagini altrettanto spassose. Si pensi alla piaga delle rane. “Aronne stese la mano sui corsi d’acqua, e una quantità enorme di rane ricoperse tutto l’Egitto” (Es 8:2, TILC). È già di per sé comico che la potente nazione egiziana fosse ricoperta da rane saltellanti. Ma è ancora più comico che i maghi egizi, per ridimensionare e svilire il portento ebraico, aggravassero notevolmente la situazione: “I maghi con i loro incantesimi fecero la stessa cosa, e così nell’Egitto le rane aumentarono incredibilmente”. – V. 2, TILC.
Vi è anche umorismo nella parola usata per descrivere la preghiera di Mosè a Dio per far cessare la piaga delle rane: “Mosè implorò [יִּצְעַק (yitzàq); “gridò” (TNM); nel Testo Masoretico è al v. 8] il Signore circa le rane che aveva inviate contro il faraone” (Es 8:12, TILC). Il verbo יִּצְעַק (yitzàq) significa “gridò”. Perché mai gridare? Per farsi sentire, dato il gracidare assordante delle rane!
Quando Sara morì, Abraamo cercò un posto dove seppellirla e lo individuò nella “grotta di Macpela” (Gn 3:1-9). I negoziati tra Abraamo e Efron per la cessione della grotta sono un esempio d’umorismo utilizzato per mostrare la differenza tra una brava persona e un individuo mediocre. Efron dice ad Abraamo: “No, mio signore, ascoltami! Io ti do il campo e ti do la grotta che vi si trova; te ne faccio dono, in presenza dei figli del mio popolo; seppellisci la salma” (Gn 23:11). Abraamo rifiuta di accettare il terreno gratuitamente, forse perché sospetta che Efron faccia il gesto solo perché i suoi compaesani erano lì a guardare. Abraamo risponde: “Ti prego, ascoltami! Ti darò il prezzo del campo, accettalo da me, e io seppellirò lì la salma” (v. 13). Ora la scena si fa comica. Facendo sempre finta di volergliela regalare, Efron intanto ne fissa furbescamente il prezzo: “Signor mio, ascoltami! Un pezzo di terreno di quattrocento sicli d’argento, che cos’è tra me e te? Seppellisci dunque la salma” (v. 15). Abraamo, che aveva già capito la manfrina, alla fine paga la somma (v. 16), che è scandalosa (Geremia pagherà solo “diciassette sicli d’argento” un appezzamento migliore – Ger 32:8). La scena assume anche una coloritura tristemente tragicomica, giacché ogni volta, nel botta e risposta, viene menzionata la salma della povera Sara, lì in attesa di essere tumulata.
“Eud si fece una spada a doppio taglio lunga mezzo metro, se l’appese al fianco destro e la nascose sotto il vestito. Portò il tributo al re di Moab, Eglon, che era molto grasso. Dopo aver consegnato il tributo, Eud ordinò agli uomini che lo avevano accompagnato di mettersi in viaggio verso casa. Egli invece tornò indietro dal luogo detto degli Idoli vicino a Galgala, si presentò di nuovo al re e gli disse: «Ho un messaggio segreto per te». Eglon gli disse: «Aspetta!», e fece uscire i servi. Stava seduto in una camera al piano superiore a lui riservata per prendere fresco. Eud gli si avvicinò e disse: «Quel che ho da dirti viene da Dio!». Il re allora si alzò in piedi ed Eud con la sinistra tirò fuori la spada dal fianco e gliela piantò nel ventre; essa penetrò dentro tutta intera, lama e impugnatura, tanto che il grasso la ricoprì; senza nemmeno estrarla, Eud uscì dalla finestra. Ma prima di uscire chiuse la porta e mise il chiavistello. Eud si allontanò. Quando i servi vennero e videro che la porta del piano di sopra era sprangata, pensarono che Eglon fosse dentro per i suoi bisogni” (Gdc 3:16-24, TILC). Oltre alla comicità della scena, c’è un gioco di parole nel messaggio di Eud a Eglon. Lui gli dice: “Ho per te una parola [דְּבַר (dvàr)] di Dio” (v. 20, TNM). Il vocabolo דְּבַר (dvàr) non significa solo “parola” ma anche “cosa”. Noi diremmo maliziosamente, preparandoci a godere della brutta sorpresa riservata a qualcuno: Ho una cosetta per te; l’ebraico va oltre con il gioco di parole.
Saul, futuro primo re di Israele, era “un bel giovane alto e forte” (1Sam 9:2, TILC). Accompagnato dai suoi, cercava il profeta Samuele. “Mentre percorrevano la salita che conduce alla città, trovarono delle ragazze che uscivano ad attingere acqua e chiesero loro: «È qui il veggente?»” (1Sam 9:11). Si noti il modo sbrigativo con cui Saul chiede l’informazione: solo le parole necessarie. Le ragazze però sono ciarliere e si dilungano nel rispondergli: “Sì, c’è; è là dove sei diretto; ma va’ presto, poiché è venuto oggi in città, dato che oggi il popolo fa un sacrificio sull’alto luogo. Quando sarete entrati in città, lo troverete di certo, prima che egli salga all’alto luogo a mangiare. Il popolo non mangerà prima che egli sia giunto, perché è lui che deve benedire il sacrificio; dopo di che, i convitati mangeranno. Salite dunque, perché proprio ora lo troverete” (vv. 12,13). È notevole la psicologia femminile che colora il testo: le ragazze, data la bellezza e l’avvenenza di Saul, lo trattengono un po’; e lo fanno con scaltrezza tutta femminile senza dare nell’occhio, perché mentre gli dicono: “Ma va’ presto”, però intanto si dilungano.
Dopo averlo convinto a non uccidere suo marito per lo sgarbo che gli aveva fatto, Abigail dice al re Davide: “Quando il Signore [= Dio] avrà fatto del bene al mio signore [= Davide], ricòrdati della tua serva” (1Sam 25:31). Il Talmùd Babilonese, in Meghilà 14b, suggerisce che Abigail stesse dicendo a Davide di ricordarsi di lei nel senso di sposarla, sapendo che Dio avrebbe finalmente punito suo marito, “quell’uomo da nulla che è Nabal” (1Sam 25:25) per i suoi misfatti. Questo è ciò che, in effetti, avvenne (1Sam 25:39-42). L’avvedutezza e l’abilità tutta femminile di Abigail è fatta risaltare nel testo con due tratti. Accettando la richiesta di matrimonio di Davide, lei dice, tutta sottomessa: “Ecco, la tua serva farà da schiava, per lavare i piedi ai servi del mio signore” (1Sam 25:41). Si noti: “Schiava, per lavare i piedi ai servi del mio signore”. Più di così! Ma poi, al versetto successivo, si annota che “Abigail si alzò in fretta, montò sopra un asino e, con cinque fanciulle, seguì i messaggeri di Davide e divenne sua moglie” (v. 42). Ben cinque cameriere. Forse per essere aiutata nella lavanda dei piedi?
Il libro di Giona è una parabola magistrale. Giona, a differenza di tutti gli altri profeti, fece di tutto per rifiutarsi di annunciare il messaggio divino (nel suo caso, la distruzione di Ninive). Tentò perfino di fuggire da Dio, imbarcandosi su una nave. Alla fine, costretto, si piegò a pronunciare la sua profezia: “Ancora quaranta giorni, e Ninive sarà distrutta!” (Gna 3:4). In italiano sono sette parole. In ebraico, ancora meno: cinque. Mai profezia fu più breve. Gli altri profeti, animati da sacro ardore, spesero parole e parole con scarso successo. Giona, malvolentieri e per forza, disse solo cinque parole. Il risultato? “I Niniviti credettero a Dio, proclamarono un digiuno, e si vestirono di sacchi, tutti, dal più grande al più piccolo. E poiché la notizia era giunta al re di Ninive, questi si alzò dal trono, si tolse il mantello di dosso, si coprì di sacco e si mise seduto sulla cenere. Poi, per decreto del re e dei suoi grandi, fu reso noto in Ninive un ordine di questo tipo: ‘Uomini e animali, armenti e greggi, non assaggino nulla; non vadano al pascolo e non bevano acqua; uomini e animali si coprano di sacco e gridino a Dio con forza; ognuno si converta’”. – Gna 3:5-8.
Boaz dice a Rut: “Ascolta, figlia mia; non andare a spigolare in un altro campo; e non allontanarti da qui, ma rimani con le mie serve” (Rut 2:8). La sua preoccupazione è che Rut non sia molestata dai mietitori di sesso maschile. Quando poi Rut rientra a casa la sera, riferisce a sua suocera Noemi le parole di Boaz. Ma con una piccola modifica. “Mi ha anche detto: «Rimani con i miei servi, finché abbiano finita tutta la mia mietitura»” (Rut 2:21). Lei, a “serve [נַעֲרֹת (naaròt)]” sostituisce “servi [נְּעָרִים (naarìm)]”. Lapsus per far capire a Noemi che lei aveva bisogno d’un marito? Noemi, che la sa lunga, le risponde: “È bene, figlia mia, che tu vada con le sue serve” (Rut 2:22), spiegandole però poi come comportarsi per farsi sposare. – Rut 3.
Il libro di Ester contiene situazioni tra le più ironiche e divertenti. La storia inizia con il re persiano “Assuero che regnava dall’India fino all’Etiopia” (1:1) che dà una festa per il popolo di Susa, capitale del suo regno. “Dopo sette giorni di banchetto, il re, ormai eccitato dal troppo vino, ordinò di far venire accanto a sé la regina Vasti, ornata del turbante regale. Voleva mostrare ai principi e a tutta la gente la sua bellezza, che era davvero eccezionale” (1:10.11, TILC). Lei, sentendosi svilita nella sua dignità, rifiuta. Situazione imbarazzante per il re: ne va del prestigio della corona! Sicché, si consulta con i suoi consiglieri. Questi, tutti maschilisti, hanno le idee chiare: “Questo rifiuto della regina può incoraggiare qualsiasi donna a mancare di rispetto a suo marito. Le mogli potrebbero cominciare a dire: neppure la regina Vasti ha ubbidito quando Assuero, che era il re, l’ha mandata a chiamare! Le mogli dei funzionari dei Medi e dei Persiani, che avranno saputo del comportamento della regina Vasti, oggi stesso terranno testa ai loro mariti: sarà quanto basta per provocare insolenze e litigi” (1:17,18, TILC). Così, fu emanato nientemeno che “un decreto” da inserire “nella raccolta delle leggi dell’impero”, che stabiliva che “Vasti non potrà più comparire alla presenza del re Assuero e che un’altra, più meritevole di lei, diventerà regina al suo posto”. Il decreto, firmato dal re, fu diffuso nell’“immenso impero” (1:19,20 TILC). E, giacché c’erano, inserirono un’altra ordinanza, così che il decreto “stabiliva così che l’uomo doveva essere il capo in ogni famiglia e imporre l’uso della sua lingua materna” (1:22, TILC). Quest’ultimo comma del decreto (che in casa propria si dovesse parlare la lingua materna) è non solo superfluo ma ridicolo (per affermare il loro maschilismo insistono che si parli la lingua materna). C’è da domandarsi se l’agiografo non vi abbia posto l’accento per far di quei maschilisti uno zimbello. Verso la fine della storia, la nuova regina (la giudea Ester) viene implorata dal malvagio Aman per ottenere la grazia della vita “perché vedeva bene che nel suo cuore il re aveva deciso la sua rovina” (7:7). “Ester era sdraiata sul divano. Aman le si era appena avvicinato”; la scena si fa comica, perché il re rientra proprio allora: “Lo vide e gridò: «Quest’uomo vuole addirittura far violenza alla regina in casa mia, davanti ai miei occhi!». Con questa parola del re, Aman era ormai condannato” (7:8, TILC). Questo Aman, il più alto in grado dopo il re, aveva architettato lo sterminio degli ebrei. Alla fine, ironia della sorte, “impiccarono Aman al palo che lui stesso aveva innalzato per Mardocheo”, il cugino giudeo di Ester. – 7:10, TILC.
L’ebreo Sansone sta per sposare una donna filistea, e i filistei erano nemici di Israele. In Gdc 14:11-14 si legge: “Appena i parenti della sposa videro Sansone, invitarono trenta compagni perché stessero con lui. Sansone disse loro: «Io vi proporrò un enigma; se voi me lo spiegate entro i sette giorni del convito e se l’indovinate, vi darò trenta tuniche e trenta vesti; ma, se non me lo potete spiegare, darete trenta tuniche e trenta vesti a me». Quelli gli risposero: «Proponi il tuo enigma e noi l’ascolteremo». Egli disse loro: «Dal mangiatore è uscito del cibo, e dal forte è uscito il dolce»”. I trenta invitati non riescono a risolvere l’enigma e sono perplessi, soprattutto perché l’indovinello non ha alcun senso, prima di tutto perché non si sa che Sansone aveva visto di recente del miele depositato dalle api nella carcassa di un leone (14:8), miele che lui aveva raschiato e mangiato (14:9). Incaponiti, “essi dissero alla sposa di Sansone: «Cerca di convincere tuo marito a spiegarti per noi l’indovinello: altrimenti faremo bruciare te e la casa di tuo padre. Voi due ci avete invitati qui apposta per derubarci?»” (v. 15). La loro reazione, così sproporzionata, è di per sé già grottesca. Il racconto continua nello spasso. Come se si trattasse di chissà quale grande segreto, Sansone le dice: “Non l’ho spiegato nemmeno a mio padre e a mia madre. Figurati se lo dico a te!” (v. 16, TILC). “Alla fine, stanco di essere tormentato, lui le spiegò l’indovinello. Ed essa subito informò i suoi compaesani” (v. 17, TILC). Anche il commento finale di Sansone, dopo che sua moglie ha ottenuto la soluzione, è spiritoso: “Non è farina del vostro sacco. Da soli non avreste indovinato” (v. 18, TILC); l’ebraico è più colorito: “Se non aveste arato con la mia giovenca, non avreste indovinato il mio enigma”. Comunque, ora deve pagare la scommessa. Colpo finale, sempre esilarante: “Scese ad Ascalon e uccise trenta persone. Tolse ad essi i vestiti, e li diede ai Filistei che avevano risolto l’indovinello. Poi tornò a casa di suo padre, pieno di rabbia. La sposa di Sansone fu data in moglie a quel giovane che aveva organizzato la festa di nozze per Sansone”. – Vv. 19,20, TILC.