Chi è il profeta? La gente in genere risponde: profeta è chi annuncia il futuro. Se poi chi risponde è una persona religiosa e conosce qualcosa della Bibbia, potrebbe aggiungere alcuni nomi di profeti: Isaia, Geremia … Difficilmente si va oltre. Si potrebbe dire i libri profetici della Bibbia siano per le persone, anche religiose, qualcosa d’indecifrabile, qualcosa di sigillato. Si potrebbe applicare loro quanto dice proprio un profeta, Isaia:

“Tutte le visioni profetiche sono divenute per voi come le parole di uno scritto sigillato che si desse a uno che sa leggere, dicendogli: ‘Ti prego, leggi questo!’. Egli risponderebbe: ‘Non posso, perché è sigillato!’. Oppure come uno scritto che si desse a uno che non sa leggere, dicendogli: ‘Ti prego, leggi questo! Egli risponderebbe: ‘Non so leggere’”. – Is 29:11,12.

   Questo tipo di persone ha di che consolarsi: anche per gli studiosi i libri profetici conservano una particolare oscurità. Le ragioni sono queste:

  • Non sempre ci sono note le circostanze storiche che sono alla base di certi brani profetici, così noi rimaniamo nell’identica posizione del ministro delle finanze della regina Candace d’Etiopia alla lettura del brano del profeta Isaia riguardante la morte del servo di Yhvh: “’Capisci effettivamente quello che leggi?’. Egli disse: ‘Realmente, come posso, se qualcuno non mi guida?’ […] ‘Ti prego: Di chi il profeta dice questo? Di se stesso o di qualche altro uomo?’”. – At 8:30-34, TNM.
  • Talvolta, brani riguardanti episodi o profezie diverse furono raggruppati insieme nella trasmissione scritta degli oracoli, per cui è molto difficile in questi casi ricostruire il fatto a cui essi si riferiscono. I vaticini profetici dovevano riuscire molto più facili all’ebreo che li sentiva per la prima volta nel loro ambiente naturale e che ne conosceva bene le circostanze storiche che li avevano provocati. Per fare un esempio, ecco un problema che non ha ancora trovato soluzione: Isaia descrive la caduta della Babilonia e l’uccisione del suo re (Is 13 e 14). Ma al tempo di Isaia l’Assiria e non la Babilonia costituiva un problema per Israele. Inoltre, il re di Babilonia non fu ucciso da Ciro quando questi penetrò nella città (che, per di più, non fu per niente distrutta). Come si possono allora spiegare i dati profetici che contrastano con la storia? Intanto – fatto importantissimo – ciò esclude l’ipotesi di un racconto post eventum (scritto dopo che i fatti erano accaduti), perché in tal caso sarebbe stato in armonia con la storia. Ma come spiegare tale contrasto? Va forse riferito a uno sbaglio del profeta ispirato? Alcuni studiosi pensano a due brani distinti che riguardano l’uno l’uccisione del re assiro Sargon (nel 705 a. E. V.) 3 l’altro la distruzione di Babele.
  • Vi sono poi espressioni molto difficili e talvolta dei passi corrotti (questo è specialmente visibile in Osea) che rendono il testo oscuro.

I profeti

   I profeti hanno molto in comune con i sacerdoti perché richiamavano le speciali obbligazioni del popolo verso Dio. Il Dio unico dell’universo, che ha formato il suo popolo e abita in mezzo a loro, fa udire la sua voce mediante i profeti.

   Il profeta è chi ha udito la parola di Dio, la conosce e la può comunicare perché quella parola è ormai divenuta parte integrante del suo stesso essere.

   Il profetismo agì in modo decisivo dal tempo di Samuele (11° secolo a. E. V.) fino al tempo di Malachia (401 a. E. V.), arricchendo e precisando la rivelazione divina.

Divisione dei libri profetici della Bibbia

   La Bibbia ebraica distingue due classi di libri profetici:

  1. Profeti anteriori. Contengono gli scritti storici da Giosuè alle Cronache, passando da Giudici, Samuele e Re. Da questo fatto appare chiaro come questi libri, più che presentarci eventi storici, intendono presentarci una dottrina teologica.
  2. Profeti posteriori. Raccolgono gli scritti propriamente profetici e si distinguono in:

a)       Profeti maggiori. Sono tre: Isaia, Geremia ed Ezechiele. Le versioni greca (LXX) e latina (Vulgata) della Bibbia – seguite dai cattolici – vi aggiungono anche Daniele, che la Bibbia ebraica colloca invece tra i ketuvìm (scritti dei saggi); vi aggiunge, dopo Geremia, le Lamentazioni, che la Bibbia ebraica pone tra sempre tra i ketuvìm (rimanenti “scritti”).

   La dicitura “maggiori” non deve trarre in inganno: non si tratta di profeti più importanti, ma di scritti più lunghi.

b)       Profeti minori. Sono i dodici profeti, chiamati “minori” non perché siano meno importanti o inferiori a quelli “maggiori”, ma perché hanno lasciato scritti di estensione minore rispetto agli altri. Essi sono: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia.

Nomi dei profeti

   Spesso i nomi ci sono utili perché ci fanno intuire la situazione del tempo in cui essi sono stati creati per venire incontro a nuove esigenze e situazioni. È quindi utile iniziare lo studio del profetismo biblico con un esame dei vari nomi attribuiti ai profeti.

   Il nome più antico attribuito ai profeti è quello di roèh (ראה) e di khozèh (חֹזֵה), significanti entrambi “veggente”.

   Roèh (ראה) è il participio attivo di raàh (“vedere”) e si applica non a tutti coloro che vedono, ma a chi ha una visione di Dio, a chi vede – grazie alla forza divina – realtà che sfuggono ai sensi altrui (greco βλέπων, blèpon; latino videns). Nella Bibbia il termine si rinviene 9 volte, di cui sette volte in Samuele.

   I due passi che attribuiscono tale nome al di fuori di Samuele sono criticamente sospetti. Si tratta di 2Cron 16:7,10, in cui il nome roèh è attribuito a Canani (9° secolo a. E. V.): “In quel tempo Hanani il veggente [הָרֹאֶה (haroèh)] […]”, “Comunque, Asa si offese col veggente [הָרֹאֶה (haroèh)]” (TNM). La lezione roèh (רֹאֶה) è dubbia per il fatto che qui, in tutti e due i versetti, la LXX greca ha προφήτης (profètes) e non βλέπων (blèpon); la Vulgata ha propheta e non videns.

   È corrotto 1Cron 2:52 dal nome proprio Haroe: “Sobal padre di Chiriat-Iearim ebbe figli: Haroe [הָרֹאֶה (Haroèh)], metà dei Menuot”. – TNM.

   In Is 30:20 c’è il plurale roòt (femminile di rohìm): “I tuoi occhi dovranno divenire [occhi] che vedono [רֹאֹות (roòt), “vedenti”] il tuo grande Insegnante” (TNM). Ma si tratta di visione non profetica, come in Is 26:1-11;33:17-20.

   In 1Sam 9:9 c’è una glossa (annotazione) preziosa: Saul va a consultare Samuele per ritrovare le asine perdute, ed ecco la glossa: “(In tempi precedenti in Israele così l’uomo avrebbe detto quando andava a cercare Dio: ‘Venite, e andiamo dal veggente [הָרֹאֶה (haroèh)]’. Poiché in tempi precedenti il profeta [נָּבִיא (naviý)] d’oggi era chiamato veggente [רֹאֶה (roèh)])” (TNM). Da questo si nota come nel periodo dei re il nome “profeta” andò gradatamente sostituendo il precedente nome di “veggente”. Tuttavia, nella redazione attuale delle Scritture Ebraiche il nome di “profeta” è applicato anche alla manifestazione profetica di Mosè.

   Khozèh (חֹזֵה) è il participio qal del verbo khazàh (“vedere”), con il significato di “veggente”. Che differenze ci sono tra khozèh e roèh? Ci sono diverse ipotesi:

  1. Il khozèh sarebbe un profeta aulico (di corte), come Gad: “La parola del Signore fu così rivolta al profeta Gad, il veggente [חֹזֵה (khozèh)] di Davide” (2Sam 24:11), “Il Signore parlò così a Gad, il veggente [חֹזֵה (khozèh)] di Davide” (1Cron 21:9). È l’ipotesi di S. Lee (An Inquiry into the Nature, Progressand End of Prophecy, Cambridge 1849). Che i re avessero dei profeti aulici appare da 1Re 18:19,22;20:13; 2Re 3:11; 1Sam 14;16:6. Ma questi profeti erano generalmente chiamati “profeti” (naviým) e non “veggenti” (khozìm). Amos non era un profeta aulico, tant’è vero che fu cacciato dal re Amazia, ma è chiamato khozèh. Isaia e Geremia, pur dando continui consigli ai re, non sono mai chiamati khozèh. Questa ipotesi va quindi respinta.
  2. Il khozèh sarebbe un falso profeta. Così sostiene E. Koenig (Die Prophetie del A. T. nach ihren Quellpunkten beleuchtet, 1913). Questa ipotesi poggia sul fatto che roèh non è mai applicato al falso profeta, mentre spesso lo è il termine khozèh. La vera visione profetica sarebbe chiamata con la radice raàh: “Io, comunque, vedevo [אֶרְאֶה (erèh), “vidi”] Geova” (Is 6:1, TNM), “La parola di Geova continuò a essermi rivolta, dicendo: ‘Che    vedi [רֹאֶה (roèh)], Geremia?’” (Ger 1:11, TNM). La falsa visione sarebbe chiamata invece con la radice khazàh: “Egli chiude i vostri occhi, i profeti, e ha coperto anche le vostre teste, i visionari [חֹזִים (khozìm)]” (Is 29:10, TNM), “Hanno detto a quelli che vedono: ‘Non dovete vedere’, e a quelli che hanno visioni [חֹזִים (khozìm), “visionari”]: ‘Non dovete avere per noi visioni” (Is 30:10, TNM). Amos, che sarebbe considerato uno pseudoprofeta, è detto khozèh. In Mic 3:7 i falsi profeti sono detti khozìm (plurale di khozèh): “I visionari [חֹזִים  (khozìm)] si dovranno vergognare” (TNM). E sostenibile questa ipotesi? Va notato che la falsità del khozèh è indicata non dal vocabolo in sé, ma dal contesto e dall’aggiunta di parole esplicative: “Geremia il profeta diceva ad Hanania il profeta: “Ascolta, ti prego, Hanania! Geova non ti ha mandato, ma tu stesso hai fatto confidare questo popolo nella falsità” (Ger 28:15, TNM); “Hanno avuto visione di una falsità e di una divinazione menzognera, quelli che dicono: ‘È l’espressione di Geova’, quando Geova stesso non li ha mandati, e hanno aspettato per far avverare la parola” (Ez 13:6, TNM). Va detto inoltre che anche la parola naviý (“profeta”) può ricevere un senso peggiorativo che usualmente non ha: “I profeti stessi effettivamente profetizzano con falsità” (Ger 5:31, TNM), “I profeti profetizzano in nome mio falsità. Io non li ho mandati” (Ger 14:14, TNM). Lo stesso fenomeno avvenne anche per il termine khozèh che non ha per se stesso senso peggiorativo. Questa ipotesi commette lo stesso errore – per fare un esempio semplice – che commettono i Testimoni di Geova nel rifiutare i festeggiamenti per i compleanni. Il dato richiamato è questo: “La Bibbia fa esplicito riferimento solo a due celebrazioni di compleanni, quello del faraone d’Egitto (XVIII secolo a.E.V.) e quello di Erode Antipa (I secolo E.V.). I due avvenimenti sono simili, in quanto in entrambi i casi ci fu un grande banchetto e vennero concessi favori; entrambi sono ricordati per delle esecuzioni capitali: l’impiccagione del capo dei panettieri del faraone nel primo caso, la decapitazione di Giovanni il Battezzatore nel secondo. — Ge 40:18-22; 41:13; Mt 14:6-11; Mr 6:21-28” (Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 1, pag. 525, alla voce “Compleanno”). E il ragionamento erroneo applicato è il seguente: “È chiaro dunque che la celebrazione del compleanno non trae origine né dalle Scritture Ebraiche né da quelle Greche” (Ibidem, ultimo §). Come dire: siccome gli unici due casi biblici di compleanno riguardano persone non ebree e sono casi funesti, quindi il festeggiare un compleanno va respinto. Questa logica è miope. L’unico caso in cui la Bibbia menziona una spugna imbevuta d’aceto riguarda l’uso che ne fece un pagano in occasione dell’assassinio di Yeshùa. Quindi? Quindi, nulla. Anche i pagani vanno in automobile e spesso vi muoiono, non per questo bisogna andare a piedi.

   Qual è allora la spiegazione di due termini per la stessa parola “veggente”? Pare che roèh sia il vocabolo ebraico, mentre khozèh un derivato aramaico adottato dalla lingua ebraica. Infatti, l’iscrizione aramaica di Zakìr presenta un khzin quale persona intermediaria tra la divinità e l’uomo.

   La denominazione più recente è naviý (נָּבִיא, “profeta”). Il vocabolo non è di origine ebraica, ma d’importazione. La dimostrazione è che le forme verbali che gli si riallacciano sono tratte dal sostantivo. Nell’ebraico, invece, i sostantivi sono tratti dalla forma verbale. Per fare un esempio che si riferisce alla nostra lingua si pensi al verbo razziare che deriva dalla parola razzia, che è derivata dall’arabo rhazia (con la rh gutturale). Così anche il nostro alcolizzato, derivato da alcool, preso a sua volta dall’arabo al-khul (una polvere sottile di solfati d’antimonio per i cosmetici degli occhi, che presso gli alchimisti designò la parte più sottile ed essenziale di ogni cosa e presso Paracelo lo “spirito” ritenuto l’essenza del vino). L’etimologia del vocabolo נָּבִיא (naviý ), “profeta”, è stata tentata in vari modi:

  1. Radice nb (naviý è scritto nab) esistente in assiro (nabu). Presso gli assiri significava “parlare”, “annunciare”. A questa radice si riallaccia il dio Nebo, dio dell’eloquio (identificato poi dai greci con Ermes, il Mercurio latino, messaggero degli dèi). È a questo dio che si ricollegano i nomi Nabopolassar e Nabucodonosor. Anche gli arabi hanno la radice nabaà (etiopico nabata) che significa “parlare sommessamente”. Il nabaà è chi annuncia, che ha l’incarico di avvertire.
  2. Taluni (Cornill, Kuenene, Gosenius, Wellhausen, Kautsch) pretendono di ricollegare l’ebraico naviý  alla radice nb’ (in cui l’apostrofo indica nella trascrizione il colpo di glottide della lettera àyn: ע), nel senso di “essere in effervescenza”, il che indicherebbe lo stato emotivo del profeta e lo assomiglierebbe ad una fonte la cui acqua è in effervescenza. Ma non pare davvero possibile che la lettera ע (àyn) si sia trasformata in א (àlef).
  3. Più recentemente W. F. Albrigt presentò una nuova originale etimologia. Egli ricollega naviý all’assiro nabū a cui però dà il significato passivo, non attivo, di “essere chiamato”. Il profeta sarebbe così colui che è chiamato da Dio. Questa radice, per la verità, ha tale senso dal 3° millennio alla metà del 1° millennio a. E. V.. Il re era presso gli assiri “colui che è chiamato [nibitu] dal gran dio”. L’aggettivo nabi significa “chiamato” nel Codice di Hammurabi (Prologo 1,52;1,49; Epilogo 24 R 40): “Chiamato dal dio Inlil io sono [nibit Inlil anaku]”. Pare questa l’ipotesi giusta. Così si spiega il fatto che in ebraico le forme verbali derivate dalla parola naviý hanno sempre la forma passiva.

   Il profeta è dunque l’uomo che si sente chiamato da Dio per una missione speciale che lo subordina al volere divino. Il profeta è il riferimento carismatico scelto da Dio per avvertire il popolo dei pericoli inerenti il peccato e che indica la riforma per una vera spiritualità e moralità. Non indica quindi essenzialmente uno che predice il futuro, com’è nell’immaginario popolare. Indica chi è l’ambasciatore scelto da Dio per comunicare la sua volontà. Questo senso appare in modo evidente in Es 4:16 e 7:1,2, in cui il profeta sta a Dio come Aaronne sta a Mosè, come la bocca sta a chi parla:

“Egli parlerà per te al popolo; così ti servirà da bocca e tu sarai per lui come Dio”.

“Vedi, io ti ho stabilito come Dio per il faraone e tuo fratello Aaronne sarà il tuo profeta. Tu dirai tutto quello che ti ordinerò e tuo fratello Aaronne parlerà al faraone”.

“Tuo fratello Aaronne sarà il tuo profeta”: “Tuo fratello Aaronne sarà il tuo naviý”, ossia parlerà per te.

   Questo senso è anche implicito nel vocabolo greco προφήτης (profètes) che non significa affatto “predicente” ma colui che parla per incarico di un altro. Questo è il senso della parola nella lingua greca. Infatti, in Pindaro (Nemea 1,91) Tiresia è detto profètes di Giove. I poeti sono “i profeti delle Muse” (Platone, Fedro). La parola προφήτης (profètes) non deriva da προφάινω (profàino), “preannunciare”; ma da προφημί (profemì), “parlare a nome di un altro”. Che il προ (pro) possa avere un significato sostitutivo appare da una serie di parole come pròdikos (“arbitro”, che a Sparta era il tutore dell’ordine), proàgoros che a Cartagine indicava colui che parlava a nome della città. A Deflo c’era una classe di profeti che doveva interpretare le frasi oscure della pitonessa. – Erodoto, Hist. 8,30.37; Plutarco, De Delph. 51.

   I profeti biblici hanno coscienza di essere gli strumenti di Dio, per cui essi sono la bocca di Dio: “Tu sarai come la mia bocca” (Ger 15:19). A ragione Agostino scriveva che “il profeta di Dio non è altro che l’annunciatore della parola di Dio agli uomini” (Quaest. In Heptateuch. 2,17 PL 34,601). Filone lo chiama “ermeneuta”, “interprete”. – De monarchia 1,9.

   Il profeta è quindi l’araldo di Dio, il porta parola di Dio. Se ne deduce che la profezia più che una predizione del futuro è un insegnamento morale e spirituale dato in nome di Dio. Si capisce così come nel canone ebraico la categoria dei profeti includa i libri storici – che non erano stati scritti per comunicare notizie storiche del passato, né tanto meno del futuro, ma per comunicare degli insegnamenti spirituali tramite l’interpretazione dei dati storici riguardanti la nazione ebraica. La storia biblica è dunque una categoria a sé, con intento prevalentemente spirituale e non storico.

Altri nomi dei profeti

   Questi altri nomi si riferiscono a Dio che invia oppure agli uomini cui il profeta è inviato.

  1. Riguardo a Dio il profeta è detto:

a)       “Messaggero di Yhvh”: “Aggeo il messaggero di Geova” (Ag 1:13, TNM). In ebraico è מַלְאַךְ יְהוָה (malàch Yhvh). In greco è ἄγγελος κυρίου (ànghelos kürìu). Propriamente, il vocabolo מַלְאַךְ (malàch) si riferisce agli angeli, ma qui è applicato al profeta poiché inviato da Dio, suo messaggero. Anche gli “angeli”, del resto, annunciano il messaggio divino e sono quindi suoi messaggeri. In greco ἄγγελος (ànghelos) significa “messaggero”.

b)       “Uomo di Dio” (אִישׁ אֱלֹהִים, ish elohìm). Tale epiteto è riservato a speciali uomini, come i profeti, che godevano di una speciale intimità con Dio (come Elia, Eliseo, Samuele). “Ora riconosco che tu sei un uomo di Dio, e che la parola del Signore, che è nella tua bocca, è verità”. – 1Re 17:24.

c)        “Servo di Dio” (עֲבָד הַנְּבִיאִים, (èved-haelohìm). “Continuai a mandarvi tutti i miei servitori i profeti” (Ger 7:25, TNM). È sinonimo del precedente, benché sottolinei in modo evidente lo stato di servitù che il profeta aveva con Dio. Il profeta è come uno schiavo nei confronti di Dio: “Mosè servitore del [vero] Dio” (2Cron 24:9; Nee 10:29; Dn 9:11, TNM). Sotto quest’aspetto, il “servo di Dio” per eccellenza, ossia colui che più di ogni altro ha servito Dio nella sua missione, è il messia o cristo, Yeshùa. È per questo che in Is 42:1 e 53:11 egli è presentato come “il servo di Yhvh”: “Ecco, il mio servitore”, “Il mio servitore, recherà una condizione giusta a molti; ed egli stesso porterà i loro errori”. – TNM.

  1. In rapporto con l’uomo sono usati vari nomi per il profeta:

a)       “Guardia” (שֹׁמֵר, shomèr). “Guardia, che hai tu veduto dopo la notte?” (Is 21:11, Did; cfr. 52:8). Il profeta è, infatti, come una guardia che difende il popolo da mali imminenti. Il profeta ha la cura spirituale delle persone che gli sono affidate: “Il Signore vi ha pure mandato tutti i suoi servitori, i profeti; ve li ha mandati continuamente, fin dal mattino, ma voi non avete ubbidito, né avete prestato l’orecchio per ascoltare. Essi hanno detto: ‘Si converta ciascuno di voi dalla sua cattiva via e dalla malvagità delle sue azioni, e voi abiterete di secolo in secolo sul suolo che il Signore ha dato a voi e ai vostri padri; non andate dietro ad altri dèi per servirli e per prostrarvi davanti a loro; non mi provocate con l’opera delle vostre mani, e io non vi farò nessun male’. ‘Ma voi non mi avete dato ascolto’, dice il Signore” (Ger 25:4-7: cfr. Ez 16:2;20:4). Sotto quest’aspetto il profeta è come un mediatore tra Dio e l’uomo. – Es 9:28,33; Is 66:7.

b)       “Sentinella” [צַפֶּה (tzopèh). “Va’, metti una sentinella; che essa annunzi quanto vedrà!” (Is 21:6). Il profeta è come posto su di un luogo elevato e spia l’accostarsi del nemico per avvertire i cittadini: “Io starò al mio posto di guardia, mi metterò sopra una torre, e starò attento a quello che il Signore mi dirà” (Ab 2:1). Sebbene TNM non distingua tra “guardia” e “sentinella” (cfr., in TNM, Is 21:11 e 21:6, in cui le due parole ebraiche diverse sono sempre tradotte “sentinella”), l’ebraico ha due parole differenti: “Guardia” (שֹׁמֵר, shomèr), esaminata al precedente punto a); “Sentinella” (צַפֶּה, tzopèh).

c)        “Pastore” (רֹעֶה, roèh). “Saranno afflitti, perché non c’è pastore” (Zc 10:2, TNM). Il profeta è come un custode del popolo perché vigila su di esso come su un gregge affidatogli da Dio per fargli evitare i pericoli e condurlo al ricco pascolo della sua parola: “Quanto a me, io non mi sono rifiutato di essere loro pastore agli ordini tuoi, né ho desiderato il giorno funesto, tu lo sai; quanto è uscito dalle mie labbra è stato manifesto davanti a te”. – Ger 17:16.